Dall’antico al contemporaneo: “Secoli di bellezza. Le donne nell’arte”. Alla galleria Ars Antiqua ( Milano, 8-12 novembre 2023).

di Giulia GHIRARDI

Recentemente oggetto di una rivalutazione generale, il mondo femminile si è da sempre precisato in una triade di snodi concettuali entro la disciplina artistica: autorialità, materia narrativa e rappresentazione.

Che la parte femminile fosse insomma da riconoscersi nell’eccellente artista, nel soggetto mitologico-religioso stabilito per il dipinto oppure nel personaggio immortalato nei limiti eternizzanti di un ritratto, la caratterizzazione liquida e mistica riconosciuta nel femminile ha segnato le soluzioni pittoriche comprese dal Rinascimento alla Belle Époque in modo davvero sorprendente: “Secoli di bellezza. Le donne nell’arte”. Questo il titolo di una mostra che, a Milano, intende partecipare al crescente dibattito nella questione.

La galleria Ars Antiqua offrirà una doppia esposizione, nei locali di Via Carlo Pisacane 55/57 e di Via Nino Bixio 35, incentrata su una riflessione contingente la donna quale musa artistica e modello ispiratore innovative iconografie. Un percorso transculturale e trasversale, quello della mostra, che si snoda tra arte antica e contemporanea, abbracciando un ventaglio di declinazioni femminili quanto più vasto e variegato, messo agli atti in due incontri previsti a sostegno della mostra (8-12 novembre): all’inaugurazione dell’8 novembre alle ore 17.00 seguirà infatti una serata-evento in programma venerdì 10 novembre a partire dalle ore 20.00.

La precisa distinzione degli ambiti storico-artisti su cui muove la mostra si fa brillantemente accurata in corrispondenza di alcuni dipinti, esemplari per l’immediatezza del ruolo rivestito.

Un’intensa Betsabea al bagno (cm 111 x 140) (FOTO 1) apre il contesto allegorico-mitologico.

1. Giovanni Venanzi (Pesaro, 1627-1705), Bethsabea al bagno (cm 111 x 140), scheda critica del Prof. Alberto Crispo, pubblicata in Giardini (2019) p. 77

Opera del celebre Giovanni Venanzi (Pesaro, 1627-1705: pubblicata in C. Giardini, Giovanni Venanzi (Pesaro, 1627-1705). Propedeutica per un catalogo, Ancona 2019, p. 77), la tela, mutuata per la verità del contesto biblico, si discosta dall’accademico e dirimente episodio per tradursi, nella candida restituzione del corpo di Betsabea, in un inno alla temporalità ed alla materialità della vita. L’episodio biblico (2 Sam 11) racconta di come re Davide, passeggiando sulla terrazza del proprio palazzo, avesse scorto un giorno la bella Betsbea, in realtà moglie del generale Uria, intenta in un bagno. L’intenso chiaroscuro che isola il corpo della donna e lo rende faro nello sfuggente riparo di un angolo di palazzo, appena raffrescato dalla brezza dei cipressi e della pianta esattamente in prossimità della scena, fornisce allo spettatore l’esatta visione dell’innamoramento di Davide.

La forza del sentimento del re si metaforizza nella potenza conturbante di Betsabea, che a sua volta si ammira il volto, incarnando con la bellezza rifulsa in uno specchio il canone della pudica virtù.  Ammirata e ammirantesi, Betsabea è l’archetipo del potere femminile, unica tra le altre figure religiose, a parte Eva e Susanna, ad essere raffigurabile in nudità. Al pari di Eva, prima donna, questa Betsabea concretizza allora massimamente la definizione junghiana di ‘archetipo’ (femminile):

«Non mere “cause”, ma materie o condizioni primordiali che non invecchiano, né vengono mai superate, bensì fanno sempre originare tutto da se stesse» (C.G. Jung, K. Kerèny, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Torino 1972, p. 21).

La vicenda di questa donna biblica, incontrovertibilmente incisiva e rivoluzionaria nella riconsiderazione modernista cui è interpretabile l’intero racconto, introduce ad un’altra sezione prevista in mostra: la declinazione religiosa.

Occasione di introspezione psicologica da parte degli artisti di qualsiasi epoca, il soggetto delle sante donne ha da sempre ottenuto, naturalmente, il plauso delle istituzioni religiose (Cfr., A. De Gaudio, Donne bibliche nell’arte: un’interpretazione poetica, Castrovillari 2003).

2. Felice Boscarati (Verona, 1721 – Venezia, 1807), Allegoria della Religione (cm 230 x 140), scheda critica del Prof. Giuseppe Sava

Brillanti di fulgide virtù in quanto perfette prefigurazioni mariane, le donne dell’Antico Testamento hanno ruoli determinanti relativamente alla salvezza del popolo di Israele. Emulate, dopo la nascita di Cristo, dalle martiri, le sante donne sono spesso state evolute, dalla sintesi del genio pittorico, in metafore della stessa Religione (Cfr., D. Dotti, Sante ed eroine bibliche, in Donne nell’arte. Da Tiziano a Boldini, catalogo della mostra, Brescia, Palazzo Martinengo Cesaresco, 18 gennaio-7 giugno 2020, a cura di D. Dotti, Recanati 2020, p. 12). È quando accade con la maestosa Allegoria della Religione (cm 230 x 140) dipinta da Felice Boscarati (Verona, 1721 – Venezia, 1807: L. Perini, Felice Boscarati: dipinti di soggetto sacro, in “Verona illustrata”, 12, 1999, pp. 27-35; D. Zannandreis, Le vite de’ Pittori, Scultori e Architetti Veronesi pubblicate e corredate di prefazione e dei due indici da Giuseppe Biadego, ed. a cura di G. Biadego, Verona 1891, pp. 414- 416). (FOTO 2)

L’immagine della Religione, svettante al centro della composizione, attira su di sé tutti i rutilanti movimenti del periodo barocco. Come svelato dalla guida definitiva alle immagini barocche, l’Iconologia di Cesare Ripa (Cfr., Cesare Ripa, Iconologia, Siena 1613, pp. 186-188), la figura femminile erompe su di un turbinio di nuvole a capo velato, rivestita di un pomposo piviale broccato policromo al di sopra di un evanescente camice in mussola, così come usavano indossare vescovi e papi. Poggiata alle primigenie tavole della legge mosaica, questa Religione impugna nella mano sinistra la verga di Aronne, che con le tavole rappresenta i fulgori dell’Antico Testamento.

Il rimando al Nuovo, implicito nelle suppellettili liturgiche caratteristiche del cerimoniale cattolico, ovvero il turibolo e il braciere acceso, sintetizzano ad un solo tempo la preghiera e l’adorazione. Segue e conclude nella presente breve rassegna religiosa la Sacra Famiglia con San Giovannino (cm 98 x 131) di Anton Maria Piola (Genova, 1659-1715) (FOTO 3).

3. Anton Maria Piola (Genova, 1659-1715), Sacra Famiglia con San Giovannino (cm 98 x 131), scheda critica della Dott.ssa Anna Orlando

Figlio d’arte e discendente da una famiglia ricca di esponenti artistici (Cfr., C.G. Ratti, Delle vite de’ pittori, scultori ed architetti genovesi, II, Genova 1769, p. 49), l’artista enuclea, nella tela in Ars Antiqua, un commovente raccoglimento che nell’accensione coloristica in corrispondenza del Bambino e della caratterizzazione lenticolare del bellissimo viso della Madonna sublima il proprio apice compositivo, esemplando l’importanza storica della pittura religiosa. Non a caso il volto della presente Vergine è accostabile alla ritrattistica del Baciccio.

4. Francesco Cairo (Milano, 1607- ivi, 1665), Ritratto di Santa Cecilia (cm 33 x 24,5), scheda critica del Prof. Alberto Crispo

Il Ritratto di Santa Cecilia (cm 33 x 24,5) di Francesco Cairo (Milano, 1607- ivi, 1665) (FOTO 4)  occupa una posizione intermedia tra il contesto religioso e un’altra sezione della mostra, quella relativa ai ritratti. Le tre funzioni primarie del ritratto, già fissate da Plinio il Vecchio nella sua Storia Naturale, commemorativa, celebrativa e didattica, si fondono così in un’effige di rivoluzionato sapore naturalistico. Se la definizione particolare della Santa viene infatti realisticamente resa, l’attributo in secondo piano dell’organo e lo sguardo intensamente volto verso l’alto non possono non rammentare anche l’intento didattico, per il fedele, a emularne le azioni. La necessità artistica di rifarsi al mondo naturale, per il ritratto specialmente con la pratica della circumductio umbrae ovvero la circoscrizione dell’ombra di se stessi o qualcosa mediante un oggetto tracciante segno, se da un lato rapporta l’arte e l’essere umano in un interminabile rapporto sin dalle epoche preistoriche, dall’altro consente all’uomo di innalzarsi  e riporsi in una posizione centrale (Cfr., A. Buccheri, Il ritratto: storia e funzione di un genere artistico, in “L’arte e il visuale”, vol. x, Enciclopedia della cultura italiana, Torino 2010, pp. 337-374).

Grazie alle ricerche leonardesche di fisiognomica prima, all’impegno di Giorgione diretto all’introspezione psicologica, alla passione di Raffaello per le analisi ottico-percettive e cromatiche e agli studi relativi agli stati d’animo lotteschi poi, nel primo Cinquecento italiano il ritratto divenne un genere di prim’ordine nel panorama della committenza. Se nel Seicento la produzione europea prese la ribalta sulla nostrana, pure non occorre dimenticare che l’intera quadreria ritrattistica italiana sarebbe poi stata immolata a due principali filoni, quelli del realismo e dell’idealizzazione (Cfr., S. Bosi, Ritratti di donne, in Donne nell’arte, cit., p. 58). Il Ritratto di Giuliano Dami (cm 97 x 73,5) (FOTO 5) testimonia al meglio entrambe le correnti:

5. Violante Beatrice Siries Cerroti (Firenze, 1710 – ivi, 1783), Ritratto di Giuliano Dami (cm 97 x 73,5), pubblicata in Bellesi (2009), III, p. 310

opera di Violante Beatrice Siries Cerroti (Firenze, 1710 – ivi, 1783) questo dipinto, raffigurante il noto cortigiano al servizio del Granduca Gaetano de’ Medici, sintetizza sia le eccellenti doti pittoriche che la straordinaria fama raggiunta dall’artista, attiva presso la corte di Francia, ritrattista ufficiale della corte medicea e molto apprezzata anche a Vienna (Cfr., S. Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini del ‘600 e ‘700: biografie e opere, I, Firenze 2009, pp. 252-253 e Id., Catalogo, III, p. 310, fig. 1517).

La celebre Canestra di frutta caravaggesca, oggi custodita alla Pinacoteca Ambrosiana Milanese, ebbe merito di donare rinnovata linfa vitale non soltanto al genere del naturamorfismo, la cui parabola ascendente si era bloccata in epoca romana, ma anche a quello di consegnare ad una nutrita cerchia di pittrici femminili l’oggetto di specializzazione favorito. Da Fede Galizia a Giovanna Garzoni, Barbara Longhi e infine Lavinia Fontana: l’elenco delle artiste dedite all’opera pittorica andò crescendo nel XVII secolo, consacrando implicitamente anche le scene di genere che con la natura morta spartivano un disteso brano inventivo (Cfr., D. Dotti, Natura morta al femminile, in Donne nell’arte, cit., p. 88 e nel medesimo volume v. i contributi di N. Colombo, Vita quotidiana, p. 13 e A. Imbellone, Lavoro, p. 154).

Tra le varie opere, si rammentino, offerti da Ars Antiqua, per questo prezioso ambito, due ritratti femminili di fresca imposizione. Il primo, una (FOTO 6) Contadina con cacciagione del noto Giacomo Francesco Cipper, detto il Todeschini (Feldkirch, 1664-Milano, 1736: M.S. Proni, Giuseppe Francesco Cipper detto “il Todeschini“, Soncino 1994; L. Tognoli (a cura di), G. F. Cipper, il Todeschini e la pittura di genere, Bergamo 1976) di ampie dimensioni (cm 86 x 105) offre una colorazione vividamente unica nel suo genere, introducendo in una movimentata scena di vita  agreste-contadina anche un certo spirito di maternità, nel tenero abbraccio della giovane donna che trae a sé il piccolo bambino.

6. Giacomo Francesco Cipper, detto il Todeschini (Feldkirch, 1664-Milano, 1736), Contadina con cacciagione (cm 86 x 105)

Il secondo dipinto, realizzato da Felice Boselli (Piacenza, 1650 – Parma, 1732: F. Arisi, Felice Boselli pittore di natura morta, Roma 1973), si intitola invece Mercante di lucci e anguille (cm 96 x 75). (FOTO 7). La predominanza delle figure femminili in queste scene di mercato, oltre a denunciare l’interesse degli artisti nelle mansioni quotidiane, evidenzia i rapporti economici crescenti, diffusi e democratici nella spartizione del lavoro.

7. Felice Boselli (Piacenza, 1650 – Parma, 1732), Mercante di lucci e anguille (cm 96 x 75), scheda critica del Prof. Alberto Crispo

Con l’emergere delle consuetudini borghesi, al volgere dell’Ancien Regime, iniziò a venire meno la rilevanza impattante del corpo femminile e l’attenzione iniziò ad essere trasposta sulla raffinata e ricamata industria di abiti alla moda, all’epoca fiorente. Il nudo e il sensualismo furono così relegati ai pittori (Giannini, Mitologia in rosa e storia antica, in Donne nell’arte, cit. p. 34 e S. Bosi, Nudo e sensualità, ivi, p. 174); le figure femminili continuarono tuttavia a mostrare «più dolcezza di quiete che galliardia» ed a risplendere di «movimenti et posati, ariosi, pieni di semplicità» (Cfr., L.B. Alberti, Il trattato della pittura e i cinque ordini architettonici, Lanciano, 1934, p. 72).

Giulia GHILARDI  Milano 5 Novembre 2023