di Sergio GUARINO
Il Ritratto dell’Artista – Nello specchio di Narciso
Forlì, Museo Civico San Domenico di Forlì (fino al 29 giugno)
Le guance imporporate d’amore, i capelli ricci e biondi, il corpo elastico che si sporge sulle acque del fiume: è cosi, giovane e bello e dannato il Narciso che Tintoretto (Jacopo Robusti per l’anagrafe) realizza – forse con un collaboratore (Paolo Fiammingo, si è proposto da tempo) – nella seconda metà degli anni cinquanta del Cinquecento (fig.1), con gli alberi a fare da quinta nella parte sinistra, mentre a destra, circondato da una natura inquieta, si accenna al fatale antefatto, ovvero il rifiuto della ninfa Eco da parte dello stesso Narciso, in procinto di rinchiudersi nel proprio destino:
“Desidera, ignorandolo, sé stesso, elogia, ma è lui l’elogiato, mentre brama, si brama, e insieme accende ed arde” (Se cupit inprudens et, qui probat, ipse probatur, dumque petit, petitur, pariterque accendit et ardet, Ovidio, Metamorfosi, III, vv. 425-426).

La grande tela di Tintoretto, conservata a Roma nella Galleria Colonna, è una delle opere della sezione Il mito dell’artista. Narciso e la nascita del ritratto che apre la grande mostra Il Ritratto dell’Artista – Nello specchio di Narciso. Il volto, la maschera, il selfie, allestita su due piani nel Museo Civico San Domenico di Forlì e visibile fino al 29 giugno. Grande in molti sensi, per l’ampiezza (oltre duecento opere), per il numero di curatori (ben cinque: Cristina Acidini, Fernando Mazzocca, Francesco Parisi, Paola Refice e Gianfranco Brunelli) e per quello degli studiosi autori dei saggi e delle schede (quarantacinque, se il conto è giusto; da qui l’impossibilità di citarli: diventerebbe un gioco della torre), nonché per le 558 pagine del catalogo (Dario Cimorelli editore).
La rassegna, inoltre, celebra non solo idealmente il ventennale delle attività espositive del complesso di San Domenico, frutto della collaborazione tra l’Amministrazione comunale e la Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì nonché del duraturo e costante impegno del Direttore delle Grandi Mostre della stessa Fondazione, Gianfranco Brunelli (già citato, volutamente fuori alfabeto, nell’elenco dei curatori), insieme a un consolidato staff, nel ricordo della lunga dedizione profusa nei confronti di San Domenico da Antonio Paolucci, scomparso nel febbraio 2024 mentre questa mostra era in preparazione.
Il fascinoso tema dell’autoraffigurazione dell’artista (e pertanto non solo “autoritratto” tout court) viene affrontato in modo analitico e insieme pulsante, reso spettacolare da un accorto allestimento (Studio Lucchi e Biserni). Il tema generale così impegnativo giustifica la variegata articolazione in dodici sezioni (ma due sono “doppie”, dunque quattordici), riunite di fatto in due metà. Nella prima, che comprende cinque capitoli, si affronta quello che si potrebbe definire il contesto “esterno”: le suggestioni del mito, gli strumenti (ovvero lo specchio), la scoperta del concetto di persona, l’evoluzione della “riflessione” sotto le forme accattivanti di allegorie muliebri; nella seconda si entra nel vivo, concentrandosi sull’artista “soggetto narrante” attraverso opere, scandite per argomenti e non solo per cronologia, che spaziano dagli ultimi decenni del Quattrocento ai nostri tempi, chiudendosi con il video Self Portrait, Submerged realizzato da Bill Viola nel 2013 (e, nel medesimo ambiente, con le due immagini di Marina Abramović – occhi aperti, occhi chiusi – di Ecstasy I del 2012).
E’ una mostra che non lascia tranquilli (evviva!), dove il tema, in sé spiazzante, si coniuga con una attenta filologia (non si concorda proprio su tutto, ma si tratta di dettagli in genere cronologici, da ascrivere alla pedanteria del sottoscritto) e con la riproposta di artisti talora relegati ai margini, soprattutto per i tempi più vicini a noi, a causa di una lettura critica monodirezionale (o più banalmente, intessuta di pregiudizi).
E dunque si inizia con le immagini del mito di Narciso, uno dei racconti più celebri e geniali della Grecia antica, presente in mostra in un affresco pompeiano (o meglio, intonaco dipinto) e poi in quadri, sculture e stampe. Tra loro la tela di Tintoretto già citata e poi, a turbarci, un’opera di Giulio Carpioni del 1670 ca. (con autoritratto sulla destra) che ci ricorda come all’inizio della vicenda l’indovino – in questo caso Tiresia – avesse risposto alla madre Liriope che Narciso sarebbe vissuto a lungo “si se non noverit”, se non avesse conosciuto sé stesso, affermazione in netto contrasto con la sintesi della sapienza classica di cui per molti secoli ci siamo imbevuti fin dai banchi di scuola, γνῶθι σεαυτόν / nosce te ipsum: conosci te stesso.
Narciso si specchia e ci rispecchia, nelle opere allestite nel primo ambiente della rassegna – che per consuetudine è lo spazio dell’antica ex Chiesa di san Giacomo Apostolo dei Domenicani, anche se tutti la chiamano San Domenico (fig.2) – fino al maestoso lavoro di Corrado Cagli, un arazzo quadrato (lato cm 330) realizzato nel 1971 per il Senato della Repubblica dopo una complessa lavorazione, che ci si augura rimanga meno appartato in futuro.


Dopo questo necessario prologo diacronico la rassegna prosegue con una scansione temporale più ritmata, che si combina con i temi scelti, a cominciare proprio dalla seconda sezione – Persona. Lo specchio, la maschera e il volto: da non perdere il meraviglioso Vaso di Pronomos del Museo Nazionale di Napoli (V sec. a.C.) – dove il tema della maschera si sviluppa in senso materiale (come nella Maschera funeraria di Firenze, fig. 3) e intellettuale, con l’approdo al concetto di “persona” – che in origine, in latino, significava per l’appunto maschera – sviluppato dapprima in senso giuridico (Cicerone) e poi teologico, con le elaborazioni dei Padri della Chiesa sulla definizione delle tre “persone” della Trinità. Si passa quindi al tema dello specchio (sezione “Per speculum…” Immagine dell’Invisibile) dove compare una delle prime autorappresentazioni di un artista, in questo caso uno scultore attivo a San Gaudenzio a Novara, rimasto anonimo, che in pieno VIII secolo si raffigura in una lastra d’ambone con la sua bella ascia nella mano destra.
Il percorso (mentale) inizia così a raffinarsi, diventando tutt’altro che rettilineo e scontato nel momento in cui si prende a raccontare la progressiva presa di coscienza di chi raffigura e si raffigura – cuore e cervello della mostra e del catalogo – rimanendo ancora all’esterno, allo specchio, che da parte sua subisce una fondamentale evoluzione tra Trecento e Cinquecento, quando a Murano finalmente si riesce a fabbricarlo liscio e non più concavo. A partire dall’Umanesimo lo specchio diventa attributo di virtù (sezione Allegorie dell’immagine. La prudenza, virtù specchiata, una serie notevole di opere conclusa dalla pensosa, splendida Prudenza su rame di Donato Creti delle raccolte comunali bolognesi) nonché simbolo e compagno, tra Cinquecento e Seicento, di Veneri discinte e di più composte raffigurazioni morali (sezione Allegorie dell’immagine. Vanitas/Veritas, con la bella Vanitas del “Candlelight Master” di Palazzo Barberini della metà degli anni trenta del sec. XVII).
Siamo ancora al contesto esterno e occorre quindi riprendere il cammino tornando agli artisti, nella sezione Ad acquistar nome”. L’artista soggetto narrante, cominciando da uno dei più grandi, Giovanni Bellini, che scombina la Presentazione di Gesù al tempio (fig. 4, Venezia, Fondazione Querini Stampalia; la datazione al 1475 appare davvero troppo avanzata, ma è una questione per pochi intimi) raffigurando sé stesso mentre dall’estrema destra ci guarda e forse ci interroga, al di là di un parapetto marmoreo.

Il prototipo di Andrea Mantegna (che era suo cognato), oggi a Berlino, risaliva alla metà degli anni cinquanta del Quattrocento: il pittore veneziano lo rielabora facendone allo stesso tempo sia un quadro familiare – inserendo la madre “acquisita” Anna Rinversi e la moglie Ginevra Bocheta – sia una dichiarazione (geniale) di autoconsapevolezza, rivolgendosi così direttamente ai riguardanti. E’ iniziato (o ripreso) il gioco degli sguardi tra noi e le opere d’arte, e non finirà più[1].
Ed ecco che nella seconda parte di questa sezione (Ad acquistar nome”. L’immagine di sé tra gli uomini illustri) la coscienza degli artisti ci arriva davanti in modo diretto: compare, finalmente, negli occhi delle prime pittrici, quali Sofonisba Anguissola (Autoritratto alla spinetta, 1555 ca., Napoli, Capodimonte, dove arriva dalla raccolta romana degli Orsini passando per i Farnese a Parma) e Marietta Robusti ovvero la Tintoretta (Autoritratto, 1580 ca., Roma, Galleria Borghese).

Potrebbero non essere autoritratti – e per questo i titoli in mostra e nel catalogo sono accompagnati da un corretto punto di domanda – due tele di assoluta intensità quali quelle realizzate rispettivamente verso il 1540 da Lorenzo Lotto (Roma, Galleria Doria Pamphilij: la comprensione piena ancora ci sfugge) e verso il 1590 da Federico Barocci in un quadro già visto l’anno scorso nella rassegna monografica di Urbino (fig. 5, Roma, Galleria Corsini) ma che nel contesto forlivese spicca ancor di più per l’incredibile sapienza pittorica. Del resto, tutto il Cinquecento (si potrebbe andare anche più addietro) è attraversato dalla crescente consapevolezza dell’artista, nella ricerca di un’identità sociale che si combina con il medesimo desiderio (talora celato, talvolta più palese) da parte dei committenti[2].
Il Ritratto di Michelangelo Merisi da Caravaggio realizzato non oltre il 1617 e conservato fin dall’origine presso l’Accademia di San Luca a Roma (di cui peraltro Caravaggio non fece mai parte) testimonia la nascita della preziosa raccolta di ritratti di artisti dell’antico sodalizio romano e all’interno della sezione Trasfigurazioni dell’artista. Il ritratto eroicizzato convive con due celebri immagini femminili: l’emblema della pittura fiorentina di primo Seicento, vale a dire la Giuditta dipinta poco dopo il 1610 da Cristofano Allori (Firenze, Uffizi) – che si ritrae sotto le sembianze della testa mozza di Oloferne, laddove invece la protagonista, giusta la testimonianza di Michelangelo Buonarroti il giovane, ha le fattezze della sua amante Maria di Giovanni Mazzafirri, ovvero “la Mazzafirra” – e l’Erodiade di Simon Vouet del 1625, dove il pittore francese si raffigura di scorcio nella testa del Battista, lasciando quasi tutto lo spazio all’elegante grazia di Erodiade, splendido ritratto della moglie, la pittrice Virginia da Vezzo.
E’ proprio il Seicento a dispiegarsi (né poteva essere altrimenti) nella sezione Nel gran teatro del mondo (fig. 6).

Il “secolo d’oro” della pittura (secondo un’antica definizione) sembra a volte ostile alla riflessione, a meno che non sia accompagnata da applausi, o come minimo da una ostentata fierezza. Davanti ai visitatori scorrono gli autoritratti dei protagonisti (Gian Lorenzo Bernini, Peter Paul Rubens e ancora e soprattutto Rembrandt) accanto all’Autoritratto come Allegoria della Pittura dipinto da Artemisia Gentileschi appena arrivata a Napoli (1630, oggi a Roma, Palazzo Barberini) e al Ritratto di Juan de Córdoba (e da qualche anno non più un possibile Autoritratto) di Diego Velázquez della Pinacoteca Capitolina, un quadro magistrale. Oramai le certezze stanno esaurendosi e primi ad accorgersene sono, come avviene spesso, proprio gli artisti: non a caso la sezione dedicata al Sette-Ottocento reca il complesso titolo L’autoritratto indeciso – Tra il bello ideale e il sentimento del sublime. Pacati autoritratti con familiari e amici come quelli di Stefano Tofanelli (1783, Roma, Museo di Roma: nel quadro compare il giovane fratello di Tofanelli, Agostino, che trenta e più anni dopo, in una delle prime guide museali, avrebbe riconosciuto e registrato correttamente proprio il quadro di Diego Velázquez or ora citato[3]) o di Gaspare Landi – in effetti solo lontano consanguineo del marchese Giambattista Landi che il pittore ritrae insieme alla famiglia sullo scorcio del Settecento, inserendosi elegantemente a sinistra – sembrano in effetti cozzare con Il sonno della ragione genera mostri di Francisco Goya (ci si chiede se non sia un colpo basso confrontare due tranquilli, onesti dipinti con una delle più incredibili raffigurazioni dell’animo umano) o con Gertrude, Amleto e il fantasma del padre di Amleto (Mamiano di Traversetolo, Fondazione Magnani Rocca) completato nel 1783 da Johann Heinrich Füssli, che in passato si studiava (forse lo si fa tuttora) proprio come uno dei principali manifesti visivi della poetica del Sublime ricordata nel titolo della sezione (fig. 7).

Vittorio Alfieri e la sua dolce amica Luisa Stolberg, contessa d’Albany (moglie separata di Charles Edward Stuart) sembrano in effetti meno inquieti di quanto siano stati, nel duplice doppio ritratto realizzato nel 1796 da François-Xavier Fabre (Torino, Palazzo Madama) che apre la sezione Autobiografie. Le passioni e la storia, dove l’apparente pacatezza dei dipinti rivela – a un secondo, indispensabile sguardo – una serie di fremiti educatamente ben occultati (per esempio nei lavori di Giovanni Carnovali detto il Piccio o di Giovanni Fattori), con la sola plateale eccezione di Francesco Hayez che ci rivolge uno sguardo tutto sommato ironico (non è del tutto chiaro) in un quadro dal soggetto certamente originale come Un leone e una tigre entro una gabbia con il ritratto del pittore (fig. 8, Milano, Museo Poldi Pezzoli), dipinto nel 1831, lo stesso anno in cui i due animali vennero esibiti nei giardini pubblici milanesi.

La borghesia nel frattempo ha vinto: la nuova situazione sociale (ci penseranno le guerre del Novecento a portare le crisi) traspare dalle opere esposte nella sezione Il linguaggio segreto dei simboli, dove opere più pacate come L’artista nel suo atelier di Giovanni Costantini (1891) o l’Autoritratto di Juana Romani (1895 ca.) convivono senza troppa pena con le ben più travagliate immagini realizzate da Léon Frédéric (Autoritratto, 1891) o Giulio Aristide Sartorio (Autoritratto, 1905 ca.).
Il XX secolo si apre con l’Autosmorfia di Giacomo Balla, primo quadro della affollata sezione Narciso nello specchio del Novecento, riassunto compiuto del “secolo breve” dove i punti fermi sono davvero pochi: non è agevole comprendere se ora gli artisti vogliano raffigurarsi per ricerca introspettiva, per gioco o per vanità. Di certo Narciso – che dalla scena dell’arte figurativa non era mai scomparso, né è probabile che avvenga adesso – torna in modo esuberante nel secolo scorso, non più come soggetto esplicito ma come bisogno quasi incessante degli artisti di ricevere conferme dalle proprie immagini (o meglio, dalle immagini di sé), come nel caso di due protagonisti della ricerca italiana così distanti tra loro quali Renato Guttuso nell’Autoritratto del 1936 e Giorgio de Chirico nell’Autoritratto nudo del 1945.

E’ una sezione dove il visitatore dovrà soffermarsi, anche per rivedere alcuni pregiudizi, per esempio davanti all’Autoritratto nello studio con amici di Pietro Annigoni del 1936 (fig. 9, Milano, Museo del Novecento), un’opera di raro realismo, oppure davanti all’Autoritratto pirandelliano di Cesare Sofianopulo dello stesso anno.
Breve e insieme intensa la sezione finale (Il volto e lo sguardo), che si apre con l’Uomo nero di Michelangelo Pistoletto del 1959 per proseguire con l’Autoritratto di Mario Ceroli del 1968 e, prima di chiudersi con i lavori di Marina Abramović e Bill Viola già ricordati, con l’Autoritratto con fiscella di frutta di Carlo Guarienti realizzato dall’artista veneto nel 2013 (fig. 10), dove il ricordo della Canestra caravaggesca, assunta come prototipo del realismo, si combina con tre diverse, oniriche immagini del pittore, all’epoca novantenne.

Sergio GUARINO Forlì 8 Giugno 2025
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