Discutendo Torino; tra esoterismo, magia e ‘noir’, come divenne sede del principale museo egizio.

di Nica FIORI

Torino, presunta città magica, e il suo rapporto con l’Egitto

Quante volte tra i fiori, in terre gaie, / sul mare, tra il cordame dei velieri, / sognavo le tue nevi, i tigli neri, / le dritte vie corrusche di rotaie, / l’arguta grazia delle tue crestaie, / o città favorevole ai piaceri! (…) Come una stampa antica bavarese / vedo al tramonto il cielo subalpino… / Da Palazzo Madama al Valentino / ardono l’Alpi tra le nubi accese… / È questa l’ora antica torinese, / è questa l’ora vera di Torino…”.

Se Guido Gozzano in questi versi tratti dalla poesia “Torino”, pubblicata nel 1911 nella raccolta I Colloqui, c’incanta facendoci percepire il rimpianto per la sua amata città, che andando avanti definisce “un po’ vecchiotta, provinciale, fresca tuttavia d’un tal garbo parigino” (e alla moda parigina sembra alludere quando cita le “crestaie”, ovvero le modiste), è pur vero che nel tempo quella visione idilliaca del primo Novecento è decisamente cambiata e si è diffusa una letteratura fin troppo abbondante, che la descrive come una delle città più inquietanti d’Italia, dalla presunta natura “magica”.

Panorama dalla Mole Antonelliana.

Torino, secondo quel che si dice, sarebbe al vertice di due triangoli, quello della magia bianca, che ha gli altri vertici in Praga e Lione, e quello della magia nera, con Londra e San Francisco.

Poiché il termine “magico” viene spesso travisato, va precisato che lo si dovrebbe usare per designare un sito “energeticamente carico”, ovvero posto all’incrocio di particolari correnti telluriche (nel caso di Torino modulate dall’unione del Po con la Dora Riparia), che creano un campo che potrebbe definirsi “pseudomagnetico”, con caratteristiche ed effetti più o meno armonici o disarmonici sulla psiche degli esseri umani. Motivo per cui alcuni individui possono trovarsi a proprio agio e altri a disagio.

Nel caso del capoluogo piemontese sono stati evidenziati, in particolare, la sua frequentazione da parte del celebre veggente Nostradamus, che vi soggiornò nel 1556, e di maghi e alchimisti quali Cagliostro, Paracelso, il Conte di Saint-Germain, Fulcanelli, l’innamoramento di Nietzsche per la città (in particolare per la Mole Antonelliana, nella quale in una sorta di delirio onirico vedeva l’immagine di Zarathustra) e la folgorazione che ebbe Giorgio de Chirico nel 1911, quando la visitò per la prima volta, traendone poi ispirazione per una serie di enigmatici dipinti metafisici, caratterizzati da portici e da torri rosse, come rosso è il mattone della Porta Palatina e di altri edifici torinesi.

2 Giorgio De Chirico, Piazza d’Italia metafisica

Si sentì tutt’altro che a suo agio, invece, Giovanni Paolo II, quando nel settembre 1988, trovandosi lì in visita per il centenario della morte di san Giovanni Bosco, fu colto da una sorta d’inquietudine, perché vi avvertì strane presenze. Egli dichiarò in seguito:

La città di Torino era per me un enigma, ma dalla storia della Salvezza sappiamo che là dove ci sono i santi entra anche un altro che non si presenta con il suo nome. Si chiama il Principe di questo mondo, il demonio”.

Del resto da quando a Torino, nel 1578, è arrivata la Sindone, che per molti credenti è una reliquia di Cristo, anche se una datazione al Carbonio 14 l’ha posticipata al Medioevo, è come se si fosse innescata una lotta tra luce e tenebre, tra Grazia e peccato, tra i gruppi di preghiera e i satanisti.

Secondo gli studiosi di esoterismo la zona luminosa, benigna, della città sarebbe piazza Castello, mentre la zona di tenebre viene individuata in piazza Statuto, che sorge su un antico cimitero ed è caratterizzata da architetture con simboli massonici, in particolare il piccolo obelisco con in cima un astrolabio (detto Guglia Beccaria), che segnerebbe (falsamente) il passaggio del 45° parallelo Nord e il monumento al Traforo del Fréjus, composto da una serie di rocce che formano una torre piramidale sulle cui pendici vi sono diverse figure antropomorfe che tentano invano di raggiungere la cima, sulla quale è collocato un angelo alato con una stella a 5 punte (secondo alcuni si tratterebbe di Lucifero).

3 Piazza Castello
4 Guglia Beccaria
5 Monumento al traforo del Frejus

Vi sono poi nella città altri luoghi fortemente simbolici, come la Mole Antonelliana, che un tempo aveva sulla sua vetta un potente angelo chiamato Tauriel (anche questo con un pentacolo), e altri più o meno legati a episodi infausti, che non sto a elencare, oltre ad alcune chiese che dovrebbero esorcizzare la negatività di ciò che si nasconde al di sotto.

Il tempio della Gran Madre di Dio, una chiesa costruita nel 1831 su modello del Pantheon di Roma, ha una scalinata di accesso con due misteriose statue femminili, assistite da angeli. Quella sulla destra dell’osservatore simboleggia la Religione e ha sulla fronte il cosiddetto delta luminoso (triangolo con l’occhio divino) prediletto dalla massoneria, mentre la Fede, collocata a sinistra, ha in mano un calice, interpretato da alcuni come il Santo Graal, e il suo sguardo indicherebbe, secondo una leggenda metropolitana, la direzione per raggiungere il misterioso luogo ove sarebbe custodito. Pure leggendarie sarebbero le cosiddette “grotte alchemiche”, segreti luoghi di ritrovo per alchimisti, facenti parte di una più complessa rete di passaggi sotterranei. La loro precisa collocazione è stata oggetto di teorie e la loro esistenza non è stata mai dimostrata.

6 Tempio della Gran Madre di Dio
7 Statua della Fede
8 Statua della Religione

Dovrebbe avere, invece, una qualche rilevanza storica, sia pure controversa, il fatto che nei pressi di Torino Costantino avrebbe avuto nel 312 la visione di una croce luminosa, mentre a Roma, secondo il racconto del suo biografo Eusebio di Cesarea, nell’imminenza della battaglia di Ponte Milvio contro Massenzio, si sarebbe limitato ad apporre il monogramma di Cristo sugli scudi dei suoi soldati. L’apparizione di quel segno divino avrebbe cambiato la storia del cristianesimo, e contribuito forse alla presunta “santità” del luogo, contrastata in seguito da Satana.

Benché la maggior parte delle persone considerino l’esoterismo frutto di teorie non dimostrabili scientificamente, le leggende su Torino hanno dato il via a iniziative mirate a promuoverne la sua immagine di città “magica” e “satanica”.

Vittorio Messori e Aldo Cazzullo nel libro “Il mistero di Torino. Due ipotesi su una capitale incompresa” (2004), ammettono di aver contribuito a divulgare alcune fakenews. Messori, scrittore cattolico che ha vissuto oltre trent’anni a Torino, lavorando per un decennio nel quotidiano La Stampa, confessa che da giovane cronista si divertiva, negli anni Settanta, in combutta con altri

a mettere in giro certe cose, entrate poi nella vulgata corrente … a lanciare presunte notizie o a sparare cifre che nessuno era in grado né di smentire né di confermare: come la faccenda dei 40.000 satanisti presenti in città, numero da allora acriticamente ripetuto”.

Il giornale era contento di quegli articoli, caratterizzati dall’uso del condizionale, da frasi virgolettate e punti interrogativi, perché “venivano incontro al bisogno così umano di stupirsi, di sognare, di fantasticare”.

Questa fama di città esoterica, diffusa soprattutto negli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso, ha contribuito a rendere noto il nome di Torino nel mondo, e a darle quella connotazione noir che ha spinto Dario Argento a utilizzarla come set dei suoi primi film horror e Umberto Eco ad ambientarvi una messa nera nel libro Il pendolo di Foucault.

Torino, pur essendo una ex capitale, ricca di opere d’arte e di affascinanti architetture (in primis quelle barocche di Guarino Guarini e Filippo Juvarra e l’ottocentesca Mole, simbolo della città, realizzata da Alessandro Antonelli), è indubbiamente meno “turistica” di altre città italiane, quali Roma, Venezia, Firenze, Napoli, Milano ed è difficile, pertanto, imbattersi in grandi masse di turisti, con l’eccezione del Museo Egizio, che attira numerosissimi visitatori perché si tratta del più antico e grande d’Europa nel suo genere. È forse proprio dalla presenza dei manufatti magici dell’Egitto che potrebbe derivare in gran parte la sua aura di città “magica”. Pensiamo in particolare ai libri dei morti, agli amuleti e alle statuine di ushebti che avevano il compito di animarsi magicamente nelle tombe del defunto e di compiere i lavori al suo posto nell’aldilà, e soprattutto alle 21 statue della dea Sekhmet, dalla testa di leonessa, una delle dee maghe più potenti dopo Iside (vedi link https://www.aboutartonline.com/il-male-e-il-bene-della-dea-sekhmet-una-potenza-grande-quanto-linfinito-in-vaticano/ ).

9 Gruppo di Ushebti
10 Alcune statue di Sekhmet

Del resto la valle del Nilo è stata descritta, a partire da Erodoto e Plutarco, come patria della divinazione, della magia e delle scienze occulte. Qui episodi e fenomeni magici, alchimia ed ermetismo si sono succeduti dal periodo predinastico a quello dei Faraoni, a quello tolemaico e romano per arrivare alla riscoperta dell’antico Egitto nei secoli XVIII e XIX con le logge massoniche di tipo egiziano, che si sono trasmesse in parte fino ai nostri giorni.

Ma perché il museo più antico di reperti egizi si trova proprio a Torino?

Secondo una leggenda, riportata da Emanuele Filiberto Pingone nel libro Augusta Taurinorum (1577) e in seguito ripresa da Emanuele Tesauro nella Historia de la Augusta città di Torino del 1679, il principe egiziano Eridano, detto anche Pheaton, avrebbe lasciato la sua terra natia, probabilmente alla ricerca di nuove terre. Dopo aver costeggiato le coste del Mar Tirreno, avrebbe conquistato il territorio corrispondente alla Liguria, dopodiché si sarebbe spostato verso Nord e avrebbe fondato una colonia sulle sponde del fiume Po, corrispondente al primo nucleo della città di Torino (secondo Tesauro nel 1523 a.C.).

Sotto gli auspici della divinità egizia Api, Eridano diede alla nuova colonia il nome e le insegne dello stesso dio, dalle sembianze di toro, chiamandola Taurina. Una sacralità, quella di Api, che avrebbe colpito anche Giovanni Pascoli, che inizia il suo poemetto latino Hymnus in Taurinos (Inno a Torino) con questi versi, che propongo nella versione in italiano:

“Toro divino ch’oltra due fiumane / giaci e, fiso nel gran murmure, guardi / l’Eridano, che passa e che rimane (…)”.

Purtroppo, però, il fiume della stessa Taurina sarebbe stato fatale al mitico Eridano. Egli sarebbe infatti affogato, dopo aver avuto un incidente mentre era alla guida del suo carro, nelle acque del fiume a cui aveva attribuito il suo stesso nome.

Maurizio Macale, esperto di studi della Tradizione e di esoterismo, nel suo libro “Itinerari magici e iniziatici d’Italia” (2002), fa giustamente notare che in un mito greco si parla di Fetonte, il figlio del Sole, che precipita dal carro solare nel fiume Po, noto come Eridano, e quanto il nome Fetonte sia simile a Phe Aton, che potrebbe significare “Figlio di Aton”.

Aton per gli Egizi è il disco solare e il nome Pheaton potrebbe forse designare colui che cercò di imporre in Egitto il culto di Aton como unico dio (il faraone Amenofi IV, che cambiò il nome in Akhenaton, vissuto tra il 1375 e il 1336-33 a.C., un periodo che non corrisponde alla presunta fondazione di Torino riportata da Tesauro), scontrandosi contro la classe sacerdotale degli altri dei e, uscitone sconfitto, sarebbe stato costretto ad abbandonare l’Egitto. C’è anche chi vede nell’etimologia del nome Eridano le parole Iw Ra Danit, che significano “il fiume consacrato a Ra”, ovvero all’egizio dio Sole, mentre Torino potrebbe derivare da Thot Rym, cioè “lacrima di Thot”.

Thot è il dio, raffigurato spesso con la testa di ibis, o anche come babbuino, venerato come il portatore della civiltà, l’inventore del linguaggio, ovvero il “Maestro delle parole divine”. Poiché le parole erano considerate una potente forza creatrice, Thot era ritenuto il primo mago; i Greci lo assimilarono al loro Hermes e lo chiamarono “Trismegisto”, che vuol dire “tre volte grandissimo”, e dai testi filosofici e alchemici a lui attribuiti deriva la tradizione ermetica.

Le presunte origini egizie della città dei Taurini, l’Augusta Taurinorum fondata nella seconda metà del I secolo a.C. dai Romani in un sito già frequentato da più antiche popolazioni locali, potrebbero essere spiegate con il desiderio dei duchi di Savoia di nobilitare la città, quando nel 1563 spostarono la loro capitale da Chambéry a Torino, per via della sua posizione strategica sul Po.

11 Resti di Augusta Taurinorum con la Porta Palatina

A questo proposito Chiara Roberta Deidda, nel suo lungo articolo “Le origini leggendarie della città di Torino e la nascita del Museo egizio” (2022) sul magazine della Fondazione Treccani, scrive:

Ciò che alimentò dapprima l’opera di Pingone e, di conseguenza, quella di Tesauro non furono solo dei fantasiosi ed improbabili indizi, ma soprattutto la scoperta, durante l’attività di fortificazione della città dopo la metà del XVI secolo, della base di una statua marmorea caratterizzata da un’iscrizione dedicata alla dea egizia Iside che presupponeva la presenza di un tempio in suo onore.
Statua della dea Fortuna o di Iside-Fortuna. Opera romana di prima età imperiale (I-II secolo d.C.), dalle Collezioni Savoia. Marmo bianco. Inv. 290

La scoperta può essere spiegata con il fatto che il culto della dea Iside, spesso assimilata a Fortuna, era largamente diffuso in tutto l’impero romano (basti pensare che secondo alcuni un suo tempio avrebbe dato il nome alla città di Parigi, derivante da Parà Isis, ovvero presso Iside), ma i Savoia si entusiasmarono all’idea del legame leggendario con gli Egizi e cercarono di ampliare il più possibile la loro collezione di antichità egizie.

Tra il 1626 e il 1630 il duca di Savoia Carlo Emanuele I decise di acquisire alcuni oggetti rari e preziosi dai Gonzaga, i duchi di Mantova, in particolare la cosiddetta Mensa Isiaca, una tavoletta bronzea con intarsi in rame, argento e niello, caratterizzata da raffigurazioni egittizzanti e segni decorativi, che inizialmente vennero scambiati per geroglifici originali, suscitando enorme interesse tra gli studiosi (in particolare fu studiata dal Padre gesuita Athanasius Kircher). Quest’oggetto (databile al I secolo a.C. o al I d.C.) è stato ritrovato a Roma nel 1525 in straordinarie condizioni di conservazione e proviene probabilmente dall’Iseo Campense, il principale santuario romano dedicato a Iside e collocato in Campo Marzio.

Molti altri oggetti attribuiti alla tradizione egizia furono raccolti nel Museo dell’Università di Torino, nella sezione degli oggetti vari e preziosi, tra cui una testa femminile di una statua in marmo caratterizzata da segni sul volto, anche in questo caso inizialmente scambiati per geroglifici, ma in realtà cabalistici (attualmente conservata nei Musei Reali).

13 Statua di Iside Cabalistica Musei Reali

Inoltre, nel 1750 venne scoperto un sito archeologico situato lungo il fiume Po con un tempio dedicato ad Iside – oggi collocato nel comune di Monteu da Po – che contribuì a incrementare la credenza di una possibile origine egizia della città.

Del resto, dopo l’iniziale interesse per l’Egitto nel Rinascimento con la riscoperta degli autori classici, la curiosità verso la cultura egizia si sviluppò ulteriormente nel XVIII secolo con la scoperta di Pompei, il cui iseo avrebbe ispirato Mozart per il suo Flauto magico, esplodendo nel secolo successivo, dopo le campagne napoleoniche in Egitto, in una vera e propria “egittomania”.

I viaggi di esplorazione e le scoperte nella Terra dei Faraoni resero disponibili sul mercato antiquario numerosi manufatti e, grazie allo sviluppo della massoneria, si diffuse una simbologia esoterica di origine egiziana.

Su incarico del duca di Savoia Carlo Emanuele III il botanico ed esploratore Vitaliano Donati effettuò una spedizione verso Oriente, e in particolare in Egitto, tra il 1759 e il 1762, allo scopo di raccogliere, oltre a campioni botanici e mineralogici delle terre attraversate, antichità egizie da portare a Torino, ma molti dei materiali raccolti, delle note scritte e dei disegni non arrivarono a destinazione a causa della morte prematura di Donati. Arrivarono comunque importanti reperti (tra cui le grandi statue di Sekhmet) che vennero inizialmente custoditi nel Museo dell’Università.

Andando avanti di oltre mezzo secolo, c’imbattiamo nella figura di Bernardino Drovetti, Console Generale di Francia in terra egizia e grande diplomatico di origine piemontese in grado di intrattenere relazioni amichevoli con il Viceré d’Egitto Muhammad ‘Ali Pascià. Egli approfittò delle sue relazioni con il viceré per ottenere le autorizzazioni necessarie alla raccolta di una consistente collezione di antichità egizie, provenienti da differenti siti archeologici e soprattutto da Tebe.

In quel periodo, proprio come Drovetti, diversi consoli di altri Paesi si arricchirono dando vita a una vera e propria caccia al tesoro di antichità, richiestissime dal mercato antiquario, e anche a veri e propri saccheggi senza alcuna regola. Solo nel 1858 l’egittologo Auguste Mariette cercò di regolamentare l’esportazione e il commercio di antichità egizie, costituendo il Service des Antiquités de l’Egypt.

Le negoziazioni per la vendita della cosiddetta “collezione maggiore” di Drovetti furono lunghe e complicate, soprattutto a causa dell’elevato prezzo proposto, e videro come contendenti la Francia e il Regno di Sardegna. Il punto di svolta nella disputa venne dato dal conte Carlo Vidua, che in una lettera del 3 agosto 1820 indirizzata a Cesare Saluzzo, scrisse:

Questo affare mi sta moltissimo a cuore. Desidero che i forestieri non possano più dire: Turin est une ville fort jolie, fort régulière, mais il n’y a presque rien à voir (Torino è una città molto carina, molto regolare, ma non vi è quasi nulla da vedere). (…) Il Piemonte avrà dunque la gloria di conservare, e di mostrare agli stranieri una raccolta unica, e formata da un suo figlio, e sarà l’Italia quella che possiederà il primo e il più ampio museo Egizio in Torino, come possiede la prima raccolta di sculture Greche e Romane in Roma, e la prima di tutte le gallerie in Firenze”.
14 Statua del re Ramesse II Granodiorite Nuovo Regno, XIX dinastia, regno di Ramesse II (1279-1213 a.C.) Da Luxor, Karnak, tempio di AmonCollezione Drovetti (1824) C. 1380

Grazie anche al supporto di altri intellettuali (tra cui Cesare Balbo e Roberto D’Azeglio), Carlo Vidua riuscì a convincere il re Vittorio Emanuele I e, dopo la sua abdicazione, suo fratello Carlo Felice a concludere la negoziazione con Drovetti.

Il contratto, che prevedeva l’esorbitante pagamento di 400.000 lire piemontesi (delle quali 100.000 pagate in contanti), venne ratificato il 14 febbraio 1824 dal ministero delle finanze del Regno di Sardegna. In cambio, dopo un lungo e difficile viaggio, giunse la “collezione maggiore” comprendente 5304 reperti tra statue (comprese quelle del celebre faraone Ramsete II e delle divinità più importanti), mummie, sarcofagi, papiri, stele, e oggetti vari provenienti dai corredi funerari, oltre a migliaia di medaglie e monete, e raggiunse quella che poi diventerà e rimarrà la sede del Museo, ovvero l’ex Collegio dei Nobili, trasformato in sede della Reale Accademia delle Scienze nel 1783. Nel 1832, inoltre, confluiranno nel Museo di Antichità Egizie anche la Mensa Isiaca e il Fondo Donati.

15 Statua del dio Amon-Ra con il re Horemheb Calcare Nuovo Regno, XVIII dinastia, regno di Horemheb (1319-1292 a.C.) Da Luxor, Karnak, tempio di Amon Collezione Drovetti (1824) C. 768
16 Statua del re Ramsete II tra gli Dei Amon- RA e Mut

Nel corso del XIX secolo e nella prima metà del XX secolo questo primo nucleo del museo venne incrementato da donazioni e nuove acquisizioni, e soprattutto con il contributo dato dalle missioni archeologiche, necessarie per colmare delle lacune. Ci si era resi conto, infatti, che, nonostante la ricchezza e l’unicità della collezione, il museo aveva antichità soprattutto del “Nuovo Regno” (1530-1080 a.C.) e le opere esposte erano di difficile comprensione, in quanto decontestualizzate dal loro sito; si pensò, quindi, di acquisirne altre attraverso scavi archeologici sistematici.

L’input in questo senso venne dato dall’egittologo Ernesto Schiaparelli, che diresse il museo dal 1894 fino alla sua morte avvenuta nel 1928. Nel 1903 egli fondò la Missione Archeologica Italiana (M.A.I.), aiutata finanziariamente dal ministero delle finanze italiano.

17 Sandali in fibre vegetali dalla Tomba Nefertari

Ben 12 campagne furono condotte tra il 1903 e il 1920 su diversi siti archeologici (Giza, la Valle delle Regine, Deir El-Medina, Eliopoli, Ashmunein, Qau El-Kebir, Hammamiya, Assiut, Gebelein, Bahnasa e Assuan) e furono portati alla luce circa 25.000 reperti archeologici sotto la direzione di Schiaparelli (ricordiamo in particolare quelli della tomba di Nefertari, moglie di Ramsete II). Si aggiunsero in seguito tre spedizioni dell’archeologo Giulio Farina nel sito di Gebelein negli anni 1930, 1935 e 1937.

Un ulteriore arricchimento alla collezione risale al 1966 con la donazione della Cappella rupestre di Ellesiya (dedicata da Tutmosi III a varie divinità), da parte del governo egiziano, come ringraziamento per il lavoro svolto dal museo torinese nella campagna di salvataggio dei templi nubiani promossa dall’UNESCO, in occasione della realizzazione della Diga di Assuan con la conseguente formazione del lago Nasser. Ed è forse la visione di questo monumento, dopo il restauro del 2023, in una sala tutta sua al pianterreno, una delle più interessanti novità volute per festeggiare i 200 anni del museo nel 2024.

18 Ellesiya prima della costruzione della diga
19 Cappella di Ellesija allestita nel Museo Egizio

Un museo che è stato oggetto negli ultimi anni di un riallestimento che gli ha fatto perdere l’originario aspetto di galleria antiquaria per trasformarlo in un vero museo archeologico, che consente di scoprire 4.000 anni di storia, archeologia e ricerca. Gli spazi espositivi sono stati raddoppiati e il percorso si sviluppa ora su cinque piani con 3.300 reperti esposti nelle sale, più 11.000 nelle Gallerie della Cultura materiale.

20 Stele funeraria di Iti e Neferu
21 Involucri di mummie in cartonnages

Peccato che le informazioni relative agli oggetti esposti non siano così leggibili, perché spesso scritte direttamente sui vetri delle teche, con fastidiosi effetti di riflesso.

22 Sfinge

Una menzione di merito va, però, ai numerosi pannelli tattili dislocati lungo il percorso, in corrispondenza delle opere che illustrano, nell’intento di favorire l’accessibilità ai disabili visivi.

Nica FIORI  6 Aprile 2025