di Sara MAGISTER
Non c’era migliore occasione che il Giubileo della Speranza, per mettere di nuovo al centro un capolavoro concepito per un altro Giubileo, quello della svolta di un nuovo secolo, il 1600, manifesto pubblico della Chiesa di Roma rinnovata dal Concilio di Trento.
Si tratta della Vocazione di Matteo, dipinta dal Caravaggio per la cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi a Roma tra l’estate del 1599 e quella del 1600. Pietra miliare sia per la storia dell’arte che per la Fede cattolica, l’opera, infatti, punta dritto al tema della conversione, perno fondante di ogni pellegrinaggio giubilare.
Ed è anche per questo che l’Archivio di Stato di Roma ha voluto promuovere un incontro-dibattito tra studiosi e pubblico, lo scorso 15 aprile, nella Sala Alessandrina del complesso di Sant’Ivo alla Sapienza. L’evento ha messo a confronto le recenti letture sulla tela, attorno alla quale rimangono tuttora aperte molte questioni, e ha visto la partecipazione di illustri relatori come Sandro Corradini, Michele Di Sivo, Claudio Falcucci, Riccardo Gandolfi, Massimo Moretti e Alessandro Zuccari, con gli interventi dal pubblico di Stefania Macioce e Rossella Vodret.
Non è un caso se il direttore dell’ASR e storico dell’arte, Riccardo Gandolfi, abbia evidenziato nel suo intervento finale la concezione della tela come una pastorale giubilare per immagini, chiedendosi tuttavia come poteva essere eventualmente chiara ed efficace, per il pubblico del tempo, l’ipotesi che identifica Matteo nel ragazzo curvo, silenzioso, quasi nascosto, con lo sguardo fisso sui soldi. Perché, quando una tela a soggetto religioso era destinata a una collocazione pubblica, necessariamente il suo messaggio catechetico doveva essere chiaro e accessibile a tutti. Ma è proprio questo il punto, che rende la Vocazione capace di letteralmente inchiodare ancora oggi su di sé gli occhi dello spettatore, richiamandolo in forma diretta e attiva alla propria responsabilità.
Non ci si dilunga qui sulle argomentazioni che portano all’identificazione di Matteo nel giovane gabelliere curvo sui soldi che sta raccogliendo, e alla conferma che tale scelta era più facilmente compresa dal pubblico dell’epoca. Per queste si rimanda al video qui segnalato, alla monografia pubblicata da chi scrive (Caravaggio, il vero Matteo. I capolavori per San Luigi dei Francesi, storia e significato, Roma, Campisano Editore, 2020), e agli articoli editi in questa stessa testata: Caravaggio mania o manie?
– Se testo e immagine non quadrano. Sulla Vocazione Contarelli e il convegno L’Enigma Caravaggio (parte 1: documenti e biografie)
– Se l’immagine e l’occhio non quadrano. Sulla Vocazione Contarelli e il convegno L’Enigma Caravaggio (parte 2: indagini diagnostiche)
Si coglie però l’occasione per aggiungere un ulteriore tassello, non da poco, a favore di questa tesi, per il quale ringrazio la generosa segnalazione dell’ingegnere Luciano Valle. Sul lato del tavolo, non a caso proprio alla destra del giovane gabelliere, Caravaggio evidenza con una linea di luce la presenza di un piccolo cassetto semiaperto.
Considerato che le indicazioni iconografiche inserite nel contratto di commissione della tela richiedevano la raffigurazione di un «salone ad uso di gabella con diverse robbe che convengono a tal officio con un banco come usano i gabellieri con libri, et danari»[1], verosimilmente l’inserimento di quel cassetto è un attributo intenzionale, volto ad aiutare lo spettatore a identificare non solo la gabella, ma anche lo stesso gabelliere.
Sulla base di alcuni primi confronti forniti dall’ing. Valle, e che sono in corso di approfondimento da parte di chi scrive, si tratta verosimilmente di un monetiere, pronto per essere agevolmente aperto dalla mano destra dell’esattore, per riporvi appunto le monete appena ricevute dal nobile barbato.

Tornando invece al valore pastorale dell’opera, su di un fatto siamo tutti d’accordo: Caravaggio e la sua committenza hanno voluto puntare esplicitamente su di un tema giubilare, e sul pubblico dei pellegrini dell’Anno Santo. I quali giungono a Roma, ancora oggi, per completare un percorso di conversione. Quale migliore esempio di Matteo, dunque, per dimostrare che «Nessuno deve disperare della salvezza, se si converte a vita migliore: come lui stesso da pubblicano fu mutato improvvisamente in apostolo»[2]?
Ma c’è da chiedersi dove sarebbe il ruolo didattico-pastorale di quest’opera, se Matteo (barbato) viene presentato quando ha già risposto alla chiamata.
Perché, come dimostra peraltro anche l’immagine shock del Martirio che gli sta di fronte nella medesima cappella, si evince che la committenza e l’artista ritenevano che il messaggio didattico di un’opera fosse tanto più efficace quanto più riusciva a far sentire lo stesso spettatore protagonista attivo della storia e del messaggio raccontati. Questo, d’altra parte, è quanto chiedeva la Chiesa del Concilio di Trento, e che viene messo in atto dall’arte barocca, di cui Caravaggio è la pietra fondante.
A questo punto, un Matteo maturo che ha già risposto, presenta di fatto come già compiuta la soluzione del problema. Mentre la conversione è sempre un problema, perché implica una scelta attiva, concreta e volontaria rispetto a una chiamata. Non c’è predestinazione, infatti, bensì una compartecipazione della Grazia con il libero arbitrio, concetto che all’epoca era ben noto al grande pubblico perché continuamente ribadito in forma esplicita nella predicazione della Chiesa Cattolica. Invece, proprio il fatto che Matteo qui è colto (di sorpresa) da una luce e da una voce inaspettate nel mentre è ancora invischiato nei beni del mondo, rende il suo modello pastorale ben più efficace: la risposta deve ancora essere data, rendendo evidente quanto sia stato difficile anche per lui l’abbandonare quella comfort zone di una vita sbagliata. E, soprattutto, induce chi guarda a farsi anch’egli attivamente la domanda “E io, cosa voglio fare della mia vita?”.
Così nell’anno del 1600 leggeva questa scena Marzio Milesi, un devoto giureconsulto e amico del Merisi: «E già veggio il mio Cristo, ch’a chiamare / e publicani venne, e peccatori, / come al primo apparir, sgombra, e rischiara / la mente di Mattheo, ch’ingorda, e cieca / si stava al mondo in duri lacci avvolta»[3].
La soluzione al problema, invece, sta nelle altre due tele del ciclo: proprio quel ragazzo avido e nascosto nel buio, additato da tutti, ebbene proprio lui diventerà discepolo, evangelista, martire. Modello di un’esistenza iniziata male, come tante altre, ma che ora vive nell’eterna gloria della Luce del Signore. Perché nessuno, nemmeno il peggiore peccatore, deve disperare della salvezza, se si converte a vita migliore.
Sara MAGISTER Roma 6 Luglio 2025
NOTE