Il Giubileo è Cultura. Rembrandt e Burnand a Roma (Chiesa di San Marcello al Corso fino al 2 giugno).

redazione

IL CAMMINO DELLA SPERANZA

Rembrandt e Burnand a Roma

Esposizione a cura di Don Alessio Geretti:

Il Giubileo è cultura

Il Giubileo è cultura. Coinvolge necessariamente i migliori linguaggi dell’essere umano nel suo desiderio del contatto con Dio, nel suo cercare ragioni di speranza e – per i credenti – nel suo testimoniare Cristo nostra speranza. In particolare, gli eventi d’arte pensati nel cammino del Giubileo 2025, sia nei due anni di preparazione sia durante il suo svolgimento, lanciano un messaggio: un’opera d’arte è “un’altra Porta Santa”, un varco aperto, attraverso il quale il visibile e l’invisibile, il materiale e lo spirituale, il divino e l’umano si incontrano e si toccano reciprocamente. Presentare capolavori d’arte nell’anno del Giubileo, dunque, significa percorrere la via della bellezza, contemplando lo splendore di Cristo, nostra speranza.

  1. Rembrandt e Burnand a Roma: il prossimo evento d’arte e di fede

A Roma nella chiesa di San Marcello al Corso, fino al 2 giugno 2025, si potranno ammirare tutti i giorni, dalle ore 8.00 alle ore 20.00, due opere di eccezionale importanza, in una esposizione a cura di Don Alessio Geretti:

Eugène Burnand Moudon (Svizzera), 1850 – Parigi (Francia), 1921

I discepoli Pietro e Giovanni corrono insieme al sepolcro di Cristo il mattino della Risurrezione 1898, olio su tela, inv. RF 1153 Parigi, Musée d’Orsay

Rembrandt Harmenszoon van Rijn Leida (Paesi Bassi), 1606 – Amsterdam (Paesi Bassi), 1669

La Cena in Emmaus 1629 circa, olio su carta applicata su tavola, inv. MJAP-P 848 Parigi, Institut de France – Musée Jacquemart-André

Si tratta di due dei più celebri dipinti al mondo dedicati al giorno pasquale, il giorno della Risurrezione di Gesù Cristo dai morti: l’opera di Burnand si concentra sull’alba di quel giorno, il dipinto di Rembrandt sul suo tramonto. Idealmente, vengono così evocati tutti i momenti, le sconvolgenti emozioni e gli incontri del giorno che cambiò per sempre la storia dell’umanità.

  1. Dentro i capolavori

L’ALBA.

Quando Burnand dipinse il suo ammiratissimo quadro aveva quasi 50 anni: lo presentò nel 1898 al Salon, l’annuale rassegna parigina che radunava annualmente le nuove opere degli artisti. Riscosse subito un successo clamoroso, tanto che lo Stato lo acquistò, destinandolo al Musée du Luxembourg. Da allora è sempre rimasto nelle raccolte pubbliche francesi, passando anche per il Louvre, per approdare poi all’attuale sede. L’artista era nato nella Svizzera francese, da una famiglia protestante, coltivando personalmente una intensa vita di fede e, nonostante la tendenza del mondo riformato luterano e calvinista a non dare spazio alle immagini nel contesto religioso e liturgico in particolare, dedicò la gran parte della sua opera a congiungere la fede e l’arte.

La realtà alla base del metodo seguito per realizzare l’opera “I discepoli Pietro e Giovanni corrono insieme al sepolcro di Cristo il mattino della Risurrezione” viene descritto da Eugène Burnand, in una lettera del 1897 all’amico Paul Robert, riassumendo così il suo credo artistico:

“La mistica, per me, consiste più nell’intensità e nella profondità della visione che nell’immaginazione abbandonata a se stessa. Sono realista per natura e per destino… Nella condensazione luminosa del paesaggio convergono senso teologico, realismo atmosferico e rispetto cronologico per il momento in cui questo fatto è avvenuto”.

La luce del sole nascente risplende infatti, in particolare nelle pupille di Pietro: è uno dei dettagli più intensi e impressionanti dell’opera, insieme al chiarore dorato e rutilante del cielo che già in sé ha la forza di un presagio radioso, di un segno chiaro di speranza immensa. E poi c’è la corsa in atto: entrambi i discepoli corrono, come suggerisce l’inclinazione dei loro corpi in avanti e l’aria che sembrano fendere e smuovere loro i capelli. Lasciano dietro di sé le tre croci, piccole e lontane all’orizzonte, per correre a verificare cosa sia successo al sepolcro del Maestro crocifisso, ancora tramortiti e increduli, pieni di uno stupore al limite dello sgomento. Sono ebrei con mani che hanno lavorato e faticato, volti solcati dalla tensione di ciò che hanno appena vissuto e di ciò che sta accadendo in quelle ore: ancora non sanno che al tramonto, prima che quel giorno finisca, vedranno Gesù stesso, risorto, nel suo nuovo splendore che non avrà più tramonto. Oltre il buio mesto di un mondo in cui la morte sembrava in grado di spegnere tutto, ecco l’alba più radiosa e commovente della storia della pittura, che con la sua luce dorata, le figure intense e i loro occhi pieni di attesa, comunica speranza in modo toccante.

IL TRAMONTO.

Le ombre della sera scendono sulla tavola di una locanda dove due persone, abitate nel cuore da un tristissimo vuoto, incontrano e riconoscono il Cristo risorto: è “La Cena in Emmaus”, come la dipinse genialmente Rembrandt, dando forma alla pagina del vangelo secondo Luca, al capitolo 24, testimonianza di uno degli episodi sconvolgenti accaduti nel pomeriggio del terzo giorno dopo la morte in croce di Gesù.

Il dipinto esprime un sentimento religioso molto forte, in quella che potrebbe essere una semplice scena di locanda. Attraverso un potente effetto di controluce, la scena è una vera e propria rivelazione: la fonte luminosa posta al di là del corpo di Cristo risorto ne staglia il profilo in controluce, consentendoci di coglierne appena la fisionomia, come se la pittura volesse cogliere l’istante, descritto dal racconto evangelico, in cui lui passò dalla visibilità fisica all’invisibilità improvvisa. I discepoli nel momento della rivelazione reagiscono con tutta la loro emozione, l’uno quasi ritraendosi spaventato per la meraviglia, l’altro buttandosi in ginocchio davanti a Gesù nella penombra e facendo rovesciare, nell’impeto, lo sgabello su cui stava seduto.

Una terza persona compare normalmente nell’iconografia della cena in Emmaus – basti pensare, tra le tante, alle due versioni straordinarie che Caravaggio dedicò all’episodio evangelico, quella alla National Gallery di Londra e quella alla Pinacoteca di Brera –: si tratta di chi, pur presente, non vede, non partecipa, non riconosce, chi insomma è a due passi dalla grazia e dalla fede ma rimane estraneo. Anche Rembrandt colloca, nell’angolo in alto a sinistra, la figura di una donna che lavora nella locanda presso cui si sono attovagliati i tre viandanti: se da un lato può indicare chi è preso dagli affanni e smarrisce la vita spirituale e dunque l’opportunità di trovarsi a contatto con il Signore, dall’altro il chiarore che la circonda e l’inclinazione del suo corpo – identica a quella di Cristo – potrebbero indicare che chi si consuma nel servizio del prossimo è già dentro la luce del Risorto anche senza accorgersene.

Di Rembrandt, oltretutto, l’Italia conserva in collezioni nazionali soltanto tre dipinti: ciò rende ancora più speciale la presenza di questo capolavoro del giovane Rembrandt a Roma per il Giubileo.

  1. San Marcello al Corso, il suo Crocifisso e i Giubilei

La scelta della chiesa di San Marcello al Corso, per questo evento d’arte, oltre che per la posizione centralissima del luogo sacro che consente la visione delle opere di Rembrandt e Burnand al più ampio flusso possibile di pellegrini e visitatori, è legata anche al veneratissimo Crocifisso custodito in quella chiesa, accostando la “visione” di Cristo crocifisso proposta dal maestro del Surrealismo con la figura storica e l’iconografia classica, in scultura, del Redentore inchiodato sul legno della Croce. Tutti ricordiamo, senza dubbio, come nel pomeriggio della domenica 15 marzo 2020, Papa Francesco, dopo aver fatto tappa a Santa Maria Maggiore, si era recato a pregare proprio di fronte al Crocifisso di San Marcello, nei giorni in cui l’epidemia si era subito manifestata come una pericolosa pandemia e il generico coronavirus aveva appena assunto il nome di covid-19. Il mondo riceveva notizie drammatiche, mentre il Santo Padre, sullo sfondo del Vittoriano, muoveva qualche passo sul marciapiede verso San Marcello, invocando la sconfitta del morbo. E di nuovo, come dimenticare le immagini del 27 marzo successivo, quando la preghiera di Papa Francesco è stata elevata al Signore sul sagrato deserto della basilica di San Pietro, mentre accanto al Pontefice stava proprio il Crocifisso della chiesa di San Marcello? Quell’immagine di Gesù in croce era già stata esposta presso la Basilica di San Pietro in occasione di ogni Giubileo, perché così fu stabilito, divenendo consuetudine di preghiera, a partire dal Giubileo del 1600, con il Papa Clemente VIII. Il Crocifisso, in particolare, stava al centro dell’attenzione durante il Grande Giubileo del 2000, quando il Papa san Giovanni Paolo II indirizzò al cuore di Dio un’accorata e storica richiesta di perdono, pensando ai peccati dei cristiani lungo il cammino della storia della Chiesa, davanti a quel medesimo Crocifisso. Era la Giornata del Perdono, il 12 marzo 2000. Ora, nel cuore del nuovo Anno Santo, il legame tra quel Crocifisso e il Giubileo si rinnova, grazie a un evento d’arte eccezionale.

La venerazione per quel Crocifisso è connessa alla sua storia, sin dal 1519. La Chiesa di San Marcello, che per oltre un millennio non aveva subìto danni di particolare entità, improvvisamente nella notte tra il 22 e il 23 maggio di quell’anno fu infatti distrutta da un violento incendio. Tra le rovine della Chiesa (crollo del soffitto, cedimento di colonne, condizioni disastrose delle navate e delle cappelle) rimasero inspiegabilmente illesi il Crocifisso ligneo che si ergeva sopra l’altare maggiore e la lampada di vetro che ardeva al suo cospetto. Ciò commosse profondamente i romani, cosicché un folto gruppo di fedeli cominciò a riunirsi in uno degli ambienti del convento adiacente, ove era stata provvisoriamente esposta la venerata effige, dando origine a quel culto speciale che è ancora vivo al giorno d’oggi. Trascorsi 3 anni dallo straordinario avvenimento, una grave epidemia di peste dilagò in tutta la città. Fu allora che il Cardinale Titolare di S. Marcello, Raimondo Vich, spagnolo, per implorare la divina clemenza, promosse in quell’anno una solenne processione penitenziale alla quale parteciparono tutte le categorie di persone: clero, religiosi, nobili, cavalieri, uomini, donne, vecchi e bambini. Portando processionalmente quel Crocifisso per tutti i rioni di Roma, venne attribuita a tale grande preghiera, durata ben 16 giorni e giunta fino alla Basilica di San Pietro, la grazia della cessazione della peste nel 1522. Dal punto di vista storico-artistico, il Crocifisso di San Marcello è una scultura lignea del Quattrocento romano.

Anticamente detta San Marcello in via Lata, fu una delle prime chiese cristiane di Roma. Il primo cenno storico dell’esistenza in Roma di una chiesa detta “di Marcello” si trova nella lettera del 29 dicembre 418, con la quale il celebre Prefetto di Roma Simmaco informava l’imperatore Onorio della contemporanea elezione, avvenuta il giorno prima, di papa Bonifacio I, nella chiesa di Marcello, e dell’antipapa Eulalio nella basilica lateranense. Più tardi la chiesa viene spesso ricordata nelle fonti come titolo di Marcello ed infine chiesa di S. Marcello, Papa e Martire. Più volte, fin dai tempi antichi, fu arricchita di doni da Sommi Pontefici. Dal 1369 è affidata all’Ordine dei Servi di Maria, che ancora oggi ne reggono la vita religiosa – mentre la chiesa è di proprietà del Fondo Edifici di Culto, organo del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno della Repubblica Italiana –.

La riedificazione della chiesa iniziata subito dopo l’incendio del 1519 avvenne su progetto di Jacopo Sansovino, mentre la facciata, concava a due ordini, recentemente restaurata, è un capolavoro (1681-1683) di Carlo Fontana. All’interno, degni di nota alcuni affreschi di Perin del Vaga e di Daniele da Volterra.

Alessio GERETTI  27 Aprile 2025