Domenichino e il dualismo tra bene e male nel “Rimprovero e la cacciata dal Paradiso di Adamo ed Eva”oggi a Dublino.

di Rita RANDOLFI

La  Cacciata  dal paradiso terrestre è uno dei  momenti più  tragici  della Genesi,  è  la conseguenza del peccato che impone una scelta drastica sia da parte di Dio che dell’uomo, rappresenta la fine di una dimensione  idilliaca e l’inizio di un’avventura sconosciuta, un salto nel buio per  Adamo ed Eva, che si sono  allontanati volutamente dal  loro Padre, il quale, come tutti i padri,  escogita un nuovo piano per riconquistare i figli, attraverso un progetto di salvezza incarnato da Gesù.

L’episodio è stato immortalato da molti artisti,  alcuni come Masaccio o Beato Angelico, che lo trattò due volte,  lo inseriscono nella rappresentazione dell’Annunciazione, in quanto il  sì di Maria è il  necessario presupposto   per quel piano di riscatto per l’umanità intera.

Si giunge  all’interpretazione volutamente drammatica di Michelangelo  nella volta della cappella Sistina,  che racconta  tutta la storia dell’errore, dal cedimento alla tentazione del serpente fino alla cacciata dal Paradiso.

Le Dominiquin, Dieu reprimant Adam et Eve, Grenoble

Dopo Michelangelo anche altri colleghi trasposero in immagine quel racconto biblico, basti pensare a Raffaello e bottega nelle Logge Vaticane, al Salviati, al Cavalier d’Arpino, e anche Domenichino si occupò  più volte dell’argomento.

Tra il 1623 ed il 1625, mentre era impegnato nell’esecuzione degli affreschi nella chiesa di  Sant’Andrea della Valle, l’artista dipinse almeno tre versioni della stessa composizione, la prima, su rame, oggi al Musée di Grenoble[1] (cm 95 x 75), la seconda su tela, proveniente dalle raccolte Colonna Barberini, oggi nella National Gallery of Ireland a Dublino (cm 121,9 x 172,1), e  la terza, nuovamente su tela di cm 68,6 x 54,6, nella collezione Devonshire a Chatsworth nel Regno Unito.

Domenichino, The Rebuke of Adam and Eve, 1626, National Gallery of Ireland

Questo contributo, oltre a ricostruire la storia dei passaggi di proprietà di una delle  repliche conosciute, quella di Dublino, probabilmente non del tutto autografa, appartenuta prima ai Colonna e successivamente ai Barberini, vuole analizzare i dettagli dell’invenzione di Domenichino in relazione alla fonte biblica e agli influssi iconografici e concettuali desunti da Michelangelo, evidenziando il pensiero sotteso  del suo autore.

Domenichino, The Expulsion of Adam and Eve, 68.6×54.6 cm; Chatsworth House, Derbyshire, UK; © Devonshire Collection, Chatsworth

Mi permetto a tal proposito di ringraziare Monsignor Corradini, che conobbi ai tempi dell’Università, il quale oltre a trasmettermi la passione per la ricerca d’archivio, che ha fortemente influito sulla mia formazione e sulla successiva produzione scientifica, mi ha sempre fatto riflettere sull’uomo che si nasconde dietro l’artista, invitandomi ad indagarne la sensibilità, le emozioni, non considerandolo solo un mero esecutore a servizio di un committente, ma una personalità che vuole comunicare un messaggio, consegnato al mondo utilizzando gli strumenti propri dell’arte, i colori, le forme, il marmo e via discorrendo.  In questa sede ho cercato di unire questi due insegnamenti, la ricostruzione storica attraverso i documenti e il tentativo di comprendere più in profondità quello che Domenichino intendeva dire mediante un tema sul quale tornò più volte, evidentemente non solo per soddisfare le richieste di mercato.

Partiamo dalla storia.

La datazione della Cacciata di Dublino viene restituita da un cartone preparatorio eccezionalmente firmato e datato “DOMINIC. SANPIER BONON. I. AN. MDCXXVI”[2].

Il dipinto fu comprato nel 1670  da Lorenzo Onofrio Colonna, il quale  sborsò ben 700 scudi:

«per S. Monte di Pietà alli Ss.ri Lutio, Valerio e Mario della Vetera fratelli prezzo di un quadro originale del Domenichino con figura di Adamo»[3].

Un’ulteriore testimonianza dell’acquisto si desume da una lettera di Paolo Falconieri a Lorenzo Megalotti in cui si racconta:

«L’altro dì era in vendita un quadro del Domenichino, di palmi sette soli, rappresentato Iddio Padre che scaccia Adamo ecc., e si dichiaravano che non ne volevano meno di scudi mille. Il Contestabile lo volle, e non s’è mai saputo quanto l’abbia pagato. Solo un cavaglier suo confidente ha detto che sono stati scudi settecento; io non credo, però che ne pigliarebbe giuramento»[4].

Al di là della questione del prezzo, comunque elevato,  il dipinto si rintraccia nell’inventario di quell’anno descritto come:

«Un Quadro di p.mi 5 1/4, e 6 1/2 con Adamo e Eva scacciati dal paradiso terrestre con cornice intagliata e dorata opera del Domenichini»[5].

Un rapporto elaborato nel 1802 dal  Dufourny, in preparazione della spedizione di opere d’arte dall’Italia alla Francia, parlando  del cartone, ora al Louvre,  indicava  il quadro  ancora in possesso della famiglia:

«Cartoni … 5. Adam et Eve, chassés du Paradis terrestre, fig. demi-nat., carton du tableau de la Gallerie [ sic ] Colonna par le Dominiquin»[6].

Presso i Colonna lo vide anche il Winckelmann che così lo descrisse:

«Bene immaginato è il quadro del Domenichino esistente nella Galleria Colonna, che rappresenta il Peccato Originale. L’Onnipotente portato da un coro di angeli rinfaccia ad Adamo il suo fallo: questi rigetta la colpa su di Eva ed Eva sul serpente che striscia ai suoi piedi; e queste figure sono disposte a gradi, come a gradi è l’azione,  e formano una catena di movimenti che le legano l’una all’altra[7]».

Tale testimonianza è interessante in quanto  rivela le novità dell’argomento trattato, che mette in difficoltà anche il famoso intellettuale nel definirne il soggetto, prima  identificato come  una rappresentazione del peccato originale, poi come il triplice rimprovero di  Dio ad Adamo, di questi a Eva e della donna  al serpente, attestando  l’originalità della trattazione del tema e di conseguenza il successo del dipinto e la lungimiranza delle scelte del connestabile Lorenzo Onofrio.

La tela  rimase  nella raccolta Colonna fino al 1820,  anno in cui, per volontà testamentaria del principe connestabile don Filippo III,  ben otto quadri della collezione di famiglia, ritenuti di particolare prestigio, dovevano essere ceduti in eredità  alle sue tre figlie: Margherita, moglie di Giulio Cesare Rospigliosi, duca di Zagarolo, Maria Vittoria, sposata con il principe di Palestrina Francesco Barberini e Maria consorte di Giulio Lante della Rovere.

Gaspare Landi, incaricato  di redigere gli inventari, nonché di occuparsi della questione, pensò di ricorrere al sorteggio, e così preparò tre biglietti, sui quali scrisse i nomi degli autori e dei dipinti divisi a seconda del valore loro attribuito. Sul biglietto numero 1 erano segnati:

«Un quadro originale della seconda maniera di Raffaele rappresentante una Vergine con il Bambino, ottimamente conservato. Un quadro rappresentante la Nascita di Gesù ai Pastori di Berghem in tela incollato su tavola»,

sul numero  2

«Un quadro rappresentante Adam ed Eva coll’Eterno Padre ed Angeli opera classica di Domenichino. Altro quadro rappresentante una Sacra famiglia in tavola della scuola di Andrea del Sarto, forse di Giacomo Pontormo. In aggiunta per compenso la testa di Cenci creduta di Guido»

e sul numero 3

«Un quadro rappresentante Davide incontrato dopo la Vittoria avuta sul Gigante Goliah dalle donne di Gerusalemme, pittura del Guercino, che ha in qualche parte sofferto. Altro quadro rappresentante un Paese di Claudio che bilancerebbe da solo e per la sicurezza dell’Autore gli altri sopra indicati, se ancora esso non fosse stato malamente restaurato e indicante il Tempio di Venere. Altro quadro in tavola rappresentante una Leda col cigno ed altre due Donne, preteso, ma senza buone ragioni, del Correggio»[8].

La nota del Landi  rivela  quali erano i criteri di scelta e di valutazione delle opere nel XIX secolo. Il divino Raffaello non aveva rivali, infatti la sua Madonna, di cui si è già trattato altrove, era associata ad un solo altro dipinto del Berchem[9]. L’incertezza su un autore o un cattivo restauro giustificavano la compensazione con le altre opere, in modo da garantire un’equivalenza di prezzi, e dunque solo il biglietto numero uno conteneva due dipinti, gli altri tre per ciascuno.

Il 21 aprile del 1820, alla presenza di tutti gli interessati, fu designata la mano innocente di  Carlo Barberini, allora bambino, per l’estrazione: in un recipiente  si trovavano i tre   biglietti con i quadri, nell’altro  quello con i nomi delle tre sorelle Colonna. A Maria Colonna Lante toccarono  il Raffaello ed il Berchem[10], a Margherita  Guercino, Correggio ed il paesaggio del Lorrain, mentre a  Maria Vittoria spettò il biglietto numero 2, con la tela di Domenichino ed il presunto ritratto di Beatrice Cenci[11].

Il Rimprovero di Adamo ed Eva  passò dunque nella collezione Barberini, nei cui inventari è documentato fino al 1844.

Il modo in cui la tela transitò da una collezione all’altra certifica che i Colonna erano pienamente consapevoli del valore del quadro, tanto da estrapolarlo dal resto della raccolta, per essere sicuri che finisse in mano comunque di un membro della dinastia, anche se femminile e di conseguenza imparentato con qualche altra nobile stirpe. Il connestabile infatti  con il dono di quegli otto quadri  garantiva una  dote cospicua alle sue tre figlie, sposate con persone che ancora contavano nella città pontificia  di inizio Ottocento.

I  passaggi di proprietà successivi al 1844 comprovano, in un certo senso,  l’alta considerazione  riconosciuta alla  creazione del Domenichino.

Nel 1948 attraverso lo Studio d’arte Palma di  Roma Il rimprovero di Adamo ed Eva  fu venduto  a Machado Coelho, allora membro della Camera dei Deputati di  Rio de Janeiro, per essere successivamente  battuto ad un’asta Sotheby’s, a New York, il 4 giugno del 1987, lotto 96. In quest’occasione fu comprato da  Richard L. Feigen & Co.  Nel luglio  del 1989 venne alienato a  Saul P. Steinberg, a  New York.  Nuovamente riproposto ad un’asta Sotheby’s,  di New York il  28 gennaio del  2000, lotto n. 63, fu  alienato, l’8 febbraio dello stesso anno,  tramite Kate Ganz, di New York, dalla National Gallery of Ireland di Dublino,  dove tuttora si trova (inv. 1083).

Ma la fortuna di questa invenzione è testimoniata da  un’ulteriore tela di cm  74 x  51, considerata di scuola di Domenichino,  passata per  un’asta Sotheby’s, di Milano lotto 10, il 29 novembre del 2010. Il dipinto proviene dalla raccolta di Giovanni Pettinelli Censi Mancia di  Fabriano e  si avvicina soprattutto alla replica di Chatsworth, di dimensioni lievemente inferiori.

Per quanto riguarda il soggetto, mentre il rame di Grenoble, considerato il più antico, e  la tela di Devonshire, pur  presentando un’impaginazione verticale, si differenziano in alcuni particolari come  l’albero del peccato  con una chioma più folta, ma soprattutto l’assenza del cavallo e degli angeli in cielo, e il dipinto di Dublino si caratterizza per un formato orizzontale e rivela dettagli sostanziali mutati.

Liquidare  l’originale di Grenoble, come un omaggio a Michelangelo della cappella Sistina è sicuramente riduttivo, come già aveva intuito il Winchelmann. Il riferimento al maestro toscano, a ben vedere, è tratto dalla scena della Creazione di Adamo, dove il Padre Eterno  appare tutto proteso verso la sua creatura,  accompagnato e sostenuto dagli angeli  all’interno di un mantello di color rosa antico. Se si eccettua la citazione di questo panneggio e dei personaggi che contiene,  il resto della tela di Domenichino si discosta dall’affresco sistino, sia nella postura di Dio, che in quella degli angeli e  persino negli abiti indossati.

Le Dominiquin, Dieu reprimant Adam et Eve, Grenoble

Ma ciò che più colpisce nell’opera del bolognese  sono  i gesti di Dio, il quale, mentre poggia il braccio sinistro sul globo terrestre, a sottolineare la sua potenza generatrice, con la destra – che in Michelangelo riflette la  tenerezza del Padre che accende di vita suo figlio, senza neanche sfiorarlo – atteggiata a pugno con l’indice alzato, parla di un rimprovero, percepibile anche dallo sguardo e dalla risposta di Adamo, il quale, decisamente imbarazzato, alza le spalle e apre le mani come per giustificarsi, cercando di  scaricare  la colpa dell’accaduto su Eva. Questa, a sua volta, incrimina il serpente, determinando in tal modo  un circolo vizioso; infatti nessuno si assume la responsabilità  di aver ceduto al delirio di onnipotenza, proposta in modo così  allettante ed efficace dal demonio,  ma  tutti tendono a crearsi una scusa per dimostrare la propria innocenza.  Quest’alibi rivela la meschinità umana, in quanto si fonda solo sull’accusa dell’altro.

Domenichino, The Rebuke of Adam and Eve, 1626, National Gallery of Ireland

Nel dipinto di Dublino  il Padre Eterno dimostra una gestualità meno incisiva, la sua mano, più che indicare con piglio accusatorio Adamo, sembra soltanto volerlo riprendere bonariamente. Persino l’espressione del volto di Dio appare meno corrucciata e il suo sguardo, piuttosto che dirigersi verso l’uomo, pare oltrepassarlo per direzionarsi sull’albero retrostante, carico di frutti, in cui si possono riconoscere fichi e mele.  La resa dei capelli e della barba dell’Eterno risulta meno morbida e particolareggiata rispetto al rame di Grenoble, i  visi degli  angeli, soprattutto i due che sono in basso, uno colto mentre si aggiusta i capelli per vedere meglio il suo creatore, l’altro mentre richiama con lo sguardo direttamente l’osservatore, sono di fattura  raffinata.

Nel rame francese  Adamo appare spaventato, ed Eva, vista frontalmente, ostenta una maggiore sicurezza, che sembra dettata dalla consapevolezza della propria bellezza e capacità di impietosire Dio, indicando il vero autore della disubbidienza, il serpente, che spalanca minacciosamente la bocca.  Nella tela un tempo dei Colonna i ruoli appaiono invertiti, la prima donna,  terrorizzata, quasi si accuccia sotto le braccia del compagno, facendo una torsione del busto verso sinistra e Adamo, qui ritratto con la barba,  lancia uno sguardo teso alla conquista del perdono.

Nella scheda n. 57456 dell’opera irlandese presso la Fondazione Zeri si afferma che solo i due progenitori sono  autografi, il resto parrebbe uscito dalla bottega del maestro bolognese.  Anche in questa versione vengono omessi sia il cavallo, simbolo della lussuria, citazione dal profeta  Geremia, che la coppia di angeli e cherubini in alto, nel cielo, così come lo specchio d’acqua sullo sfondo del paesaggio. L’agnello ed il leone, ripresi dal libro di Isaia, che immagina un mondo ideale in cui prede e predatori possano convivere pacificamente, mantengono più o meno la stessa posizione.

Ma quale delle diverse versioni del Rimprovero  di Domenichino si attiene più fedelmente alla Genesi?

Occorre rileggere i primi due capitoli del testo biblico.

Dopo aver plasmato l’uomo dalla polvere e avervi soffiato l’alito di vita Dio:

«Fece spuntare dal suolo ogni sorta d’alberi piacevoli a vedersi e buoni per nutrirsi, tra i quali l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male.» (Gen, 2, 9).

Poco oltre

«Dio  ordinò all’uomo: Mangia pure da ogni albero del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare; perché nel giorno che tu ne mangerai, certamente morirai». (Gen, capitolo 2, versetti 16-17).

Dunque quando Dio parla ad Adamo, Eva ancora non è nata, inoltre il  divieto riguarda soltanto il non cibarsi del frutto dell’albero, dettaglio non trascurabile.

Nei versetti immediatamente successivi Dio crea Eva, ed è solo al capitolo tre che si affaccia il terzo protagonista della storia, il serpente, definito: «Il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio  aveva fatto» Gen, capitolo 3, versetto 1.

La furbizia del serpente si fa palese fin dalla prima domanda che rivolge alla donna: «È vero che Dio vi ha detto di non mangiare da nessun albero del giardino?»

L’animale si insinua nelle pieghe della memoria di Eva, nella sua esperienza di Dio, non le chiede direttamente se è possibile mangiare i frutti, che tra l’altro lei doveva aver avuto sotto mano sin dalla nascita, ma se è vero che Dio ne ha proibito la consumazione, sta cioè sottilmente  ponendo in dubbio la verità sulla bontà di Dio. Tradotto in parole semplici la tentazione offerta dal serpente sfiora soltanto il problema del nutrimento, e difatti lei risponde che è solo uno l’albero vietato, correggendo istintivamente l’affermazione del suo interlocutore, mentre si basa sulla percezione squisitamente intellettuale dell’esistenza della verità, ossia dell’esistenza di Dio stesso e del suo amore per l’uomo. Il dialogo dell’animale  è infatti  introdotto da  «È vero che …» .

In sostanza il serpente avrebbe potuto chiedere senza troppi giri di parole:

«Ma tu credi realmente che Dio ti voglia bene, e se così fosse come mai ti vieta di mangiare i  frutti degli alberi del giardino? Cosa potresti avere in cambio, mangiandoli? Forse diventeresti potente come Lui?».

Dietro la  sua richiesta,  dunque,  aleggiano la menzogna dell’esagerazione, un frutto diventano tutti i frutti del giardino, e l’interpretazione errata della realtà: Eva ha davanti a sé un’esplosione di bellezza e abbondanza che il suo tentatore trasforma, attraverso l’insinuazione del dubbio, in qualcos’altro.

Ma la prima donna non viene ingannata solo dal serpente, come riferirà a Dio per discolparsi. Adamo, infatti, che è l’unico ad aver parlato “vis a vis” con il suo Creatore,  le ha riferito che i frutti della pianta in questione non devono essere né mangiati, né toccati. Dunque l’uomo racconta alla sua compagna  un’altra bugia, anch’essa costruita  su un’iperbole, che interessa il gusto ed il tatto.

La morte,  preannunciata da Dio come conseguente rischio della trasgressione al suo ordine, non riguarda il termine della vita in senso stretto, tanto è  vero che né Adamo né Eva muoiono fisicamente dopo aver mangiato il frutto, ma la fine del rapporto di fiducia tra l’uomo e suo Padre, il quale aveva progettato  unicamente una condizione di felicità per suoi figli.

Da questo momento l’umanità  sarà vittima dell’ambiguità del serpente,  perché costretta a scegliere tra il bene e il male, sperimentando  un dualismo che la condurrà a tante altre morti, a partire da quella dell’amore concepito originariamente solo come donazione totale e gratuita di sé all’altro.  L’unione sincera tra Adamo ed Eva si spezza e i due si accusano vicendevolmente. Non a caso la radice etimologica delle parole dubbio e diavolo sottende proprio questo dualismo, questa divisione interiore: ciò che prima era buono, Dio, l’uomo, il giardino, viene interpretato in un modo diverso, perché vittima dell’ipocrisia del serpente, che nega l’evidenza.

Tutta questa dissertazione serve per comprendere  come evolva il pensiero di Domenichino  non solo dal punto di vista stilistico, ma anche da quello concettuale. Se nel rame di Grenoble  e nella versione di Devonshire in modo più tradizionale e sottilmente maschilista la più colpevole viene considerata Eva, e l’atteggiamento di Adamo suscita quasi un sorriso benevolo da parte dell’osservatore, per la meschinità che emerge dall’espressione del volto e dalla sua buffa postura, nella tela di Dublino Dio pare più deluso di Adamo, con cui si è interfacciato direttamente.

Se è vero che i due progenitori sono le  uniche figure  dipinte dal maestro, deve far riflettere il particolare della presenza della barba sul volto di Adamo. Come nel Giudizio Universale di  Michelangelo  Cristo  non ha la tradizionale barba, perché sembra tornato alle origini, e non può più esercitare il potere di salvare, come l’uomo della Passione, ma solo quello di  premiare gli eletti e condannare i peccatori, anche qui, probabilmente rifacendosi al Buonarroti, il pittore emiliano ha voluto rappresentare non più la purezza della nascita, ma la macchia dell’esperienza di una scelta che ha rovinato un’alleanza fondata sulla fiducia e sulla verità.

Del resto Domenichino doveva aver studiato con grande attenzione il riquadro ad affresco dedicato da Michelangelo al Peccato Originale e alla Cacciata dal Paradiso. Qui, infatti, in modo decisamente rivoluzionario mentre Eva riceve dal serpente il frutto dell’albero proibito, Adamo, invece di aspettare l’offerta della compagna, come recita Genesi capitolo 3, versetto 6 «Ne diede anche al marito che era con lei» si serve da solo e coglie il fico dalla pianta, non rispettando quel  falso duplice comando di non mangiare e non toccare, che voleva imporre alla moglie.

Che gli spunti di riflessione siano tratti dall’esempio del Buonarroti si desume anche dalla tipologia della pianta  dipinta in tutte le versioni di Domenichino[12],  un fico,  che  più che  derivare da una tradizione medievale, si riferisce al versetto 7 del capitolo 3 della Genesi in cui si dice:

«Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e ne fecero cinture».

In effetti il pittore emiliano dipinge queste cinture, che diventano un espediente per coprire le parti intime. Ma nella Genesi è Dio, il Padre per eccellenza, che non abbandonerà mai i suoi figli e procurerà loro persino:«tuniche di pelli e li vestì» (Gen., capitolo 3, versetto 21). La sottolineatura  delle foglie di fico deriva ancora una volta da quella confusione, che induce i due progenitori a considerare la loro fisicità come qualcosa di perverso. Michelangelo, seguendo l’esempio di Masaccio aveva imbruttito i corpi di Adamo ed Eva, come effetto dell’ingresso del peccato nella loro vita, Domenichino, invece,  li copre: ancora una volta ciò che era vero, buono e bello viene letto come falso, cattivo e brutto.

Il pittore bolognese,  dunque, con il tempo, per esperienza personale o su suggerimento di qualcuno, affina la sua sensibilità e rende per immagini le disastrose conseguenze derivanti dalla disobbedienza all’amore del Padre, che comporta una divisione interna nel genere umano, succube di un delirio di onnipotenza. La superbia, ossia la volontà dell’uomo di sostituirsi a Dio ed escluderlo dalla propria vita, era del resto considerata il peccato peggiore anche da Dante Alighieri e Domenichino  riprende questo concetto, trattandolo,  nel rame di Grenoble,  con toni meno severi, per  predisporre, in modo sottilmente  pedagogico, lo spettatore ad una riflessione più profonda, partendo da un’iniziale sorriso. Sembra dunque che l’artista emiliano sia una sorta di Pirandello avant lettre, che con il suo umorismo, induce ad una meditazione più intima  sull’essenza della vita dell’uomo e del suo rapporto con Dio.

Rita RANDOLFI   Roma 25 ottobre 2020

NOTE

[1] S. Pepper, in AA.VV, Domenichino 1581-1641, cat. della mostra, Roma 1996, scheda 43, pp. 458-459.
[2] Domenico Zampieri, Studio  per la figura di Eva, Windsor Castle, Royal Library (inv. 1036); , Studio per la figura di Dio Padre, Windsor Castle, Royal Library (inv. 1301);  Studi per le mani ed i piedi di Dio, Windsor Castle, Royal Library (inv. 1688);  incisione   di Etienne Baudet, 1687 – François Chéreau, 1709.
[3] N. Gozzano, Resa dei conti in casa Colonna. Contabilità di una collezione romana del Seicento fra committenza e mercato, in F. Cappelletti, (a cura di), Decorazione e collezionismo a Roma nel Seicento. Vicende di artisti, committenti, mercanti,  Roma 2003,    pp. 180-181; Si veda anche N.Gozzano, La quadreria di Lorenzo Onofrio Colonna, Roma  2004, p. 111.
[4] La Gozzano (2003, p. 181) riporta il testo della lettera già pubblicato da G. Bottari, S. Ticozzi, Raccolta di lettere, III, ed. Hildsheim, New York 1976, p. 40, n. XVI.
[5] E. A. Safarik, Collezione dei dipinti Colonna: Inventari 1611-1795, Monaco di Baviera, 1996:p. 124, n 61.
[6] S. Béguin, Tableau provenzale de Naples et de Rome nel 1802 restés en France, in  Bollettino della Société de l’Histoire de l’Art français(1959),  194, p.
[7] J. Winckelmann, Il Bello dell’arte, Torino  ediz. 2008, p. 90,
[8] Il documento si trova nell’Archivio Rospigliosi ed è stato trascritto da: A. Negro, La collezione Rospigliosi: la quadreria e la committenza artistica di una famiglia patrizia a Roma nel Sei e Settecento, Roma 2007, p. 337.
[9] R. Randolfi, Giulio Lante e lo scandalo della Madonna Colonna di Raffaello a Berlino, in P. Di Loreto (a cura di), L’arte di vivere l’arte, scritti in onore di Claudio Strinati, Roma 2018, pp. 273-279.
[10] Sul destino di questo dipinto la scrivente sta preparando un altro contributo. Per ora si può solo anticipare che il quadro era di proprietà di Filippo III Colonna, nel cui inventario del 1783 risulta così descritto: 580  «Un quadro di 4 e 5 per traverso l’Annuncio degli Angeli ai Pastori, opera celeberrima di Berchem fiammingo». Cfr., E. A.  Safarik, Collezione dei dipinti Colonna. Inventari 1611-1795 … cit., p. 652.
[11]  Sul ritratto della Cenci si rinvia a  R. Randolfi, Il mistero risolto: il passaggio di proprietà del presunto ritratto di Beatrice Cenci  dai Colonna ai Barberini, in corso di stampa.
[12] Sui prestiti di Domenichino da Michelangelo si rinvia a R.Randolfi, La Chiamata di Pietro e Andrea negli affreschi di S. Andrea della Valle  : Michelangelo e Caravaggio interpretati da Domenichino,  in “Lazio ieri e oggi”, Anno 51, n. 4, 605 (aprile 2015), pp.  120-121;.La mano di Adamo: Michelangelo e Caravaggio secondo Domenichino. in https://www.aboutartonline.com/2018/12/02/liconografia-di-domenichino-a-santandrea-della-valle-un-messaggio-di-vocazione-tra-caravaggio-e-michelangelo/

 

Bibliografia

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Bottari G., Ticozzi S., Raccolta di lettere, III, ed. Hildsheim, New York 1976.
Gozzano N., La quadreria di Lorenzo Onofrio Colonna, Roma  2004.
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Negro A., La collezione Rospigliosi: la quadreria e la committenza artistica di una famiglia patrizia a Roma nel Sei e Settecento, Roma 2007,
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Randolfi R., La Chiamata di Pietro e Andrea negli affreschi di S. Andrea della Valle  : Michelangelo e Caravaggio interpretati da Domenichino,  in “Lazio ieri e oggi”, Anno 51, n. 4, 605 (aprile 2015), pp.  120-121.
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