Claudio Strinati: “Per me era incredibile che si potesse lavorare e divertirsi … pensavo che non dovesse finire mai, mentre è finita in un attimo o quasi”.

di Claudio STRINATI

Da ragazzi ci vedevamo continuamente con Maurizio Fagiolo. E con Maurizio Marini, gli amici indivisibili. Avevano preso in affitto (siamo nella seconda metà degli anni settanta) quello che per me è stato uno dei luoghi mitici della giovinezza. Loro due, in verità, erano giovani sì, ma un po’ più grandi di me. Maurizio Fagiolo si stava avvicinando alla quarantina e Maurizio Marini era ancora nel pieno dei suoi trent’ anni ma non sentivo alcuna differenza d’ età.

Tempi beati per me che trent’anni li avevo appena compiuti e mi sentivo meravigliosamente bene. Eravamo un gruppo di amici anche se le dispute non mancavano ma erano di quelle senza astio, senza la smania del farsi le scarpe a tutti i costi. C’era una cosa che non posso ignorare e che ho poi ritrovato con notevoli difficoltà nel prosieguo della vita: la stima e il rispetto reciproco. C’era sul serio e i due Maurizi avevano questo spirito di corpo che coinvolgeva anche persone in apparenza anche molto lontane da quella mentalità e da quei comportamenti.

Lo studio era al piano nobile di Palazzo Rondanini a Roma. Per me era la sede dei sogni e della realizzazione dei desideri che ho sempre avuto per tutta la vita e forse ho ancora adesso. Si entrava al piano nobile di quel nobilissimo antico palazzo e si continuava a girare per stanze, saloni, corridoi, studi, biblioteche che ai miei occhi di allora apparivano infinite. Non ho mai capito quanto fosse grande quello spazio. In una sala c’erano e presumo ci saranno anche adesso affreschi manieristi di autori incogniti, farnesiani si raccontava, di quelle cose che mi piacevano e mi piacciono ancora. Per me era incredibile che si potesse lavorare e divertirsi e passare magari la giornata anche senza fare niente di significativo in un luogo così.

Invece era la nostra quotidianità e pensavo che non dovesse finire mai, mentre è finita in un attimo o quasi.

Marini riceveva antiquari, rigattieri, collezionisti che arrivavano da lui come dall’oracolo di Delfi e lui a tutto sapeva dare una attribuzione, un inquadramento, un valore, o almeno così mi sembrava. Fagiolo andava continuamente avanti e indietro con pacchi di fotografie, fotocopie, ritagli di giornali e riviste, cataloghi e cataloghini in copia pressochè unica che avevano corredato mostre epocali di cui sembrava, però, non restare alcun ricordo a distanza di decenni e decenni.

Ma lui l’aveva trovato quel cataloghino con un paio di foto sbiadite al limite dell’illeggibile e da lì aveva tratto deduzioni fondamentali per la ricostruzione di un artista, un periodo intero talvolta, come nel caso della Scuola Romana degli anni trenta e quaranta del Novecento di cui ora si sa tutto ma all’epoca mi sembrava non si sapesse nulla. Ma Maurizio Fagiolo era già sulle tracce di artisti precocemente dimenticati e ora, grazie soprattutto a lui, in corso di resurrezione.

Era aureolato della fama di formidabile filologo. Per molto tempo lo avevo sentito soltanto nominare ma non lo avevo mai visto. Né lui né il fratello Marcello. Ma ne avevo sentito parlare, appena entrato all’ Università di Roma come studente della Facoltà di Lettere, dal mio maestro Cesare Brandi.

Un giorno a lezione Brandi arriva e dice, come se noi studenti fossimo perfettamente edotti: “Certo che questo libro dei fratelli Fagiolo è un monumento di erudizione ma la tesi centrale no, cari ragazzi, proprio non regge”.

Io ancora non capivo bene cosa volesse dire “tesi centrale”. Pensavo che fosse l’ elaborato che si deve presentare per prendere la Laurea e che tra qualche anno avrei fatto anche io qualcosa di simile.

 Ma in quel caso la questione era ben diversa. Brandi, teorico dell’arte, con alle spalle una lunga e personale elaborazione di tipo filosofico sulla struttura e il senso dell’ opera d’ arte in sé e per sè, deplorava che questi giovani avessero proposto una lettura del Bernini, oggetto del loro libro pubblicato da Bulzoni l’ editore universitario per antonomasia, in una chiave totalmente estranea al suo sommo pensiero.

I due discoli interpretavano globalmente l’ opera di Gian Lorenzo Bernini ( solo alcuni decenni dopo Maurizio Fagiolo scrisse una biografia del maestro barocco spiegando che aveva scoperto come si dovesse dire Giovan Lorenzo e non Gian Lorenzo!) secondo una sorta di gigantesca metafora, quella ( mi scuso se semplifico) del Teatro. Il gran Teatro barocco. “Ma non c’entra niente col Bernini”, esclamava indignato Brandi.

Io provai allora una immediata e istintiva simpatia per quei due rivoltosi. Seppi poi che Maurizio era il più grande e Marcello un po’ più giovane. Due anni appena di differenza tra l’ uno e l’altro e entrambi gravitanti o provenienti dalla cerchia di Giulio Carlo Argan, il maestro più autorevole dell’ Università di Roma in quel tempo, con cui Marcello mantenne poi un rapporto di affettuoso e stretto discepolato culminato nella meritatissima Cattedra Universitaria, mentre Maurizio non riuscì ( o non volle, non l’ ho mai capito bene) mantenere un contatto felice e continuativo con l’ Università.

 Seppi che erano figli di Mario dell’ Arco, un poeta romanesco che per me, cresciuto nel culto del Belli, era molto stimabile e rispettabile anche se poco conoscevo di lui.

Dunque questi due figli, pensai, saranno dei grandi come è lui, Mario.

Li conobbi, poi, e quasi nello stesso momento ma molti anni dopo, e la sensazione che, sia pur in maniere molto differenti, fossero ben degni di quel singolare padre ce la ebbi subito.

 Maurizio poi era un autentico ciclone e tanto più la cosa mi impressionava, quando cominciai a conoscerlo bene e a sentirmi suo vero amico, sapendo che era rimasto afflitto dai postumi di una poliomielite infantile e che soffriva gravemente di cuore.

 Non so se proprio per questo o malgrado questo, era il vitalismo fatto persona.

Vitale, nel senso più bello della parola, su tutto.

 Conoscitore infaticabile, lettore insaziabile, autore prolifico oltre ogni limite ( fino a fargli commettere anche sviste che io considero di nessun peso per la definizione della sua figura di cospicuo studioso ma che gli hanno nuociuto nel rafforzamento della sua pur solida fama), seduttore accanito, amico fedele e sollecito, curioso di mille cose, esploratore indefesso della storia sempre scrupoloso nella documentazione e nella analisi delle fonti.

E così lo vedevo nello Studio di palazzo Rondanini, sollecito con tutti non sapendo mai a chi dare i resti.

Prima sembrava che non avesse nemmeno una sedia dove mettersi un po’ quieto. Poi, di colpo, si metteva alla macchina da scrivere e in mezz’ora più o meno a velocità supersonica tirava fuori articoli perfetti, recensioni circostanziate, saggetti gremiti di notizie e precisazioni. Sempre alternando interventi sul Seicento e sul Novecento, le due corde che sapeva suonare con perfetta equivalenza e competenza. Una volta era de Chirico di cui aveva capito perfettamente il soggetto di un quadro su cui si erano rotti la testa i più insigni studiosi senza capirci niente; un’ altra volta aveva catalogato a puntino tutta l’ opera dell’ultimo  e sconosciuto allievo di Pietro da Cortona di cui si era vagamente sentito parlare nel corso degli ultimi tre secoli. Una volta era una precisazione definitiva su un pittore della scuola romana da tutti giudicato un minore insignificante e che si scopriva maestro notevole. Un’ altra volta ancora era la scoperta dell’ ennesima incisione raffigurante una festa barocca di cui Maurizio sapeva tutto e tutto aveva catalogato e ordinato inaugurando un vero e proprio nuovo filone di studi coltivato anche, con altrettanta competenza e dedizione dal fratello Marcello.

 Una volta sono stato io e non me lo scorderò mai.

 Ero ai miei esordi e avevo organizzato una mostra, era la prima volta nella mia vita, nella quale riponevo le più grandi speranze per farmi un buon nome ed entrare anche io nell’agone degli esperti e conoscitori.

 Maurizio scrisse immediatamente una recensione di quella mostra, curata da un perfetto sconosciuto e tutto sommato di interesse alquanto marginale, che fu per me il più grande premio che avessi potuto sperare e che forse ho mai più ricevuto nella vita. Come suo solito impiegò non più di una ventina di minuti per mettere insieme un articolo dove dimostrava di conoscere cose che io ero convinto da aver scoperto per primo.

 Mi insegnò implicitamente come si fa, e ho continuato a seguirlo per tutta la vita. E per molto tempo quasi non c’è stato giorno che non andassi a trovare i due Maurizi nello studio di Palazzo Rondanini.

 Poi lui, e Marini con lui, lo lasciò quello studio, come ha lasciato tante cose nella sua vita, sempre fedele a se stesso e sempre passando ad altro.

 Gli studi gli debbono molto. Basti pensare a de Chirico. Quando uscì nel 1985 la raccolta degli scritti presso Einaudi curata da Maurizio Fagiolo col titolo magistrale Il meccanismo del pensiero, capii che la sua smania accumulatoria, in questo e in mille altri casi diversi, sarebbe stata di sommo giovamento a quelli venuti dopo.

 Con l’ augurio che se lo ricordassero.