redazione
Si sono svolti ieri alla basilica di Cristo Re i funerali di Franco Luccichenti.
L’ultimo saluto è avvenuto alla presenza di decine e decine di amici, di quanti nel corso degli anni hanno avuto modo di frequentare Franco in qualità architetti, studiosi di pittura antica, antiquari ma anche semplici affezionati conoscenti che hanno potuto apprezzarne la personalità, l’ironia, la sagacia oltre che le conoscenze e le competenze.
Tra costoro, Fabrizio Lemme, Franco Purini, Claudio Strinati hanno avuto la sensibilità di lasciare per iscritto la loro testimonianza che ci onoriamo di pubblicare come estremo saluto al caro amico oltre che nostro valoroso e indimenticabile collaboratore.
Fabrizio LEMME:
Nel momento in cui un caro amico scompare, ti tornano in mente, come in una rappresentazione cinematografica, i momenti che hanno scandito l’amicizia.
A cominciare dal primo, la conoscenza. Quando l’ho conosciuto?
Certamente, molti decenni orsono: eravamo entrambi interessati al Barocco Romano, per lui incentrato sulla grande figura di Nicolas Poussin, per me su Guido Reni. I due pittori sono molto affini sul piano intellettuale: entrambi hanno svolto una ricerca su come rendere visiva una idea, su questo trascorrendo il loro intero percorso creativo.
Entrambi (lui ed io), siamo arrivati all’essenza del nostro artista preferito e data la scarsità di collezionisti di questo periodo limitato della storia umana, la nostra conoscenza era inevitabile.
Franco mi ha fatto inoltre conoscere un fatto curioso e singolare che distingue il mercato dell’arte: i c.d. “scarichi”, ossia l’arrivo di camion dall’estero che trasportano opere d’arte acquistate sui mercati internazionali e che riservano continue sorprese, per i mercanti che si assiepano alla cerimonia della agnizione.
Se ne è andato in silenzio, lasciando il tenero amore di una vita, la dolcissima coniuge Carla e il figlio Simone, che lo ha sempre amato, sia pure in senso critico e scherzoso.
La sua morte mi è stata comunicata da un altro grande amico, Pietro Di Loreto.
Ci univa e ci unisce la comune passione, che ha come punto di riferimento la grande stagione del Barocco Romano, quella che si racchiude tra due “trionfi”, di casa Barberini il primo, che Pietro da Cortona dipinse nella volta del salone d’ingresso di Palazzo Barberini (1639), e Giovan Battista Gaulli celebrò nel Nome di Gesù, in Sant’Ignazio (1679). Convenzionalmente, son queste le date di nascita e di morte del Barocco Romano. Franco ne era pienamente consapevole e spesso il tema formava oggetto delle nostre comuni riflessioni, che riempivano la nostra vita di collezionisti.
Oggi, abbiamo perso un grande interlocutore: ma il Barocco Romano è ancora “trionfante”.
Fabrizio LEMME 17 Giugno2025
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Franco PURINI
L’improvvisa scomparsa di Franco Luccichenti è per chi lo conosceva una grande perdita. Appartenente a una dinastia di progettisti di grande qualità, Ugo e Amedeo, egli, architetto anch’esso, continuava questa tradizione con sincerità e con notevoli risultati. Nella sua vita aveva secondo me tre temi. Il primo era un procedere nei suoi studi su territori e paesaggi con i quali era necessario stabilire avanzati interventi urbani e ambientali. Straordinari disegni esprimevano queste visioni, tanto interessanti quanto precise. Il secondo tema era la sua passione per l’arte, da quella del Cinquecento al Seicento, dal Settecento e all’Ottocento fino a opere più vicine al nostro tempo. Il terzo tema, sul quale ho ascoltato molte sue espressioni, riguardanti le sue idee sull’universo. Erano magiche visioni di grandi e misteriose formule esistenziali sulle quali riusciva a costruire sistemi matematici precisi, che ordinavano il suo pensiero.
Un amichevole saluto a Franco Luccichenti, con il quale continuerò a dialogare in silenzio, e alla sua famiglia. La sua accogliente casa, che trasmetteva la propria energia e le sue continue idee, è un luogo che non si dimentica.
Franco PURINI Roma 17 Giugno 2025
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Claudio STRINATI
Franco Luccichenti è scomparso con la discrezione e il garbo delicato che hanno contraddistinto tutta la sua vita. Ho saputo che, terminata una breve colazione al mare con gli amici, ha espresso il desiderio di riposarsi un momento, cosa ben logica in una caldissima giornata d’estate. E l’ ha fatto ma questa volta entrando direttamente in quello che noi tutti chiamiamo l’ eterno riposo. Forse un attimo di disattenzione. Deve essere scivolato e caduto.
Una certa disattenzione alle normali cose della quotidianità faceva parte pressoché strutturale del suo carattere e del suo modo di vivere. Se c’è una cosa che si può dire con assoluta certezza di questo singolare e amabilissimo uomo è che badava soltanto alle cose e alle persone che veramente gli interessavano.
“Che non mi si parli di nulla che non sia grande”, una frase famosa pronunciata a Parigi da Gian Lorenzo Bernini quando venne chiamato dal Re Sole a fargli il ritratto e a rifare il Louvre. Franco non credo abbia mai detto così ma era proprio quello che pensava.
Per il resto era l’ incarnazione di quell’ idea di impermanenza che continuamente riproponeva all’ attenzione dei suoi interlocutori. Se mi è concessa un’altra citazione letteraria si potrebbe forse applicare a lui l’immortale titolo di Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’ essere, “mutatis mutandis”, beninteso.
Gli piacevano la vita tranquilla, gli affetti della famiglia e dell’amicizia, la lettura dei giornali e di tanti libri. Gli piaceva coltivare, ma con moderazione, il suo talento invero formidabile, di disegnatore e per un certo periodo anche di pittore, ancora oggi noto a pochi ma rimarchevole. Gli piaceva scrivere e i suoi contributi su questo giornale la dicono lunga rispetto ai tanti interessi che coltivava. Gli piaceva la musica e suonava il pianoforte da bizzarro dilettante ma con uno stile tutto suo ignaro di altre tonalità che non fossero il do maggiore e con un gusto minimalista di cui tanto si compiaceva e non del tutto a torto. Gli piaceva andare a vedere tutto quello che si poteva vedere, ovunque alla ricerca di quadri antichi e sculture da scoprire con una spiccata e ben coltivata attitudine di autentico conoscitore, collezionista, antiquario. Ma anche qui con la competenza del serio e probo professionista e l’ atteggiamento dell’eletto dilettante.
Ma era un architetto, in realtà! Discendente da una famiglia di grandi maestri della disciplina nonché padre di un nuovo e assai capace esponente, suo figlio Simone, di questa storia illustre. Tuttavia l’architettura era ben presto diventata soltanto un aspetto di quella sorta di sistema filosofico che Franco si era costruito e dentro il quale abitava bene.
Abitava, appunto. La sua vita, infatti, è stata fondamentalmente la sua opera architettonica realizzata, ed è venuta bene. La sua professione, infatti, era pensare la struttura e il funzionamento dell’esistenza applicandone le regole implicite che il pensiero riesce a rivelare a noi stessi, sulla base di una eccellente formazione scientifica e umanistica al contempo, come nel suo caso, sempre connotato da un doppio registro: il fervore intellettuale e morale/l’ ironica e disincantata pigrizia.
Avere una buona idea, e ne aveva in continuazione, era la sua gioia suprema e il suo rischio più evidente. Perché non elaborava volentieri oltre il momento intuitivo. Arrivava subito alle conclusioni sovente espresse in forma di sentenza inappellabile, definitiva ma talora alquanto oscura.
L’ oscurità, ecco il punto.
La vedeva come il fattore dominante dell’arte, della vita, dei sentimenti. Ma non oscurità intesa nel senso di incomprensione o segreto, ma nell’ opposto: la via privilegiata alla reale comprensione di tutte le cose.
Progressivamente aveva vinto in lui l’istanza scientifica che però gli piaceva guardare nel filtro più che del rigore matematico della fantasia fantascientifica e ci aveva scritto sopra anche un bel libro alla fine del secolo scorso, Viaggio alla fine del mondo.
Forse perché l’agognata verità che spiega tutte le cose e conforta noi stessi, esiste veramente ma non si sa bene in quale dimensione.
Franco era convinto che la verità esiste ma non è nello spazio artistico che pure sembra ed è tanto bello, né in quello filosofico, né in quello meramente esistenziale, forse nemmeno in quello della convenzione religiosa qualunque sia la credenza.
Giunse alla conclusione che è, invece, nel Secondo Principio della Termodinamica e, più estensivamente, nella fisica quantistica corredata dalla teoria delle stringhe e, ovviamente, dei buchi neri.
Però le delusioni e i dispiaceri democraticamente profusi a piene mani dalla quotidianità di ciascuno di noi, crescevano anche per lui invece di scemare.
Aveva assistito nella sua piena giovinezza al momento magico degli studi e del commercio dell’arte antica quando sembrava (parlo degli anni settanta del Novecento) che quel tipo di attività avrebbe garantito il più grande e meritato successo ai più bravi. E lui lo era, conoscitore nato e peraltro cultore serio e arguto degli studi, delle esperienze, delle amicizie e delle letture indispensabili nel nostro campo. Con Claudio Gasparrini aveva costituito un singolare sodalizio di ricerca ed era uno spasso vederli insieme a rovistare l’universo mondo. Roma, all’epoca, era piena di personaggi dalle prodigiose attitudini con cui era meraviglioso dialogare ed era nata una sorta di comunità di esperti dove Claudio e Franco si muovevano con la finezza, l’intelligenza e la bontà che sempre ha caratterizzato le grandi persone. Emergevano, nel nostro campo dell’arte antica, dei giovani che sembravano miracolati del cielo, avviati a prendere la leadership di questo mondo nonché a far vedere i sorci verdi ai sommi Maestri. E tra i primi a riconoscerli questi ragazzi chi pensate che ci sia stato? Proprio i nostri: Claudio, all’ epoca quarantenne, e Franco, all’epoca trentenne.
Mi ricordo bene quando Franco ci parlava di un monomaniaco del Caravaggio, Maurizio Marini, che avrebbe sicuramente preso il posto di Roberto Longhi perché sapeva tutto e aveva fatto una miriade di scoperte sensazionali.
Mi ricordo che fu il primo a parlarmi di un ragazzino che sembrava ignaro delle più elementari regole della civile conversazione, ma che era l’ emblema stesso del perfetto conoscitore e sapeva tutto anche lui, non solo del Caravaggio, ma dell’ intera storia dell’arte italiana e si chiama Filippo Todini, uno che a Federico Zeri gli dava le piste e non aveva neanche vent’ anni.
Mi ricordo quando tra i primi si accorse, con divertito stupore, del fatto che fosse nato, a seguito di un parto travagliato e turbolento, uno che era destinato a diventare il vero genio della storia dell’arte del nostro Paese, un ragazzo di Ro Ferrarese che non chiedeva a nessuno il permesso di essere quello che era, una forza della Natura impiantata su una cultura immensa, il Luigi Lanzi della nostra epoca. Solo che gli sembrava un poco maleducato e viziato. “Merita il suo nome. Si chiama Vittorio Sgarbi”!
Ma ne potrei raccontare tante del genere.
Franco anche lui onorava il suo nome perché era un uomo sincero e schietto che sapeva riconoscere i talenti altrui, alieno sempre da invidie, rivalità, sospetti. Era generoso e intelligente e tutti lo hanno sempre rispettato.
“Sol chi non lascia eredità di affetti/ poca gioia ha dell’urna”.
Foscolo aveva ragione e nel caos di Franco quei versi mirabili funzionano ex contrario perché quello che Franco ha fatto veramente è stato lasciare una grande eredità di affetti.
Sulla gioia dell’urna, ovviamente non sono in grado, confidando che non lo sia nessuno, di pronunciarmi, ma tendo a crederci.
Una volta, all’ ennesima discussione sulle sue stesse cose e sulle sue stesse aspirazioni, Franco mi fa: “ho trovato l’ equazione teofanica”. E cioè che sarebbe? “Una specie di dimostrazione matematica dell’ esistenza di Dio”. Si trattava, berninianamente, di una cosa grande di cui parlare. Quindi me la spiega e io, in verità, non ci capisco niente ostentando di prenderlo sotto gamba.
“Te la mando, guarda, così ci puoi riflettere”.
E infatti il 21 febbraio del 2014 me la manda.
La trascrivo a beneficio dei lettori:
Lo zero può essere il simbolo matematico di Dio. Se in una frazione lo metti al numeratore es. 0 / N rappresenta il nulla il “non essere” la non appartenenza al tempo e allo spazio. Se lo metti al denominatore es. N / 0 rappresenta l’infinito ineffabile ,
incommensurabile e inconcepibile. Dio è appunto SOSTANZIATO da entrambe le cose. C( 0 / N + N / 0) = Dio. N nell’equazione è un numero qualsiasi e C è una costante teofanica da definire Chiamerei questa semplice equazione “equazione teofanica” Appunto rappresenta matematicamente la divinità. Franco Luccichenti
Ditemi, cari amici: è giusta?
Che la matematica sia con te!
Claudio STRINATI Roma 17 Giugno 2025