Fontanesi e le suggestioni del paesaggio: a Reggio Emilia l’omaggio al grande concittadino (fino al 14 luglio)

di Giuseppe BERTI

La  Modernità di Antonio  Fontanesi

Una bella mostra  sul pittore  reggiano  ai Civici Musei di Reggio Emilia

“…Sarebbe fuorviante […] voler includere la pittura fontanesiana entro limiti regionali, o addirittura nazionali; perché essa appartiene di diritto – come hanno già inteso critici illustri – al grande romanticismo europeo”.

Questa riflessione di Francesco Arcangeli,  capace più di ogni altra voce critica di entrare in empatia con il panteismo romantico del pittore reggiano, ci sembra  l’indispensabile viatico per affrontare i percorsi che la bella Mostra su Antonio Fontanesi propone al visitatore  nelle nuove sale dei Civici Musei di Reggio Emilia (fino al 14 luglio).

Sapientemente curata da  Virginia Bertone, Elisabetta Farioli e Claudio Spadoni, l’esposizione  si pone l’obiettivo  di riscoprire la forte modernità di questo pittore, morto tuttavia in solitudine umana ed artistica in un’ Italia che, nonostante la rivoluzione pittorica operata dai Macchiaioli  toscani  negli Anni Sessanta del sec. XIX, stentava  a  comprendere, di Fontanesi,

quel suo nordico e inafferrabile romanticismo, ch’è tutto d’ispirazione universale e panteistica “ (Arcangeli).

Del resto Antonio Fontanesi (Reggio Emilia 1818-Torino 1882) è l’artista più cosmopolita della sua generazione. E tuttavia sino al 1848, spartiacque politico  e culturale  per molti giovani irrequieti, nulla ancora poteva lasciare presagire la sua   futura, originalissima maturità artistica formatasi attraverso le grandi esperienze europee. A Reggio, infatti,  dove la cultura pittorica continuava ed esercitarsi sui vecchi e un  po’  logori copioni del paesaggio accademico,  pure  il nostro pittore  agiva nel solco di quella consolidata  tradizione: anche se in queste sue prime prove – come nei quadri realizzati per un locale pubblico cittadino, il Caffè degli Svizzeriesposti in mostra-  si avverte già una sensibile attenzione  ai valori atmosferici e tonali  che   sfumano in bagliori di  luce pulviscolare.

Quei quadri, però, furono  gli ultimi lavori eseguiti a Reggio

perché la  sorte  lo  costrinse, appena trentenne, a lasciare per sempre la  sua piccola  e chiusa città natale:  nel 1849 egli riparò infatti a Ginevra dopo il fallimento della prima guerra d’indipendenza a cui egli, fervente mazziniano,  aveva partecipato come volontario nelle formazioni  garibaldine  operanti tra Piemonte e Lombardia. E a questo punto per  il nostro  giovane esule  inizia  una nuova storia, affatto diversa dalla precedente.

Antonio Fontanesi La Solitudine

Ora il breve spazio concesso a questo articolo non consente di tracciare la biografia dell’artista: diciamo solamente  che i  frequenti viaggi  che dalla Svizzera egli  fece verso  Parigi e Londra, tra il 1850 e il ’65, gli permisero di conoscere e studiare i grandi maestri della pittura di paesaggio, francesi ed inglesi: Corot, T.Rousseau, Troyon, Millet, Daubigny (insomma, la Scuola di Barbizon al gran completo), Ravier, Constable e Turner. A quelle date  doveva ancora nascere la Nuovelle Vauge impressionista  e a Fontanesi parve che nelle opere di questi pittori francesi e inglesi echeggiasse un vibrante inno alla poetica dell’infinito, alla poesia del paesaggio fatta di vasti silenzi e turbata malinconia. Certo, l’approfondimento dei temi di paesaggio e di figura avvenne nel nostro artista gradualmente: ne sono testimonianza i suoi dipinti degli anni Cinquanta che, se pur pervasi già da timbri solitari e silenti, non riescono  ancora  a liberarsi del tutto da una certa propensione  descrittiva e analitica. Ma dal 1860 in avanti la voce dell’ autore si fa davvero memorabile, inconfondibile, potentemente “drammatica” :  nella sempre più marcata accentuazione del  rapporto luce ed ombra Fontanesi adotta infatti  un linguaggio libero da ogni preoccupazione compositiva, capace dunque di trasfigurare il   paesaggio  in una dimensione   visionaria, in uno stato d’animo, in una malinconica consapevolezza dell’inarrestabile logorio delle forme e delle cose, del segreto sfacelo  che il tempo porta sempre con sé. Non sarà un caso allora se la nuova generazione degli autori simbolisti riconoscerà in Fontanesi uno straordinario precursore, un maestro da studiare con partecipata devozione.

Ma c’ è anche qualcosa d’altro, di più  intrigante  e nuovo.

Antonio Fontanesi, Tramonto sul PO a San Mauro

Basterà  infatti osservare alcuni suoi capolavori degli ultimi anni per scorgere, in questa  franta e luminosa materia cromatica che dilaga libera ben oltre i confini della forma,  un anticipo di quelle radicali ricerche sulla luce e sul colore che Monet, nell’ultima parte della sua vita, condusse a Giverny tra riflessi di ninfee, di acque e di cielo; così che, a contatto di questo iridescente e mobile microcosmo, l’artista seppe giungere alla totale dissoluzione della forma. Per questa ragione, non  a caso, Monet è stato definito un precursore delle  poetiche dell’Informale. Ma lo stesso principio potrà valere,  allora,  anche per le opere tarde di Fontanesi:nell’eclissi della forma che segna come malinconica “stimmung” questi dipinti,  qualche critico  (tra cui anche  i curatori della Mostra) ha visto infatti un anticipo di quelle ricerche che si condussero in Val Padana negli Anni Cinquanta del secolo scorso  e che presero il nome di Ultimo Naturalismo o Naturalismo Informale.

Ad ulteriore dimostrazione della grandezza e della modernità di un autore il cui lirico linguaggio  va ben oltre i confini temporali e culturali  entro cui egli visse ed operò.

Giuseppe BERTI   Reggio Emilia aprile 2019