De Chirico artista ed anche scrittore nell’epoca dello sperimentalismo. L’originalità e la tecnica letteraria del Pictor Optimus

di Mario URSINO

La scrittura di de Chirico, o la metafisica delle parole 

A pensarci bene ogni parola, qualsiasi parola, è metafisica; la parola è suono che si perde nell’aria, non è tangibile, è solo udibile, quindi al di là delle cose fisiche: ecco perché è metafisica.

Altra cosa è la parola scritta, essa ha acquisito una sorta di fisicità, perché è visibile, leggibile, suscettibile di essere cassata e sostituibile con un gesto fisico. Nell’arte moderna essa è diventata persino icona, parte di una più complessa struttura visiva (v. Le parole nella pittura di M. Butor, Venezia, 1987). La parola oggi giganteggia nella pubblicità, molto spesso ossessiva, compulsiva che ci perseguita attraverso i mezzi di comunicazione in maniera continua. Ma la parola usata da un artista, e nel nostro caso da Giorgio de Chirico (1888-1978), è altro, è rappresentazione, è immagine, è spesso visione di un sogno, è la composizione astratta di un dipinto che il maestro, appunto, ci fa vedere con le parole scritte [fig. 1].

E tra i numerosi suoi scritti il più emblematico, a mio avviso, è il suo “romanzo” Ebdòmero, pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1929, in francese, nella Collection “Bifur” delle Edition du Carrefour [fig. 2], la seconda  in italiano diversi anni dopo nelle edizioni Bompiani nel 1942; la terza, per iniziativa privata dello stesso de Chirico, nel 1957 a Roma, ma curiosamente reca la sopracopertina che indica (come editore?) “All’insegna del pesce d’oro”, Milano (ovvero Scheiwiller, n.d.A.) [fig. 3].

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È questa l’edizione in mio possesso che acquistai, quando ero ancora studente, nel 1971, direttamente dalla casa del maestro, come del resto si legge sulla copertina del “romanzo” (fig.4).

Ne seguono molte altre edizioni negli anni: a Parigi presso Flammarion nel 1966 (?); da Hensel a Berlino nel 1969, da Peter Owen a Londra nel 1969; la settima edizione in italiano nella Collezione Olimpia delle edizioni Longanesi, Milano 1971 [fig. 5]. Ricavo queste notizie da un memorabile articolo di un grande e un po’ dimenticato critico letterario, Enrico Falqui (1901-1974), per recensire appunto l’ultima edizione che ho più sopra segnalato: Il romanzo di de Chirico, in “Il Tempo”, anno XXVIII – n. 347.

Negli anni più recenti Ebdòmero è stato ripubblicato da Abscondita, Milano 2003; a giudicare dalle numerose edizioni in Italia e all’estero, sembrerebbe che codesto “romanzo” di de Chirico sia stato davvero un bestseller, ma purtroppo non è così. La ragione del suo negato successo la spiegava già Enrico Falqui nel lontano articolo del 1971 con queste parole: “Un’opera letteraria contemporanea che nel giro di quarantadue anni viene stampata e ristampata da sette editori di quattro differenti nazioni, non è un’opera che avrebbe diritto a un trattamento di qualche riguardo?”. Giustissima osservazione. Più avanti Falqui dice: “Non lasciamoci invischiare nella polemica che vede cari amici diventare acerrimi nemici…” (alludendo a Gualtieri di San Lazzaro, n.d.A.). Invece, a mio avviso, è proprio per le polemiche a vasto raggio che de Chirico ha suscitato molte inimicizie con la sua scrittura, negli articoli (numerosi) e nelle interviste che il maestro rilasciava a destra e a manca senza risparmiare nessuno, come ho cercato di dimostrare in un mio testo di qualche anno fa, De Chirico, l’uomo, l’artista, il polemico, Roma 2013, al quale rimando per chi volesse rendersi conto della personalità dell’artista-critico.

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Ma veniamo al romanzo Ebdòmero. È davvero un romanzo? Questo è il dilemma. È stato considerato, a torto o a ragione, che Ebdòmero è scritto di natura surrealista, ovvero rientrerebbe nella categoria della scrittura automatica tipica degli scrittori surrealisti (Breton e compagni). Lo affermò Gino Visentini (1871-1949) nella sua Piccola storia del Surrealismo, Vallecchi, Firenze, 1942, anno in cui Ebdòmero veniva ripubblicato in italiano da Bompiani. A negare fermamente questa definizione dell’opera di de Chirico ci penserà un anno dopo suo fratello, Andrea de Chirico (Alberto Savinio, 1891-1952), grande scrittore e pittore anche lui, scrivendo: “ogni parola di Ebdòmero è stata a lungo meditata e preparata, e che tanto per i Surrealisti in generale quanto per la scrittura automatica egli [de Chirico] ha il più profondo disprezzo” (in “Popolo di Roma”, del 3 giugno 1943). I due fratelli, pittori, scrittori e poeti, infatti, hanno sempre dichiarato la loro ferma distanza dal “movimento surrealista”, lo abbiamo già molte volte scritto nei nostri studi dechirichiani. Della sua pittura, infatti, Savinio stesso detta in maniera perentoria: “Quanto al surrealismo mio, se di surrealismo è il caso di parlare, esso è esattamente il contrario …  perché non si contenta di rappresentare l’informe e di esprimere l’incosciente, ma vuole dare forma all’informe e coscienza all’incosciente.” (in, Tutta la vita, Milano 1945, pp.5-6).

Ma allora come è, cosa è Ebdomero? Ricaviamo ancora dalla formidabile recensione di Enrico Falqui: “Meglio registrare il giudizio manifestato dal solerte scrittore Mario Puccini (1887-1957, n.d.a.) su Ebdòmero (in, “Gazzetta del Mezzogiorno”, 8 marzo 1949) su quel «libro strano, ma veemente e carnoso, come certe figure di donne che De Chirico dipingeva nel ’28, ’29, ’30 [fig. 6]. Libro autobiografico il suo romanzo, si è detto. E può darsi: ma che potenza rappresentativa e descrittiva, e quanta arditezza nell’uso dei vocaboli, quanta sicurezza nel racconto»”. Nonostante ciò il romanzo non è mai arrivato al grande pubblico, e rimane circoscritto agli estimatori e studiosi dechirichiani; prova ne sia quanto riferisce Luisa Spagnoli (1925-1977 ) nel brioso testo, Lunga vita di Giorgio de Chirico, Longanesi, Milano 1971, lo stesso anno in cui era comparsa la settima ristampa di Ebdòmero, come detto più sopra. Ecco cosa rammenta la scrittrice e giornalista in una sua visita-intervista in casa de Chirico: “Il maestro era seduto in poltrona e sfogliava una copia del suo romanzo Hebdomeros, tradotto e pubblicato da lui stesso in italiano: «Il mio libro è bellissimo e talvolta lo rileggo come se fosse stato scritto da un’altra persona». La signora (Isabella Pakszwer de Chirico, n.d.A.): «I tuoi Hebdomeros non ne posso più di tenerli negli armadi, non ho più posto, non ho più posto; per quindici anni mi hai riempito gli armadi con i tuoi Hebdomeros, se non li dai via, domani li butto al macero»”. (ibid. p.127).

Non sappiamo se sia andata così, ma resta il fatto che il “romanzo” in realtà non è un vero romanzo, è piuttosto l’insieme di cose udite, lette, immaginate, viste; una specie di intreccio che sembra non avere una logica, e invece ce l’ha; però non è un monologo alla maniera di Joyce. Acutamente scrisse Giorgio Manganelli (1922-1990) nel risvolto di copertina dell’edizione del 1971, definendo Ebdòmeroun itinerario”, o meglio direi io, un itinerarium in se ipsum, descritto in maniera trasparente e coscientemente nel rivelare a se stesso il cammino mitico e unico della sua vita artistica passata, presente, e se vogliamo, quella futura. Il testo quindi è un archivio di immagini, prelevate dalla memoria e riversate nei dipinti, nei luoghi e nei momenti cruciali della sua vita; è un catalogo di simboli, quasi sempre mitologici, un collage di sogni, paesaggi, interni (metafisici) con apparizioni oniriche, eppure descritte realisticamente, proprio come nei suoi dipinti, nella singolare mescolanza di temi classici, romantici, grotteschi, che si susseguono continuamente di pagina in pagina, al tempo stesso misteriosi e umoristici. Ebdòmero in effetti è uno sdoppiamento dell’autore che si rende oggetto della sua stessa ironia, niente a che vedere col monologo interiore di Leopold Bloom. Singolare difatti già appare l’incipit del racconto, con una serie di quindici puntini sospensivi: “……………e allora incominciò la visita di quello strano edificio sito in una via severa, ma distinta e senza tristezza. Visto dalla strada faceva pensare a un consolato tedesco a Melbourne. (De Chirico ha viaggiato molto, ma non è mai stato in Australia, n.d.a.). “L’aspetto del consolato a Melbourne era un’impressione personale di Ebdòmero […] la fuga sperduta attraverso le camere dalle uscite complicate, il salto dalla finestra nel vuoto (suicidio nel sogno) e la discesa in volo plané, come quegli uomini-condor che Leonardo [fig. 7] si divertiva a

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disegnare…” (p. 7). Ecco disse Ebdòmero aprendo le braccia davanti ai suoi compagni, col gesto classico del capitano viaggiatore […]. Giunsero sulla soglia d’una  sala vasta e alta di soffitto, ornata secondo la moda del 1880. Completamente vuota […] in un angolo due gladiatori si esercitavano senza convinzione sotto lo sguardo annoiato d’un maestro, ex gladiatore in ritiro […]. «Gladiatori! Questa parola contiene un enigma» disse Ebdòmero […]. E pensò a quei paesaggi, alla fine dello spettacolo, quando il sole declinava e l’immenso velario aumentava l’ombra sull’arena…” (p. 8). Qui pittura e scrittura [fig. 8] si incrociano in un apparente sproloquio che verseggia la letteratura stessa, ilnarrare un se stesso di fronte ai casi più banali della giornata di un artista visionario e sognatore:

Si poteva vedere facilmente in quel momento in cui tutta la famiglia era riunita in mezzo alla camera da pranzo intorno ai cocci di quel famoso vaso di Rodi che durante novantadue anni  era rimasto posato sull’alto della credenza. Con gli occhi fissi a terra, le mani aperte posate sulle ginocchia piegate, i gomiti in fuori, i sette membri della famiglia, come se fossero seduti sopra invisibili sgabelli, guardavano quei cocci biancastri […] . Essi guardavano come archeologhi [fig. 9] incuriositi …” [pp. 12-13]; e ancora: “Forse per questo Ebdòmero passava allora intere notti seduto sul letto […]. In simili momenti accadeva che il muro  in fondo alla camera si aprisse, come il sipario di un teatro, e dietro apparissero spettacoli ora spaventosi, ora sublimi e incantevoli; era l’oceano in tempesta con dei gnomi schifosi  [fig. 10] che smorfeggiavano e gesticolavano ostilmente sulla cresta schiumosa delle onde; e a volte si vedeva invece un paesaggio primaverile, d’una poesia e d’una tranquillità stupefacenti: poggi verdeggianti e teneri inquadravano un sentiero ombreggiato da mandorli in fiore;…” (p. 22).

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Tutta la narrazione si sussegue in tale continue apparizioni di immagini e soliloqui esclamativi; ricordi inquieti, come le teste di uccelli “che lo turbavano”; “Ebdòmero fuggiva verso il parco dei pini []. I passeri visti così da vicino avevano un aspetto mostruoso. Il lato enigmatico, sconcertante e inquietante della testa degli uccelli aveva più d’una volta immerso Ebdòmero in meditazioni assai complicate e spesso gli accadeva di parlare da solo, metafisicamente alla testa della quaglia (la quaglia ricompare anche nel “romanzo” di de Chirico, Il signor Dudron, del 1940, n.d.a) (p.29); tra le teste d’uccello che lo turbavano venivano in prima linea quella della gallina: quella del gallo lo preoccupava meno […] ma ecco il gallo […] divenire a poco a poco ossessionante […] ora i suoi piedi toccavano il suolo e la sua testa il cielo; lettere bianche, lettere solenni come un’iscrizione lapidaria, s’avanzavano un po’ da ogni lato; a poca altezza dal suolo formarono questa strana iscrizione: Scio detanargol bara letztafra…” (pp. 59-60); la strana iscrizione e il gallo che de Chirico immagina contornato da lettere misteriose, deriva dalla descrizione leopardiana nel Cantito del gallo silvestre:  “Affermano alcuni maestri e scrittori ebrei -ha scritto Leopardi – che tra il cielo e la terra […] vive un certo gallo selvatico; il quale sta in sulla terra coi piedi e tocca con la cresta e col becco il cielo. Questo gallo gigante […] ha uso di ragione […]: a profferir parole: […] si è trovato […]  scritto […] un antico cantico intitolato  Scir detarnegòl bara letzafra, cioè Cantico mattutino del gallo silvestre”. (Si veda quindi Il gallo, circondato da lettere alfabetiche [fig. 11]  in una delle 24 illustrazioni per l’Ebdòmero per la rara edizione Bestetti del 1972 [fig. 12]; e lo splendido dipinto, Roger et Angelique, 1930 c. di Alberto Savinio [fig. 13]).

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Testo e immagini, dunque, sono quasi sempre coincidenti nel “romanzo” dechirichiano: memoria e pittura svolgono un ruolo fondamentale per la comprensione di Ebdòmero, come nei seguenti passi: “Ebdòmero si recava in quella città costruita come una cittadella, con i suoi cortili interni e i suoi giardini oblunghi e geometrici […]  egli vi trovava sempre gli  stessi uomini […] applicati alla loro occupazione  prediletta:  «La costruzione dei trofei» [fig. 14].

Così sorgevano in mezzo alle camere e ai salotti  quelle impalcature curiose, severe e divertenti nel tempo stesso; gioia e compiacimento degli ospiti e dei fanciulli” [p- 64]; e ancora: «Cos’è questo rumore che sale dalle vie oscure» domandò il filosofo Lifonzio […]. Abitava un modesto appartamento al di sopra dei portici che inquadravano la piazza principale della città. Dalla sua finestra poteva vedere il lato posteriore della statua raffigurante suo padre e che sorgeva sopra uno zoccolo basso, in mezzo alla piazza” [fig. 15]. De Chirico qui ha pensato alle parole di

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Schopenhauer che consigliava di non collocare su alti piedistalli le statue di uomini illustri, ma “di posarle su zoccoli bassi, come usa in Italia [fig. 16], ove alcuni uomini di marmo sembrano trovarsi a livello dei passanti e camminano con loro” (G. de Chirico, in Estetica metafisica, “Valori Plastici”, nn. 4-5, Roma 1919).  E poi l’apparizione dei centauri [fig. 17]: “Ebdòmero non poteva essere del parere di quegli scettici che trovavano tutto ciò una favola, e pretendevano che i centauri non fossero mai esistiti […]. Come per provare il contrario erano tutti alla porta che scalpitavano…” [pp. 76-77].

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Non è poi esente, Ebdòmero da umoristiche esclamazioni, allorquando “Sorsero con lentezza dal chiaroscuro della sua memoria e a poco a poco si precisarono nella sua mente, le forme di quei templi  [fig. 18] e di quei santuari di gesso costruiti ai piedi di montagne ospitali  [come il Tempio di Apollo: si ricordi che il nome di Ebdòmero deriva da Ebdomee, le feste in onore di Apollo  n.d.a., fig. 19] e di rocce i cui paesaggi facevano presentire mondi vicini e sconosciuti […] che sin dalla sua triste infanzia Ebdòmero aveva sempre amati. Una parola magica brillava nello spazio come la Croce di Costantino e si ripeteva fino in fondo all’orizzonte simile alla reclame d’un dentifricio:  Delphoi! Delphoi!”  [pp. 105-106].

E ancora: “Ebdòmero professava lo stesso culto per i figli del sonno: il sogno; ragione per cui aveva fatto scolpire sopra ogni letto un’immagine di Mercurio oniropompo [figg. 20-21], cioè conduttore di sogni, poiché, come ciascuno sa, Mercurio era incaricato da Giove non solo di esercitare la professione di psicopompo, cioè di guidare le anime dei trapassati nel mondo dell’aldilà, ma anche di condurre i sogni nel mondo dei viventi addormentati” [p. 119]. E, per salti, dalla mitologia ai testi sacri:“…e furono gli amici di Ebdòmero che diedero il segnale; appena scorsero il ritornante, gridarono tutti insieme «Eccolo! Eccolo!» e poi più forte ancora: «Evviva colui che ritorna! Evviva il ritornante! Evviva il figliuol prodigo» [p. 125] […]. Per festeggiare il ritorno del figliuol prodigo [fig. 22] il padre diede, alcuni giorni dopo, un ricevimento al quale furono invitati Ebdòmero e i suoi amici.” [p. 127]. Più avanti Ebdòmero parlando con gli amici: “Dato l’orientamento sempre più materialista e pragmatico della nostra civilizzazione”- afferma – “lo scrittore, il pensatore, il sognatore, il poeta, il metafisico, l’osservatore, l’indovino, il vaticinatore, lo scrutatore, il deduttore, l’interrogatore di enigmi, il valorizzatore, il veggente, il cacciatore di canti nuovi, il selezionatore di quadri di primissimo ordine, ecc., ecc., diventeranno personaggi anacronistici, destinati a sparire dalla superficie del globo…” (p. 159). Tutto questo è de Chirico.

Verso la fine del “romanzo” Ebdòmero illustra il senso della sua poetica: “Miei cari amici, voi avete probabilmente provato quanto l’ho provato io, la Stimmung (atmosfera) del tutto speciale che si sprigiona quando uscendo in istrada, verso il tramonto, alla fine di una calda giornata estiva…”.(p.167)  È così che è nato il suo primo famoso dipinto, L’Enigma di un pomeriggio d’autunno, del 1910 [fig. 23] a Firenze, di fronte alla Chiesa di Piazza Santa Croce [fig. 24]. Inoltre in queste ultime pagine dell’Ebdòmero c’è pure un velato riferimento ai suoi dipinti del periodo ferrarese: “Li conosceva bene quei pomeriggi interminabili nella camera delle carte geografiche” (p. 184): sono i suoi celebri interni metafisici 1916-17 [fig. 25].

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E infine l’Ebdòmero nelle barche: “…una grande onda grassa e irresistibile, d’un’infinita tristezza, aveva sommerso ogni cosa e in mezzo a questo novello Oceano la nave di Ebdòmero galleggiava immobile…”(188). L’Ebdòmero in barca compare in disegni degli anni Trenta e nelle varie versioni neo-metafisiche tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi Settanta [figg. 26-27]. Ecco, tutto questo è l’Ebdòmero, il riflesso letterario della pittura metafisica e neo-metafisica di de Chirico.

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fig 28

Gli “Scritti” di de Chirico e la critica

Abbiamo già visto nel corso di questa nota alcuni giudizi critici, talvolta contrastanti, sul “romanzo” Ebdòmero. Ma cosa pensava de Chirico della critica? Nel 1940, il maestro-scrittore dava alle stampe un lungo racconto, Una gita a Lecco, (in “Aria d’Italia”, Milano, 1940) e qui appare un altro personaggio, il Signor Dudron, titolo assunto nell’edizione più recente da le “Lettere”, Firenze, 1998 [fig. 28]. Ebbene, il protagonista Dudron è di tutta evidenza lo stesso de Chirico che narra la sua ansiosa gita, condotto in macchina nella città lombarda, guidata da una spericolata signora bionda, amica del maestro, per andare ad un pranzo di un imprenditore “allevatore di lumache”. Dopo questa umoristica descrizione del divertente episodio, Dudron-de Chirico, quando finalmente torna a casa, comincia a riflettere e ad esporre i suoi pensieri sulla pittura, sulla perdita del mestiere, sull’abbandono della tradizione per la decorazione, insomma tutti quei temi oggetto delle sue mai più interrotte argomentazioni polemiche contro il “modernismo”, che confluiscono poi, come è noto, in un più ampio famoso suo testo, Commedia dell’arte moderna, del 1945, e in una serie di articoli pubblicati sulla stampa italiana tra il 1938 e il 1962, da me raccolti e selezionati, ma senza poterli ripubblicare, per motivi che qui non è il caso di esporre. Ma per tornare a Il signor Dudron e alla domanda postami più sopra, essa trova la sua risposta nel colloquio che il personaggio intreccia con la signora Isabella Far (pseudonimo della consorte di de Chirico), che dice: “Due fenomeni fecero così la loro apparizione nella vita artistica moderna: i mercanti di quadri che, fino allora, non avevano avuto che funzioni modeste, e i critici d’arte che prima non esistevano affatto. I casi di Saint-Beuve, Diderot, Baudelaire, il caso più recente di Guillaume Apollinaire, sono stati casi isolati, ma essi erano poeti e scrittori, amici di pittori. Il critico d’arte, invece, nato con l’arte moderna, è salvo qualche eccezione assai rara, uno scrittore che non essendo riuscito a scrivere qualche buon libro, ha trovato più facile dare consigli e criticare i suoi contemporanei” (in Il signor Dudron, cit. p. 44).

fig 29

Giudizio tranciante che ricorrerà sovente negli articoli più sopra citati, e nelle numerose interviste, pubblicate dal sottoscritto e citate più sopra in questa nota. Dunque, molto diverso il fantasioso Ebdòmero del 1929 da Il signor Dudron del 1940; quest’ultimo è in realtà un primo resoconto “autobiografico” in forma di scrittura al tempo stesso memoriale e teorica dell’arte. Le sue più complete “Memorie della mia vita” apparvero anni dopo, nel 1945 per la rara edizione romana della “Astrolabio” [fig. 29], che lessi con grande interesse e meraviglia al principio degli anni Settanta, quando ebbi la fortunata ventura di acquistarla su una delle bancarelle di libri in Piazza Fontanella Borghese a Roma (allora era davvero un piacere frugarle) e che ho letto e riletto più volte, anche nell’edizione ampliata da de Chirico, pubblicata dalla Rizzoli nel 1962, e in successive edizioni.

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Si dovette attendere il 1985, per vedere pubblicati tutti gli altri scritti di de Chirico, raccolti pazientemente e correttamente da un grande studioso dell’artista, Maurizio Fagiolo (1939-2002), nel suo Il Meccanismo del pensiero, 1911-1943, nella collana dei “Saggi” della “Giulio Enaudi Editore” [fig. 30, in copertina: G. de

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Chirico, Autoritratto, 1920]; questo e altri autoritratti, di cui uno con il fratello Savinio, [figg. 31 e 32] riproducono il tema del doppio ritratto, sia in pittura che in letteratura, e, a proposito del dell’altro da sé, de Chirico, nel suo articolo  Arte metafisica e scienze occulte, sulla rivista di Casella “Ars Nova”, n. 3 del 1919, scrive: “Il fatto stesso di considerare la possibilità di esistenza di forme immateriali, di figurarci un nostro doppio, un nostro  Khâ, per parlare da indiano, formato da fluidi e da sostanze incorporee, antropomorfizza terribilmente il  tentativo nel quale si procede  e che dovrebbe essere puramente extramateriale, quindi metafisico“.

Il  fondamentale volume di Fagiolo, per chi voglia studiare la scrittura dechirichiana, sovente anche in lingua francese, è corredato da un apparato utilissimo di Note ai testi di insuperata analisi critica e documentaria. Codesto volume è stato poi riedito dieci anni fa nei “Classici Bompiani” nel 2008, Scritti 1911-1945 (con l’aggiunta di due anni, rispetto al volume curato da Fagiolo, per l’inclusione dell’Ebdòmero, de Il Signor Dudron, i due romanzi che stiamo analizzando, e Della Commedia dell’arte moderna in parte già presente in Fagiolo, e già pubblicata integralmente appunto nel 1945, e di alcuni brevi frammenti di scritti (di “incerta” datazione), nei quali si ripete in sostanza quanto già precedentemente reso noto, rinvenuti a Parigi nell’archivio Rosemberg e qualche breve esemplare  conservato nell’archivio della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico a Roma.

fig 31

La critica contemporanea sul romanzo-non-romanzo di de Chirico, appare a mio avviso un po’ forzata nel voler riferire la narrazione dechirichiana alla scrittura di Raymond Roussel (1877-1933), il ricchissimo, eccentrico dandy letterato e sperimentatore linguistico (letteratura combinatoria di matrice surrealista, omofonie e polisemie: in ogni caso scrittura automatica); ma nei numerosi scritti dechirichiani, il nome di codesto tragico scrittore, scomparso a Palermo, come fu detto, in circostanze misteriose, per abuso di droghe e altre sostanze allucinogene (si vedano al riguardo varie ipotesi formulate nel volume di Leonardo Sciascia, Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, Sellerio, 1971), come dicevo, non compare mai; anche se non si può escludere che de Chirico potrebbe averlo sentito nominare dal suo amico Guillaume Apollinaire nel primo decennio del secolo XX a Parigi. Del resto a smentire un tale improbabile accostamento di Ebdòmero alla scrittura del Roussel (e in particolare all’opera giovanile dello scrittore francese, La doubler, Il Sostituto, del 1897, opera in versi alessandrini, pseudo-romanzo di un amore infelice di un attore fallito e costretto a fare la controfigura), è lo stesso de Chirico, tenuto conto di quanto riporta nel risvolto della  sopracopertina nella rara edizione del 1957, curata direttamente dal maestro, come detto più sopra, laddove si leggono parole inconfondibilmente sue: “Rischioso soprattutto voler riallacciare Ebdòmero, come fece la critica francese, a una qualsiasi genealogia letteraria: il libro pur mantenendo i contatti con le ultime esperienze moderne, ha una sua inconfondibile originalità”. Parole evidentemente sfuggite a chi ha voluto vedere in Ebdòmero analogie con Roussel.

fig 32

E ancora: “Le parole del libro, come le immagini dei quadri sono governate tutte da quella stessa logica che per essersi liberata da ogni convenzionale pastoia, ha potuto congiungersi e fondersi alla fantasia, come allo scopo cui tendeva la stessa esigenza da cui è nata”. De Chirico quindi non fa mai esperimenti linguistici, né tantomeno scrittura automatica di genere surrealista; egli scrive sempre con grande naturalezza e rigore grammaticale e sintattico ciò che vede e ciò che immagina, sogna e osserva, spesso con candido stupore, come i tipi, le facce che incontra durante questo singolare viaggio di Ebdòmero, da un capo (non si sa da dove) all’altro (non si sa per dove), nel suo peregrinare stupefacente, un po’ alla maniera ariostesca, ma non spingendosi mai sulla luna, bensì ci dice poeticamente, forse pensando ancora una volta alle Operette Morali, nell’Elogio degli uccelli, dove Leopardi narra: “Imperocché si vede palesemente che al dì sereno e placido cantano…”; e de Chirico conclude così il suo “romanzo”:“S’abbandonò all’onde carezzevoli della voce indimenticabile, e su quell’onde partì verso ignote e strane plaghe […] partì in un tepore di sole occiduo, ridente alle cerulee solitudini […] Intanto, tra il cielo e la vasta distesa dei mari, isole verdi, isole meravigliose, passavano lentamente, come passano le unità di una squadra davanti alla nave ammiraglia mentre, su in alto, lunghe teorie di uccelli sublimi, d’un candore immacolato volavano cantando…”  Fine

Un prosatore d’arte, dunque, anche il nostro pictor optimus; difatti un suo importante testo, Classicismo pittorico del 1920 apparve nella massima rivista letteraria di prosa d’arte del tempo, ovvero “La Ronda” 1919-1923, con scritti di Cardarelli, Baldini, Bacchelli, Barilli, Cecchi, Ferrero, Gargiulo, Montano, Pareto, Savarese, Savinio, Tilgher, e alcuni collaboratori stranieri, convinti del recupero della tradizione classica contro le avanguardie, parallelamente all’altra famosa rivista di critica d’arte, “Valori Plastici” 1918-1924,  fondata da Mario Broglio, artista-editore, amico di de Chirico. Memorabili anche gli articoli di Alberto Savinio, pubblicati su “La Ronda”: Delle cose notturne, La voce del campanello, e Le migrazioni dei popoli, titolo quest’ultimo quanto mai attuale.

E perciò vale la pena di ricordare quanto Savinio scrive a proposito delle migrazioni dei popoli, sostenendo che è un fenomeno antichissimo, poiché esso segue sempre il tramonto, ossia l’occidente (l’ora metafisica per eccellenza, come sappiamo dall’arte dechirichiana), perché invita i popoli a trasmigrare: “Non a caso – scrive Savinio – dunque le civiltà hanno seguito il cammino solare, e dall’Asia sono passate nell’Egitto, e dall’Egitto alla Grecia, e dalla Grecia all’Italia, e quindi nella Francia e oltre;” nel 1920-22, l’acuta intelligenza metafisica di Savinio non poteva certo immaginare quanto avviene oggi in Europa a quasi cento anni di distanza; eppure appare molto inquietante, come una sorta di profezia, per fortuna nostra non ancora pienamente avveratasi, quanto egli di seguito afferma nel suo articolo sulla migrazione: “Da quanto è già avvenuto si può desumere che un giorno noi tutti figli della divina Europa avremo a trasportarci sui continenti al di là dei mari, chiudervi il ciclo dei mestieri nobili,  delle arti, e seppellirvi il corpo della immortale bellezza. Ma confortiamoci! E prima che quella disperata navigazione ci abbia a rapire verso i giorni delle nostre notti, il tempo, speriamo, non ci mancherà di lasciare le ossa in questa antica e venerata Italia”. Con molta più trepidazione lo speriamo anche noi oggi, prima del definitivo, ma ormai inevitabile Tramonto dell’occidente.

di Mario URSINO     Roma febbraio 2018

 

Nota dell’autore:

  1. Le pagine dei brani citati da Ebdòmero si riferiscono all’edizione romana del 1957; per Il Signor Dudron si fa riferimento all’edizione “Le Lettere”, Firenze, 1998.
  2. Le illustrazioni che corredano il presente testo sono state selezionate dal sottoscritto laddove le parole del romanzo Ebdòmero suggeriscono immediate immagini pittoriche, contravvenendo a quanto lo stesso de Chirico avvertiva nel risvolto della sopracopertina dell’edizione del 1957:
Sarebbe rischioso voler tentare un raffronto tra le avventure di Ebdomero e le pitture di Giorgio de Chirico; soprattutto se si volesse stabilirvi avventatamente un nesso. Che in realtà esiste, ma in modo profondo e segreto. Le parole del libro, come le immagini dei quadri sono governate tutte da quella stessa logica che per essersi liberata da ogni convenzionale pastoia, ha potuto congiungerli e fondersi alla fantasia, come allo scopo cui tendeva la stessa esigenza interiore da cui è nata.