Giovanni Baglione antitetico “per elezione” a Caravaggio. Un’approfondita analisi di Stefania Macioce

di Stefania MACIOCE

L’eccezionale interesse attorno alla vita e all’opera di Michelangelo Merisi ha portato inevitabilmente  molti studiosi ad approfondire anche le vicende di quei personaggi per così dire di contorno che, nella Roma di fine ‘500-inizi ‘600, ne agevolarono o ne contrastarono l’irresistibile ascesa. Di notevole rilievo in questo senso, le numerose ricerche e questo studio di Stefania Macioce -che ringraziamo per la squisita cortesia- dedicato alla figura di Giovanni Baglione, pittore, storico,oltre che biografo di Caravaggio

L’antitesi caravaggesca del Cavalier Giovanni Baglione pittore

Tra gli studi condotti su Caravaggio e il suo ambiente, e in particolare sulla figura di Giovanni Baglione, una lettura davvero penetrante sulla formazione pittorica dell’artista, sui rapporti con il Caravaggio, sul dissidio degenerato in processo, sul ruolo amicale di Tommaso Salini, venne fornita diversi anni fa da Maurizio Marini, n1  seguito in tempi recenti da un interesse sempre crescente e da numerosi contributi critici. n2

Tuttavia la figura del Cavaliere, il grande nemico di Caravaggio, trova faticosamente una sua identità pittorica non ancora definita nella monografia a lui dedicata.n3. Il pittore biografo occupa infatti un ruolo singolare nella cultura romana degli ultimi anni ‘90 del XVI secolo, il cui retaggio si inoltra nella sua produzione del secolo successivo, ben oltre la precoce morte del Merisi nel 1610. È dunque sulla traccia offerta dalle riflessioni di Marini che torna utile proseguire.

Il naturalismo di matrice caravaggesca n4, non si ripercuote in Baglione attraverso un’autentica adesione ne vi è traccia di ordinaria imitazione, poiché il pittore, osservatore metodico delle novità apparse sulla scena artistica romana, sembra perseguire un costante aggiornamento. La sua peculiare e riconoscibile cifra stilistica, nonostante gli esiti qualitativamente alti di alcuni suoi dipinti, si risolve ripetutamente nell’assemblaggio di modelli diversi, in una discontinua serie di innesti, da cui affiora una consapevole attestazione di poetica. Tardivo, ma saldo interprete della tradizione romana cinquecentesca, quasi osservante nei confronti delle istanze accademiche di Federico Zuccari, il pittore esordisce nei cantieri di Gregorio XIII e Sisto V, assimilando il codice dei protagonisti Cesare Nebbia e Giovanni Guerra, con seguenti aperture verso Ferraù Fenzoni, Andrea Lilio e Paolo Guidotti e matura un’autonomia dal maestro toscano Francesco Morelli, già individuata dalla critica nelle prime prove per i Santacroce. n5

Con gli affreschi di Santa Maria dell’Orto del 1598 e soprattutto in quelli di San Giovanni in Laterano tra il 1599 e il 1600, il pittore ha ormai una sua esperita rappresentatività nell’ambiente romano.

È agli inizi del nuovo secolo che si colloca il cosiddetto ‘intermezzo caravaggesco’, breve periodo che non sembra superare il processo del 1603, nel cui ambito si rintraccia il parallelo con le novità del grande lombardo, tanto che per consuetudine Baglione viene a lungo inserito nella schiera dei seguaci del Merisi. Le recenti aperture critiche sembrano evidenziare invece aspetti più complessi e articolati del suo linguaggio figurativo a ridosso della Contarelli nell’estate del 1600, anno di esordio del citato ‘intermezzo’ con I santi Pietro e Paolo per Santa Cecilia in Trastevere subito seguiti dai dipinti firmati e datati 1601-1602: l’Estasi di san Francesco n6 e le due versioni dell’Amor sacro sconfigge Amor profano tentato dal demonio rispettivamente a Roma nella Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini e a Berlino presso il Kulturforum, Gemäldegalerie, opere di indubbio successo.

Giova a questo punto tornare alle fonti e cioè a Giulio Mancini: il colto archiatra pontificio nelle sue Considerazioni asserisce che Baglione è tra i pittori del suo tempo operanti di «maniera propria», sottolineando poi che «in altri tempi seguitò la maniera del Cav.re Giuseppe (Arpino)» e «poi parve che s’applicasse a quella del Caravaggio». n7

Mancini inserisce dunque Baglione nel gruppo degli artisti indipendenti, che formavano la cosiddetta ‘quarta schuola’, dopo il vero naturale di Caravaggio, la complessità classicista dei Carracci e la vaghezza manierista del Cavalier d’Arpino. Il pittore viene definito «d’assai buon gusto (…) tra quei pittori, i quali essendo tutti di valore nella professione, hanno operato con un modo proprio e particolare senza andar per le pedate d’alcuno» n8 e viene affiancato, attraverso un giudizio ben calibrato, a personalità stimate come Roncalli, Passignano, Cigoli, Tempesta e Tassi, considerazione non accessoria che sottolinea, in quel ‘senza andar per le pedate d’alcuno’, come il pittore abbia selezionato un linguaggio ‘temperato’, una ‘maniera propria’ appunto, spesso composita e intermittente in una sorta di meditato melange.

Baglione è dunque per elezione antitetico a Caravaggio, che per diversi motivi ma non casualmente, non lo include tra i ‘valent’huomini’, cioè tra coloro che si intendono di pittura, quando afferma: «Io non so niente che ce sia nessun pittore che lodi per buon pittore Giovanni Baglione». n9

Baglione, come riporta Mancini, ha una sua ‘maniera’, incardinata nella cultura pittorica del tardo manierismo romano, specie dell’Arpino, e non appartiene alla ‘schola’ del Caravaggio che ha tanto successo, ne è distinto: ‘parve’ -la dichiarazione dubbiosa non è marginale-  ‘s’applicasse’ alla maniera del Caravaggio. Pare dunque, Mancini non ne sembra persuaso, e quel desueto ‘applicare’ suggerisce un’osservazione della nuova maniera, non necessariamente un’adesione.

È ben noto del resto che lo stile del pittore risulti composito, anche per via della formazione legata al conterraneo Morelli, che frequenta anche dopo il suo apprendistato e che studi recenti hanno confermato avere un ruolo significativo nell’ambito delle grandi famiglie romane e quindi di nuove potenziali committenze n10.

 Ed è ancora il Mancini a definire alcuni orientamenti: «il Cavalier Baglioni nato  Roma, originario di Fiorenza andò seguitando per un pezzo la maniera del Cavalier Giuseppe (…) et in ultimo sì è messo in maniera propria come si vede nell’altar di S. Pietro et in santa Maria Maggiore». n11

Nella sua prima attività, che si va strutturando attraverso accurate ricerche n12, il pittore radicalizza stilemi ricorrenti nel suo ductus, ma nell’insieme appare ancorato – e lo sarà durevolmente – a presupposti arpineschi, pur sempre alla ricerca di proposte attualizzanti. Egli conia un linguaggio ricercato, come comprovato dalla monumentalità degli apostoli di San Giovanni in Laterano, in una sorta di sintesi di suggestioni e idee e sembra alla ricerca di occasioni manifeste per affermarsi sulla scena romana, ove il pittore opera con notevoli ambizioni sociali, e nel progresso sociale sarà maestro, proprio come l’Arpino n13.  Viceversa le sue commistioni stilistiche desteranno critiche aggressive e diffamatorie da parte di Caravaggio, il cui geniale talento non è incline a costruzioni manierate, e soprattutto ricusa le esitazioni tecniche e i retaggi ideativi dello ‘stimabile’ Baglione che riflette l’autorevolezza dell’Accademia n14. Questa esperita ‘maniera propria’ dell’accademico e ‘virtuoso’ n15 Cavalier Baglione riverbera una peculiare tendenza a mantenere viva la tradizione: curioso e talvolta efficace nelle sue soluzioni, egli non ha però gli strumenti per misurarsi con i portenti del primo ‘600, Caravaggio e Carracci, e rilancia sulla memoria della suprema autorità di Raffaello n16 attraverso il ragionevole filtro del Cesari; soventi poi i richiami alla compostezza disegnativa e morbida dei toscani, che palesano l’intento di impostare un’autorevole opposizione al Merisi n17. Il ruolo di tramite svolto dal Cavalier d’Arpino è incisivo anche perché leader incontrastato prima dell’arrivo di Caravaggio, e dunque degno di emulazione, per quella sua cifra giocata tra preziosità di maniera e contenuti classicismi così come nell’impresa del Laterano alla scadenza giubilare. I santi Pietro Paolo furono commissionati dal ‘cardinale di santa Cecilia’, come veniva chiamato negli ambienti curiali Paolo Emilio Sfondrati, influente nipote di Gregorio XIV, dopo aver ottenuto il titolo della basilica trasteverina nel 1591. La protezione del porporato avrebbe fornito al Baglione l’ammissione all’ambito titolo di Cavaliere dell’Ordine di Cristo, onorificenza grazie alla quale egli avrebbe guadagnato una posizione preminente all’interno del multiforme panorama artistico romano. E fu ancora il cardinale Sfondrati nel 1606 a conferirgli tale riconoscimento, a seguito della conduzione della pala d’altare raffigurante la Resurrezione di Tabita per la cappella Clementina della nuova basilica di San Pietro n18.  L’opera faceva parte di un ciclo petrino iniziato nel 1599 sotto papa Clemente VIII Aldobrandini, di cui era stato inizialmente incaricato il toscano Cristoforo Roncalli, detto il Pomarancio, protetto dal fiorentino monsignor Alessandro Giusiauditore della Sacra Rota Romana e prelato incaricato della Fabbrica di San Pietro, con una prima pala a olio su lavagna n19.

A tale impresa subentrarono in seguito altri fiorentini, Domenico Cresti detto il Passignano, Ludovico Cardi detto il Cigoli – in sostituzione del defunto LauretiFrancesco Vanni e il genovese Bernardo Castelli n20; in siffatto contesto lo stile di Baglione virerà in direzione della cultura pittorica toscana, a lui più congeniale. La circostanza naturalistica de I santi Pietro e Paolo, adempie ad una meditata riflessione sulle novità di Caravaggio, che da poco aveva cominciato a «ingagliardire gli scuri» secondo la felice espressione di Bellori n21.

È pur vero però che fondi scuri si ritrovano già in altri dipinti alla fine degli anni ‘90 come ad esempio Il Cristo esposto e il Cristo benedetto nella cappella della Passione al Gesù dove è attivo Gaspare Celio, secondo le fonti particolarmente invidiato da Baglione n22.

A guardar bene poi, contrariamente alla pratica del Merisi, la luce naturalistica dei santi Pietro e Paolo 23 non proviene affatto da un fuori campo, ma si incunea progressivamente e in modo quasi convenzionale dall’esterno della tela precisando una concretezza fisica e un clima pensoso privo di intensità drammatica.

fig 1 Giovanni Baglione, Studio preparatorio per SanPietro e San Paolo, Newcastle upon Tyne,University of Newcastle upon Tyne

È stato notato giustamente che la grande finestra visibile dietro i due santi deriverebbe dall’orvietano Cesare Nebbia come motivo descrittivo e non funzionale alla luminosità del dipinto n24;  particolarmente interessante la figura del San Paolo di cui si conosce un disegno preparatorio (fig. 1) n25; questo, come la tela, evidenzia uno stampo monumentale e una marcata semplificazione formale, sia nella gestualità che nel trattamento delle vesti; benché concernente a molto tardo manierismo, essa è tuttavia peculiare dei pittori emiliani attivi a Roma, tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, cui si deve anche la semplificazione delle posture e dei panneggi costruiti attraverso ampie campiture cromatiche. Come rilevato n, 26 Baglione rinvia qui a Guido Reni che, nello stesso frangente e per lo stesso committente Sfondrati, oltre alla cappella ‘del Bagno’, esegue, in occasione dell’Anno Santo 1600, un’Estasi di santa Cecilia copia dell’originale di Raffaello Sanzio – ammiratissimo da tutti i classicisti e oggi nella Pinacoteca Nazionale di Bologna – destinata anch’essa alla basilica dedicata alla santa e successivamente collocata come pala d’altare nella cappella Polet in San Luigi dei Francesi; la dipendenza del san Paolo dal modello reniano all’atto di replicare Raffaello è manifesta.

Attinenze al linguaggio raffaellesco si rintracciano inoltre con il San Pietro, opera di Frà Bartolomeo completata dal pittore urbinate, originariamente di fianco all’altare di San Silvestro in Capite, ora in Pinacoteca Vaticana; adeguato infine il rimando al cartone di Raffaello per l’arazzo con la Guarigione dello storpio n27: Baglione si muove dunque in questo solco, incrementando i procedimenti dell’Arpino. La notevole difformità che affiora tra gli apostoli di Santa Cecilia e quelli completati appena un anno prima per il transetto di San Giovanni in Laterano, cui Baglione attende secondo la propria inclinazione adeguandosi al coordinamento del Cesari, denuncia una fondamentale caratteristica del suo modus operandi ricettivo rispetto all’ambiente in cui lavora. A Santa Cecilia le tonalità della pittura sono molto più contrastate in senso chiaroscurale, il fondo è molto più scuro, ma l’insieme va restituito, in senso formale e compositivo, ad altri prototipi, cui il pittore rimanda tenendoli a modello, con tutti gli aggiornamenti del caso, onde evitare di non essere à la page. L’Arpino nella seconda metà degli anni ‘90, in una fase di corposo riferimento alla pittura di storia delle Stanze Vaticane n28,  deve aver avuto in tal senso un ruolo rilevante. Il San Paolo trasteverino risulta dunque una sorta di palmare citazione del precedente modello raffaellesco attraverso la mediazione di Guido Reni: coincidono cromie, posture, gesti, monumentalità.

Il clima che si respira nel Sant’Andrea incoronato da un angelo – dipinto da Baglione sempre per Santa Cecilia a distanza di poco tempo, intorno al 1601, oggi sul secondo altare della navata sinistra, ma in origine per il primo altare della navata destra – manifesta il modo di procedere del pittore caratterizzato da orientamenti discontinui: il taglio della figura in diagonale e ravvicinato, permette di lasciare fuori dalla portata dello sguardo buona parte della croce, dettaglio abbastanza inusitato, ma atto ad accentuare il bagliore scenico dell’angelo che incorona il santo. Più volte è stato chiamato in causa il San Matteo e l’angelo di Caravaggio alla Contarelli, tuttavia un altro rimando sembra più calzante: si tratta del modello fornito dal fiorentino Agostino Ciampelli, che nel suo Sant’Andrea condotto al martirio del 1600-1603 per la chiesa del SS. Nome di Gesù, esibisce uno stile conservatore e semplificato alla Santi di Tito, estremamente accessibile per la cultura postridentina;

fig 2 Giovanni Baglione, Sant’Andrea incoronato da un angelo, olio su tela 1603(?), Roma, S. Cecilia in Trastevere.
fig 3 Agostino Ciampelli, Sant’Andrea condotto al martirio (1600-1603) Roma, SS. Nome di Gesù

è interessante notare che il dipinto di Ciampelli mostra stringenti affinità con quello di Baglione (figg. 2-3), a riprova che il linguaggio di quest’ultimo non ha aderito alle nuove istanze caravaggesche. Il pittore è incline a dipingere su diversi registri stilistici in un ridotto arco temporale e di ciò si ha riscontro proprio nelle citate opere eseguite per Sfondrati dove agli orientamenti più innovativi si alternano arcaismi devozionali, in pieno accordo con il contemporaneo revival paleocristiano del quale lo stesso porporato fu uno degli interpreti principali n29. L’apporto dei pittori toscani diviene gradualmente sostanziale nel lessico di Baglione, ed echi di ‘riforma’ toscana sono stati già ravvisati nel Baglione di San Giovanni in Laterano, che annota su un disegno preparatorio per l’affresco del transetto un preventivo di spesa per la decorazione di Santa Prisca e di Santa Maria dell’Orto. n30

Nel multiforme contesto dei pittori fiorentini attivi a Roma agli inizi del secolo le suggestioni e gli apporti di matrice toscana si fanno più evidenti nel linguaggio del pittore e si confermano nell’ambito del ciclo petrino della cappella Clementina, la cui fase iniziale si colloca alla fine del Cinquecento sotto la direzione dell’Arpino. Nell’Estasi di san Francesco di Chicago n31, il rapporto con la tela di Caravaggio per Ottavio Costa del 160 n32, è meno evidente rispetto alle affinità con Gentileschi che, proprio tra il 1600 ed il 1601, dipinge un primo San Francesco sorretto da un angelo dopo le stigmate oggi al Museum of Fine Arts di Houston n33.

fig 4 Theodor Galle (da Giuseppe Cesari detto il Cavalier d’Arpino), San Francesco sostenuto dagli angeli, incisione a bulino sul medesimo soggetto dei fogli di Philippe Thomassin e Domenico Custos, 1600 ca., Bergamo, Accademia Carrara.

Nel quadro di Baglione, il misurato naturalismo si addentra, sperimentandolo, nel contenuto clima poetico del toscano derivandone il languido sentimentalismo e l’atmosfera mistica, quasi antitetici rispetto alla veridicità caravaggesca n34; il fondamento peculiare resta tuttavia arpinesco, per l’impaginato e il punto di vista ravvicinato lievemente dal basso, si pensi al San Francesco sostenuto da quattro angeli dipinto dall’Arpino per la cappella di San Francesco nella chiesa di San Bonaventura a Frascati. Scrivendo proprio di questo quadro Baglione afferma: «il quale è originale, & a quel luogo donollo il Cardinale di s. Cecilia Sfondrato» n35 delimitando la tela come tarda.

In effetti è probabile che il porporato abbia fatto la sua donazione quando Cesari era ancora giovane, anche se la tela deve essere stata eseguita per Sfondrati già attorno al 1590 come proverebbe il disegno dell’Albertina di Vienna; di questo dipinto noto già alla fine degli anni ’90 attraverso una incisione da Philippe Thomassin e Domenico Custos (fig. 4) n36 si conoscono diverse copie.

L’Amor sacro sconfigge Amor profano tentato dal demonio fu dipinto da Baglione per il cardinale Benedetto Giustiniani, probabilmente in concorrenza con una versione ancora precedente all’Amor vincitore di Caravaggio (1602-1603), ovvero un perduto «Amore divino, che sottometteva il profano» menzionato dallo stesso pittore, nelle sue Vite, tra le opere dipinte dal Merisi per il cardinal Del Monte n37. Il quadro eseguito per il cardinale Giustiniani, fratello del marchese Vincenzo, fu una sorta di tributo al suo devoto committente che, in segno di riconoscimento, gli fece dono di una collana d’oro. Come si evince dalla testimonianza di Orazio Gentileschi, circa l’esposizione annuale che si teneva a San Giovanni decollato dei Fiorentini per la ricorrenza del martirio del santo, esso fu esposto in competizione con il gentileschiano San Michele arcangelo del 1602, forse perduto, nonostante lo sforzo di identificarlo con l’esemplare oggi a Farnese dall’impostazione similare n38. Lo schema compositivo di entrambi i dipinti è analogo, poiché l’arcangelo prorompe dall’alto apprestandosi al duello con il demonio, e non mostra forti affinità con l’Amor Vincitore di Caravaggio oggi a Berlino dove Cupido, sorridendo beffardamente, mostra la propria sovranità sui simboli del potere terreno, memore del virgiliano adagio Omnia Vincit Amor, quadro mostrato soltanto a pochi privilegiati e non citato da Baglione che forse non ebbe occasione di vederlo. n39

fig 5 Giovanni Baglione, Amor sacro sconfigge Amor profano tentato dal demonio, 1602, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica.

Gentileschi biasimò il pittore per aver dipinto «un huomo grande et armato» al posto di uno «nudo et putto»: la questione iconografica fu dunque ridefinita da Baglione in un’altra versione dove Amore figurava «tutto ignudo» n40.  Voss n41, volle individuarla nel dipinto conservato alla Galleria Nazionale di Palazzo Barberini, dove l’androgina figura alata del quadro di Berlino indossa un costume ricercato. La firma e la data 1602  rinvenute sulla tela Barberini, le differenze descrittive e di misure riscontrabili fra le due opere e negli inventari della collezione Giustiniani, hanno fatto supporre l’esistenza di un terzo quadro di Baglione n42. Un’ipotesi questa che sembrerebbe trovare conferma nei recenti esami radiografici e riflettografici eseguiti sull’opera romana da cui si evincerebbe che il dipinto di Berlino, ritenuto finora la prima versione, deriverebbe da quello Barberini e non viceversa. n43

La congiuntura segnata dalla compresenza di queste tele rende manifesto, poco prima del clamoroso processo del 1603, l’antagonismo tra i due pittori: l’‘Amor divino’ di Baglione si attiene ai dettami figurativi sanciti dai repertori di iconografia ricorrendo alla formula allegorica derivante dall’illustre precedente del San Michele Arcangelo di Raffaello oggi al Louvre n44.

fig 6 Giuseppe Cesari detto il Cavalier d’Arpino, San
Michele Arcangelo combatte Lucifero, Genova, Banca
Caridge

 

Tuttavia a guardar bene si tratta di una scelta semanticamente coerente con l’impostazione accademica del pittore, che guarda alla norma suprema dell’urbinate ampiamente citata dal Cesari in più versioni: nel San Michele Arcangelo combatte Lucifero della Banca Caridge di Genova e nella parrocchiale di San Michele Arcangelo ad Arpino, o ancora nell’Arcangelo Michele sconfigge gli angeli ribelli nell’Augustiner Museum di Friburgo e nell’Allentown Art Museum di Glasgow, cui sono da aggiungere diversi esempi provenienti dal mercato antiquario.

 

Stringenti analogie compositive e di poetica si ravvisano poi con il dipinto sullo stesso tema di Orazio Gentileschi, amico tra l’altro del Cesari, cui si aggiunge una memoria gestuale del Martirio di San Pietro da Verona dipinto da Tiziano nel 1527, già nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo di Venezia, di certo mediata dal Martirio di San Matteo Contarelli (figg. 5 –  figg. 6-10).

 

Dagli atti del processo del 1603 si deduce che l’intento di Baglione nei confronti di Caravaggio, in pochi anni divenuto «egregius in Urbe pictor» n45, era rimarcare gli aspetti deficitari della cultura pittorica merisiana come l’assenza dalle liste dei membri dell’Accademia di San Luca n46 e dei Virtuosi del Pantheon, la mancanza di titoli accademici nonché dei ‘fondamenti del disegno’ n47

fig 10 Tiziano Vecellio, Martirio di San Pietro da Verona (part.), 1527, Venezia, SS. Giovanni e Paolo.

La documentata intolleranza di Caravaggio nei confronti di Baglione suggerisce del resto una sorta di apprensione verso il crescente successo del rivale che, lontano dall’essere un suo imitatore, si dimostrava tale proprio nell’opporgli la grande tradizione accademica. Ciò trova significativa conferma nell’assegnazione da parte dei Gesuiti della pala con la Resurrezione di Cristo al pittore romano per la cappella del transetto destro nella chiesa del SS. Nome di Gesù. La vexata quaestio si oggettiva nella denuncia sporta il 28 agosto 1603 ed esibisce lo sdegno del pittore di fronte alle critiche e accuse mossegli da Caravaggio seguito dai «suoi amici et adherenti» che definì l’opera ‘goffa’ n48.

Commissionata nel 1601 dal padre Claudio Acquaviva, generale della Compagnia di Gesù, la Resurrezione venne mostrata al pubblico nella Pasqua del 1603. Quell’incarico particolarmente ambito e di considerevole rilevanza per una tra le maggiori chiese di Roma, frequentata anche dal Merisi in compagnia di Prospero Orsi n49, esplicitava una sperimentazione naturalistica «con amore, e con istudio rappresentata» n50 attraverso un vivido contrasto chiaroscurale. Dalle dichiarazioni dei testimoni intervenuti al processo n51 si desume la provocatoria competizione di Caravaggio che parlò di «pituresse»: n 52 queste secondo la profetica opinione del lombardo non avrebbero conseguito lauti guadagni ed in effetti Baglione, forse proprio a causa dei giudizi infamanti, non ottenne mai il saldo per la sua opera n53, che fu rimossa, probabilmente dopo il 1622 n54, cadendo pressoché nell’oblio. L’esito infatti aveva generato maldicenze tra i pittori rivali, da Caravaggio a Gaspare Celio, artista ben introdotto presso i Gesuiti, ma nemico giurato di Giovanni, maldicenze che alimentarono lo scontento presso i committenti. A parte gli studi preparatori oggi al British Museum di Londra n55, una testimonianza del perduto dipinto è costituita dai due frammenti di tela raffiguranti un Coro di angeli su nubi, rinvenuti nel 2007 presso la basilica palatina di Santa Barbara a Mantova, dall’allora soprintendente Filippo Trevisani: essi risulterebbero, per motivi stilistici e iconografici n56, appartenuti alla Resurrezione secondo un’ipotesi accolta in tempi più recenti, anche sulla base di confronti con l’Amor sacro sconfigge Amor profano realizzato nel 1602 e con la già ricordata Estasi di san Francesco del 1601; la presenza dei due frammenti a Mantova si ricollega ai rapporti che Baglione intratteneva con la corte dei Gonzaga dove soggiornò, dal 1621 al 1622, anno in cui la pala del Gesù fu rimossa dal suo altare. n57

fig 11 Giovanni Baglione, bozzetto per la Resurrezione di
Cristo, 1601-1603, Parigi, Musée du Louvre.

L’attestazione visiva più rilevante è tuttavia il bozzetto per Resurrezione di Cristo oggi al Louvre pubblicato da Longhi (fig. 11): questi individuava influssi caravaggeschi nella parte inferiore dell’opera dove gli effetti di luce e ombra sui corpi dei soldati rimanderebbero, al Martirio di San Matteo della Contarelli, viceversa egli ravvisava nella parte superiore del dipinto il rinvio a schemi tradizionali della tarda maniera tosco romana, a suo parere comprensibile attraverso la mancanza di esempi naturalistici sul tema n58. Di recente, proprio per questa zona del quadro sono stati rilevati rimandi alla Resurrezione di Cristo dipinta da Cristoforo Roncalli entro il 1603 per la prima cappella a destra della chiesa di San Giacomo in Augusta a Roma, citata dallo stesso Baglione n59, e ispirata a modelli della pittura cinquecentesca, da Tiziano a Michelangelo (fig. 12). n60

fig 12 Cristoforo Roncalli detto il Pomarancio, Resurrezione di Cristo, 1601 ca., Roma, S. Giacomo in Augusta.

Sulla traccia del rinvio longhiano alla tradizione tosco-romana è appropriato evidenziare qui la stretta relazione di dipendenza, in riferimento alla postura e alla gestualità, tra il Cristo Risorto di Baglione ed alcuni prototipi fiorentini, ipotizzando un’ideale linea di congiunzione con rinomati precedenti di uguale provenienza. Il bozzetto di Baglione palesa significative tangenze con la Resurrezione di Passignano, attualmente in arredo presso un ambiente privato dei Palazzi Vaticani (fig. 13); il dipinto di Domenico Cresti non sembra avere al momento una datazione certa n61,  tuttavia l’impostazione generale della pala riconduce ad insigni modelli cinquecenteschi, Santi di Tito in primis.

La storia del quadro è stata parzialmente ricostruita n62: sul retro della tela la scritta ad inchiostro «Prima Classe n. 19. Opera di Dom. o Passignani dato alle Cape di S. Igni dal M ro P N Lorenzo Ricci» fa riferimento alla sua collocazione, nella seconda metà del XVI secolo, nella cappella di Sant’Ignazio per iniziativa di padre Lorenzo Ricci, ultimo padre generale della Compagnia di Gesù prima della soppressione dell’ordine.

 

fig 13 Domenico Cresti detto il Passignano, Resurrezione di Cristo, Città del Vaticano, Palazzi Apostolici Vaticani.

Questa cappella fu ricostruita intorno al 1700 nell’area nota come La Storta al km. 12 della via Cassia, luogo dove secondo la tradizione Sant’Ignazio in viaggio verso Roma nel novembre 1537 avrebbe avuto la visione relativa alla fondazione del suo ordine. La scritta prima fa probabilmente riferimento ad un inventario dei Gesuiti nel quale l’opera era considerata di notevole valore. Requisita al tempo della soppressione della Compagnia assieme a dipinti floreali di Daniel Seghers, la tela fu successivamente compresa nella Galleria di dipinti di Pio VI in Vaticano dove risulta in un inventario del 1800; per gran parte di questo secolo fu conservata nella Floreria Apostolica prima di essere collocata nel 1979 presso i depositi dei Musei Vaticani. L’impianto iconografico del dipinto, nell’evidenza della sua finalità devozionale, si uniforma ai criteri promossi dalla Riforma cattolica. Passignano rientra nell’ultima generazione di artisti al seguito di Vasari e dei fratelli Zuccari; lavorò a Roma per diversi papi: Gregorio XIII, Sisto V, Clemente VIII e con Santi di Tito divenne punto di riferimento per l’assegnazione di buona parte delle commissioni di carattere religioso. La Resurrezione vaticana mostra una stesura in due zone distinte: al di sotto le guardie addormentate presso l’oscurità che avvolge il sepolcro, al di sopra Cristo in gloria attorniato da angeli: l’enfasi data al contrasto buio-luce sottende il riferimento alla dicotomia morte-resurrezione. Con finalità didascaliche compaiono alcune scritte: la prima absorpta est mors in victoria, si riferisce al passo di san Paolo (1 Cor. 15, 54) mentre la seconda in basso notas mihi fecisti vias vitae / adimplebis me laetitia cum vultu tuo (Sal. 15, 11) si ricollega anche al commento al testo biblico pubblicato da Bellarmino nel suo scritto Explanatio in Psalmos edito nel 1611 n63. Il dipinto è possibile che sia stato eseguito a Roma proprio per una committenza gesuitica, come sembra suggerire il suo successivo riutilizzo nella cappella alla Storta e ciò può essere stato un significativo precedente iconografico per Baglione desideroso di attenersi alle disposizioni dell’ordine. Tenendo conto della frequentazione romana di Passignano e Federico Zuccari entro il 1581 n64, e ammettendo l’ipotesi di un’esecuzione romana della tela, questa si collocherebbe plausibilmente nello scorcio del Cinquecento o al più tardi nei primissimi tempi del suo secondo soggiorno a Roma documentato in apertura del nuovo secolo n65. Cresti, d’altra parte, tornato a Firenze eseguirà un’analoga pala d’altare per la cappella della Madonna del Soccorso alla SS. Annunziata  n66.

fig 14 Ludovico Cardi detto il Cigoli, Resurrezione di Cristo, 1591, Arezzo, Museo Civico.

Al 1591 risale la Resurrezione del Cigoli oggi nel Museo Civico di Arezzo (fig. 14), essa si ricollega al citato Roncalli di San Giacomo in Augusta: si tratta, ad evidenza, di uno schema compositivo e iconografico ricorrente nella tradizione toscana che da Santi di Tito in Santa Croce a Firenze del 1565 (fig. 15),

fig 15 Santi di Tito, Resurrezione di Cristo, 1565, Firenze, Santa Croce.

risale addirittura al Bronzino del 1552 all’Annunziata, né va sottovalutato l’apporto dato alla pittura secentesca dallo schema adottato da Annibale Carracci nella Resurrezione dipinta a Bologna nel 1593, ma oggi al Louvre, opera tra le più celebrate e paradigma del nuovo orientamento classicista, che tiene a modello il quadro realizzato da Veronese nel 1562 per la chiesa di San Francesco della Vigna a Venezia.

Nel bozzetto di Baglione l’apparente riferimento alla sintassi figurativa michelangiolesca va visto invece attraverso il filtro del Cesari, poiché il soldato in primo piano a sinistra, ricalca in controparte la figura di Adamo nel dipinto raffigurante Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso del 1597, ora al Louvre (fig. 16), in ponderata correlazione con il prototipo michelangiolesco della Sistina.

Nella volontà di «ritorno all’ordine» e nel tentativo di coniugare un realismo di carattere sperimentale con criteri compositivi ed iconografici di consolidata tradizione accademica, si fa «evidente l’impossibilità di Baglione di costruire una vera alternativa al naturalismo caravaggesco su scala

fig 16 Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso terrestre Louvre

monumentale» n67 la cifra stilistica di Baglione volge quindi verso quel milieu di pittori attivi a San Giovanni dei Fiorentini nell’intento di rinnovare una linea tosco romana più aderente alla sua formazione che lo accomuna alla cultura pittorica di artisti quali Roncalli, Passignano, Cigoli. Ritornando dunque alla dichiarazione del Mancini circa la ‘maniera propria’ del Baglione, che non poteva annoverarsi tra i pittori caravaggeschi, il giudizio da questi espresso nelle Considerazioni sulla pittura risulta definitivamente sancito dalla disposizione originaria dei dipinti nella Villa Pinciana di Scipione Borghese: qui il Cardinale aveva collocato, proprio nel Salone dell’ingresso quadri di grandi dimensioni che egli riteneva rappresentativi degli orientamenti della pittura romana del primo Seicento e cioè la Madonna dei Palafrenieri di Caravaggio e tre quadri grandi sul tema di Adamo ed Eva rispettivamente del Cavalier d’Arpino, del Baglione e del Passignano. n68

di Stefania MACIOCE

NOTE

1 Marini 1982.
2 Si indica di seguito una parte degli studi più e meno recenti sul Baglione: Nicolaci (cds); Gallo 2013; Strinati, Nicolaci 2013; Negro 2012; Nicolaci 2012; Pampalone 2012A; Pampalone 2011; Nicolaci 2011A; Nicolaci 2011B; Nicolaci 2011C; Nicolaci 2011D; Papi 2011; Clark, Whitfield 2010; Macioce 2010A; Serafinelli 2010; Spear, Sohm 2010; Strinati 2010; Spezzaferro 2009; Strinati 2009; Salvagni 2008; Guerrieri Borsoi 2007; Papa 2004; Granata 2003; Macioce 2003; Gallo 2002; Macioce 2002; Marini 2002; Pupillo 2002; Vodret 2002; Danesi Squarzina 2001; Economopoulos 2001; Smith O’Neil 1999; Smith O’Neil 1998; Aurigemma 1994; Röttgen 1992; Nicolson 1990; Famà Di Dio 1987; Spear 1987; Bon 1981; Borea 1980; Nicholson 1979; Strinati 1978; Spezzaferro 1975; Schleier 1972; Moir 1967; Martinelli 1959.
3 Smith O’Neil 2002.
4 Sulla disamina di questo aspetto in particolare si veda Nicolaci 2012.
5 Terzaghi 2009; Nicolaci 2014.
6 Suzette Morton Davidson Collection (Santa Barbara, CA), in deposito presso l’Art Institute di Chicago.
7 Mancini 1956-1957, I, p. 246.
8 Ivi, p. 110.
9 Macioce 2010b, doc. 567, p. 154.
10 Cavietti, Curti 2012.
11 Mancini 1956-1957, I, p. 246.
12 Nicolaci 2012; Nicolaci 2014.
13 Sickel 2012
14 Brink 2008; Macioce 2012, in part. p. 140.
15 Nelle Vite Baglione utilizza con convinzione e ripetutamente questo aggettivo.
16 È stato più volte rilevato che una costante di questo momento artistico romano è la ripresa di Raffaello che accomuna tra loro artisti diversi compreso Baglione: si veda in proposito Spear 1987.
17 Sul singolare e forte intreccio tra vicenda biografica e processuale e produzione pittorica, oltre i citati Marini 1982 e Marini 2002, si veda anche Papi 2014.
18 Si vedano in linea generale Chappel, Kirwin 1974; Abromson 1976, pp. 350-352; Macioce 1990, pp. 105-111 e più di recente Gallo 2007. Sull’iconografia dei quadri petrini di Baglione si veda Gallo 2013, p. 45 ss.
19 Baglione 1642, p. 290.
20 Economopoulos 2012, p. 146.
21 Bellori 1672, p. 204.
22 Fra i tanti esemplari postillati delle Vite di Bellori il più celebre è certamente il Corsinianus 31 E 15, poiché vi compaiono le velenose considerazioni del Bellori sul lavoro del Baglione. Bellori aveva scritto in età giovanile una canzone elogiativa delle Vite del Baglione che era stata pubblicata nella princeps del 1642. Dopo oltre vent’anni Bellori scrive di essersi pentito di quella canzone, se ne scusa e si abbandona ad una serie di malevolenze, che restituiscono il quadro desolante di un mondo artistico romano in preda alle gelosie ed ai dispetti di bassa lega cui di certo Bellori non è estraneo. Baglione avrebbe scritto le Vite solo per vendetta nei confronti di Gaspare Celio, che nelle sue Chiese di Roma ‘piene di errori’ non aveva ritenuto di doverlo citare; e in realtà nemmeno le avrebbe scritte lui, ma Ottavio Tronsarelli, poeta e letterato romano. Se, a proposito delle motivazioni che indussero Baglione a scrivere le Vite sia Hess sia Röttgen concordano nell’escludere lo spirito di vendetta nei confronti del Celio, Hess ritiene di dover attribuire al Tronsarelli un ruolo assai più importante nella redazione dell’opera rispetto a quanto non faccia Röttgen. Hess sostiene che Tronsarelli abbia redatto egli stesso una parte delle biografie e sia intervenuto stilisticamente sulle altre; Röttgen limita il contributo di Tronsarelli a ritocchi di tipo stilistico o ad aggiunte di tenore erudito, cfr. Baglione 1995, passim.
23 Secondo Claudio Strinati, Giovanni Baglione, indipendentemente da Caravaggio, si era già avviato verso la strada del naturalismo, cfr. Strinati 2010, in part. pp. 19-20.
24 Economopoulos 2012, p. 151; per una disamina iconografica si veda Gallo 2013, p. 56.
25 Smith O’Neil 2002, p. 80, fig. 40.
26 Nicolaci 2012, pp. 490-492.
27 Ringrazio il dott. Jacopo Curzietti per avermi suggerito questo stringente accostamento.
28 Röttgen 2002; Röttgen 2012.
29 Sul rapporto tra Baglione e Guido Reni all’interno del cantiere di Santa Cecilia in Trastevere rimando a Nicolaci, Gandolfi 2011, in part. p. 42. Sulle opere di Baglione per il cardinal Sfondrati si vedano Economopoulos 2012, pp. 147-153 e Nicolaci 2012, p. 491.
30 Sricchia Santoro 1974, in part. p. 31.
31 La collocazione del dipinto di Baglione è anteriore rispetto al San Francesco in meditazione di Caravaggio rinvenuta a Carpineto Romano e databile al 1606 circa. Il capo languidamente reclinato del santo, gli occhi riversi all’indietro, la composizione in verticale, l’impaginato chiuso che accentua il languore sentimentale, l’inclinazione emotiva, appartengono solo esteriormente alle modalità figurative caravaggesche. Dell’Estasi di san Francesco si conoscono altre due versioni, una presso il Lacma (Los Angeles County Museum of Art), ed una in collezione privata (Asta Bloomsbury, Roma, 11 giugno 2008), cfr. Nicolaci 2011d, p. 142.
32 La tela è conservata presso il Wadsworth Atheneum Museum of Art di Hartford (The Ella Gallup Sumner and Mary Catlin Sumner Collection Fund, 1943.222).
33 Si veda la relativa scheda in Christiansen, Mann 2001, pp. 53-55.
34 Marini 1982, p. 66 rifacendosi al Pentimento di san Pietro alla Galleria Sabauda di Torino che datava al 1606, motivandone il vago carraccismo e il sottofondo Reni-Caravaggio, con il dichiarato antagonismo del Baglione che, nell’intento di emendare l’eccessivo naturalismo del lombardo, è ormai in rotta con la cerchia caravaggesca. Il languore patetico del dipinto sembra influenzare diverse letture del soggetto come san Francesco stigmatizzato
del Fenzoni oggi a Madrid (Museo Thyssen-Bornemisza), come pure il medesimo soggetto di Bilivert (1610) oggi nel Museo Diocesano di San Miniato.
35 Baglione 1642, p. 373.
36 Röttgen 2002, p. 249, scheda 28; si segnala qui, a testimoniare la diffusione del soggetto, una derivazione conservata nel Museo Diocesano dei Frati Minori Cappuccini di Roma (inv. 0108), nonché una attribuita a Jacopo Ligozzi nel Museo della Pinacoteca Rambaldi di Villa Luca a Sanremo; e poi ancora una copia nel catalogo della Fondazione Zeri (scheda n. 56063), e un’altra copia segnalata in «Artvalue», 17/4/2010, lotto 545; l’iconografia era diffusa nei conventi francescani.
37 Baglione 1642, p. 136; Nicolaci 2012, p. 499.
38 Röttgen 1992, p. 20.
39 Si ritiene che egli si riferisca ad un quadro precedente del Merisi, si veda Nicolaci 2012, pp. 497-499.
40 Macioce 2010b, doc. 569, p.156.
41 Voss 1922; Voss 1923.
42 Martinelli 1959.
43 Vodret 2002.
44 Per il modello raffaellesco si vedano le schede di Silvia Danesi Squarzina e Rossella Vodret in Danesi Squarzina 2001, pp. 298-301.
45 Macioce 2010b, doc. 502, p. 120.
46 Si veda inoltre Pampalone 2012b.
47 Baglione 1642, p. 138.
48 Macioce 2010b, doc. 559, p. 146.
49 Calvesi 1995.
50 Baglione 1642, p. 402. Sull’intera vicenda processuale si veda Macioce 2010b, pp. 146-162. Per la trascrizione integrale si veda l’appendice a Di Sivo 2011.
51 Inequivocabile in tal senso sembra la dichiarazione di Orazio Gentileschi rilasciata al medesimo processo; da ultimo si veda Di Sivo 2011, in part. p. 104.
52 Macioce 2010b, doc. 559, p. 146.
53 Arsj (Archivio della Chiesa del Gesù), vol. 2005: Libro delle entrate e delle uscite, cc. 84-86, 88, 90, 94, parzialmente pubblicati in Basile 1922; Bailey 2003, p. 358, n. 238; Macioce 2010a, in part. p. 305.
54 Il termine post quem è fornito da una guida artistica di Roma che ricorda l’opera ancora al suo posto, rinvenuta in un manoscritto anonimo secentesco databile tra il 1615 e il 1622 pubblicata in Dorati Da Empoli 2001, p. 42.
55 Smith O’Neil 2002, p. 20, studi preparatori non menzionati in Papi 2011.
56 Trevisani 2011.
57 Papi 2011, p. 111.
58 Longhi 1963. Tra i contributi più recenti sul processo si segnalano quello di Smith O’Neil 2002, pp. 8-39 e Strinati 2009.
59 Baglione 1642, p. 180.
60 Papi 2011, p. 110.
61 De Angelis 1998, p. 170 data il dipinto al primo quarto del XVII secolo.
62 Ibidem; si veda in precedenza Pietrangeli 1983, p. 168.
63 Bellarmino (1611) 1931, pp. 57-58.
64 Bertolotti 1876, pp. 129 ss.
65 Prosperi Valenti Rodinò 1984.
66 Cfr. Baldinucci 1702, p. 135; Nissman 1979.
67 Nicolaci 2012, p. 502.
68 Herrmann Fiore 1998, p.16.