Caravaggio e Paolo V “immagine del potere”. Cosa può essere accaduto il 26 Agosto 1605.

di Francesca SARACENO

26 AGOSTO 1605, UN INCONTRO. FORSE DUE. “SUA MAESTÀ” …IL PAPA.

Fig. 1 Caravaggio (attr.), Ritratto di Paolo V, 1605, collezione privata, Palazzo Borghese, Roma.

Proviamo a immaginare, per un attimo, Caravaggio al cospetto di Paolo V (fig. 1); proprio nel momento in cui il “primo ministro di Dio”, appena designato, gli piantò addosso quegli occhietti piccoli e pungenti da ritrarre perché ne consegnasse la memoria all’eternità. La vertigine, il brivido, magari un impercettibile tremore nelle mani. Sostenere lo sguardo di un papa, anche se solo per il tempo necessario a tratteggiarne il volto, non dev’essere stata esperienza priva di ripercussioni emotive; neanche per il fiero Michelangelo da Caravaggio che non abbassava lo sguardo davanti a nessuno, ma davanti al papa, probabilmente, dovette.

Cammillo Borghese fu elevato al soglio pontificio nel maggio del 1605 e, il 18 luglio successivo, creò cardinale il nipote, Scipione Caffarelli (fig. 2) – figlio della sorella Ortensia – conferendogli numerose importanti investiture all’interno della Curia romana; giusto in tempo perché potesse gestire, tra le prime incombenze, una spinosa controversia tra il notaio del Vicario di Roma e il pittore più celebre in città.

Fig. 2 Ottavio Leoni, Ritratto del cardinale Scipione Borghese 1577-1633, Museo Fesch, Ajaccio, Corsica

Una bella gatta da pelare, che però, verosimilmente, si rivelò una ghiotta opportunità, per il novello cardinale, di assecondare la sua passione per il collezionismo di opere d’arte. E, per l’inguaiato ma celebratissimo Caravaggio, la possibilità – affatto scontata – di essere ammesso alla presenza del papa appena eletto.

Come sostiene Federica Papi (2011), Scipione Borghese poteva aver già sentito parlare di Caravaggio mentre era ancora studente universitario a Perugia, forse proprio da quel Cesare Crispolti, membro – e successivamente, proprio dal 1605 – principe dell’Accademia degli Insensati, che possedeva una delle diverse redazioni del Mondafrutto. Ma Caravaggio, probabilmente, incontrò di persona il cardinal nepote (e poi il pontefice) solo il 26 agosto del 1605, in occasione della ratifica della “pace” con il notaio Mariano Pasqualoni di Accumoli, che circa un mese prima aveva aggredito e ferito in Piazza Navona. A quella “pax” l’artista era pervenuto, dopo le settimane di “auto-esilio” a Genova, quasi certamente grazie all’intercessione dei suoi protettori storici; non ultimo il cardinale Francesco Maria del Monte, la cui tutela verso il Merisi si era spinta ben oltre il periodo di permanenza alla sua corte. Fu Maurizio Calvesi, nel 1994, a ipotizzare che proprio il prelato, primo mecenate del lombardo, avesse – per così dire – messo una buona parola per il suo protetto con il nuovo potentissimo cardinal nepote, del quale conosceva la passione per l’arte, allettandolo con la possibilità di ricevere i servigi del pittore più quotato del momento, approfittando del fatto che si trovasse in gravi ambasce e non era, quindi, nella posizione di negoziare o mercanteggiare con il dignitario da cui dipendeva la sua libertà; al contempo, del Monte potrebbe aver consigliato allo stesso pittore di conquistarsi il favore di colui che era anche Segretario particolare di sua Santità, presentandosi al Palazzo di Monte Cavallo al Quirinale con un… “pensierino” dei suoi .

Fig. 3 Caravaggio, San Girolamo scrivente 1605, Galleria Borghese, Roma

Sarà per questo, forse, che nella Sala del Sileno in Galleria Borghese, oggi si trova, tra gli altri “Caravaggio”, quell’incredibile San Girolamo scrivente (fig. 3) che, come osservò Calvesi, nonostante la straordinaria bellezza, manifesta un’esecuzione affrettata e un senso generale di “non finito”; probabilmente perché, se davvero si trattò di un omaggio per il nipote del pontefice, Caravaggio dovette approntare il dipinto nei pochi giorni intercorsi tra il suo rientro a Roma da Genova e il previsto incontro con il potente cardinale.

E se il “pensierino”, com’è presumibile, fu gradito, non sorprenderebbe che, subito dopo, Scipione Borghese abbia potuto convincere il “gran zio” (così definito dallo scrittore Scipione Francucci nel 1613) a lasciarsi immortalare proprio da quel pittore ingovernabile ma senza dubbio talentuoso, nel dipinto che sarebbe divenuto prototipo, e direi quasi icona, della ritrattistica papale negli anni a venire. D’altra parte era tradizione che il primo ritratto ufficiale del pontefice venisse eseguito dal miglior pittore su piazza, com’era avvenuto ad esempio per Giulio II, ritratto a suo tempo da Raffaello, o per Clemente VII da Sebastiano del Piombo, o Paolo III da Tiziano. A quel modello primario si sarebbero rifatti tutti gli altri artisti che si fossero cimentati in un ritratto di quel papa. E i numerosi ritratti di Paolo V conosciuti dimostrano che quello del Caravaggio fu il modello “campione” (fig. 4-5-6).

Nonostante le testimonianze pittoriche che ci sono pervenute siano veramente poche e non del tutto certe, Caravaggio doveva avere una consolidata esperienza nella ritrattistica, avendo iniziato la sua carriera romana proprio dipingendo “teste” nelle botteghe presso cui prestò servizio, nonché i ritratti del priore dell’Ospedale della consolazione, al quale accenna Malvasia (1678), quello di Maffeo Barberini ancora cardinale, e quello di Cortigiana (fig. 7) eseguito per Giulio Strozzi.

Fig. 7 Caravaggio (attr.), Ritratto di Cortigiana 1601 ca., già Kaiser Friedrich-Museum, Berlino.

Per non parlare della trattazione assolutamente realistica di ogni personaggio da lui dipinto. E in tutti questi visi Caravaggio, ogni volta, cercò principalmente la verità, non solo nella resa naturalistica delle fattezze dipingendo da modello (per quanto possibile, senza contravvenire al divieto di raffigurare soggetti sacri con volti riconoscibili), ma anche e soprattutto nei “moti dell’anima”. Qui però, si trattava di ritrarre un personaggio la cui levatura, in teoria, non avrebbe dovuto indurre nel pittore l’audacia irriverente di una indagine così “intima”. Né, a ben vedere, la possibilità concreta di ottenere un risultato ottimale, per una questione, più semplicemente, di tempistiche. Ma noi sappiamo – e immagino lo avesse intuito anche Scipione Borghese – di aver a che fare con un vero genio della pittura, e dunque anche il fattore “tempo” si rivelò relativo.

Che il Caravaggio abbia potuto incontrare anche Paolo V già in quella particolare occasione al Quirinale è ipotesi (F. Papi, 2011) suffragata da alcuni documenti ritrovati tra i volumi della RCA (Reverenda Camera Apostolica) e, per la precisione, tra i faldoni del 1605 del notaio Giacomo Bulgarini, dove si trovano scritture firmate dal pontefice riportanti data, che lo collocano sicuramente al palazzo di Monte Cavallo dal 16 luglio al 7 ottobre; dunque, il 26 agosto, quando venne ratificata la pace tra Caravaggio e Pasqualoni, il papa era materialmente a palazzo. Dove, peraltro, risiedeva anche il nipote, fresco cardinale, Scipione Borghese, che non aveva ancora una dimora personale, e che evidentemente espletava in quella sede anche le sue funzioni curiali.  Inoltre, fra gli arredi della “Foreria” apostolica, inventariati in vista dell’allargamento della residenza pontificia, figura una “sedia di velluto rosso con fusto di canna d’India” che potrebbe essere proprio quella su cui si accomodò Paolo V per il suo primo ritratto ufficiale da pontefice.

Un papa in sedia che però ha tutto il piglio del monarca in trono. O almeno così, credo, doveva averlo percepito il Caravaggio. Effetto catturato e reso, dall’artista, praticamente al primo sguardo. Un capolavoro di efficienza pittorica, questo dipinto che oggi potremmo definire “fast”: veloce. Veloce nella commissione, veloce nell’ideazione, veloce nell’esecuzione. Si trattava del pontefice, non di un modello popolano qualunque; di certo non aveva ore da spendere in posa, ed era soprattutto l’uomo politico più potente, il capo di stato a cui principi e sovrani si inchinavano, ago della bilancia degli equilibri geopolitici nel cuore della vecchia Europa.

L’impresa, per il Merisi, non era da poco. Non avrebbe mai pensato a un ritratto “classico”, sul modello delle rappresentazioni rinascimentali in cui il papa risulta essere sostanzialmente un simbolo, un’icona di fede. Caravaggio vive il secolo in cui, secondo Paolo Prodi (2014), si assiste alla “fuoriuscita del sacro dalla quotidianità storico-filologica” per virare, “sotto l’influsso della rivoluzione scientifica”, verso “la sacralizzazione della quotidianità stessa”. E la “quotidianità” ineludibile di un pontefice, nell’anno del Signore 1605, era quella percepita dai fedeli, che – di fatto – erano anche suoi sudditi. Su queste basi, quello che forse Caravaggio si proponeva, era quindi “carpire” alla massima autorità della Chiesa di Roma l’espressione di un Cesare. Per provare a comprendere meglio con che “animo” il maestro lombardo si accinse a questa difficile prova, occorre forse considerare il rapporto particolare che egli aveva con l’autorità, in senso lato.

Alla data del 1605 Caravaggio aveva già avuto più volte l’occasione di confrontarsi con figure di potenti, e non solo per motivi professionali. Nella sua breve ma intensissima vita egli ebbe esperienza diversificata del potere nelle sue varie espressioni: quello incarnato dai ricchi e facoltosi committenti dei suoi dipinti e quello esercitato dalle forze dell’ordine del suo tempo. Il primo lo inseguiva, dal secondo continuava a sfuggire.

Fin dalla sua giovinezza fu attratto dall’autorità che deriva dalla ricchezza e dai nobili natali; una forma di potere che lo affascinava perché rappresentava per lui il riscatto sociale, l’elevazione da una condizione modesta e anonima, l’ingresso nel gran mondo di uomini colti e alti prelati che gli avrebbe assicurato successo, fama e “onorabilità”. Posizione sociale, privilegi; questo il genere di potere che egli rincorreva e lusingava a colpi di canestre, ritratti e pale d’altare. E mentre blandiva questo, si scontrava violentemente con quello ben più severo rappresentato dalla legge. Cresciuto in una società e in un’epoca in cui l’esercizio “esecutivo” del potere veniva espletato in maniera sbrigativa e coercitiva, Caravaggio probabilmente lo viveva come imposizione, prevaricazione, punizione, morte. Ed esso si accompagnava sempre a uno sferragliare perentorio d’armature, spade, elmi, grate, serrature…

Così, infatti, lo troviamo rappresentato in molti dipinti del maestro: ferroso, rugginoso, tronfio e impennacchiato. Il potere era per Caravaggio la tracotanza di un “pericolo incombente” a cui l’uomo della strada doveva sfuggire; a meno che non avesse protezioni importanti, come le aveva lui. Le sue opere trasudano di questo senso costante di sopraffazione: la Cattura di Cristo nell’orto di Dublino, L’incoronazione di Spine di Vienna, fino alla maltese Decollazione di San Giovanni Battista, non fanno che accentuare quel senso di inferiorità e impotenza di fronte all’autorità “con delega alla punizione”. Ma in ogni caso, in tutti questi dipinti è percepibile, insieme all’insofferenza, il riconoscimento “giuridico” dell’autorità da parte dell’artista.  Questo, ovviamente, doveva essere tanto più vero trovandosi al cospetto di un pontefice, depositario supremo della giustizia spirituale e di quella temporale. E Camillo Borghese, evidentemente, doveva essersi mostrato fin da subito tanto cosciente della sua ineludibile posizione di potere, quanto curioso nei confronti di quell’artista lombardo del quale chissà in che termini gli avevano parlato. Quello sguardo interrogativo e arguto, fu più che sufficiente al Caravaggio per cogliere, in pochissimo tempo, la vera anima di “sua maestà” …il papa.

Gli ultimi studi sul dipinto, pubblicati nel 2011 dall’ingegner Claudio Falcucci, coadiuvato da Claudia Maura, inducono a pensare che l’esecuzione del Ritratto di Paolo V, oggi in collezione Borghese a Roma, si svolse probabilmente in due momenti, ma comunque in un arco temporale piuttosto esiguo; lo confermerebbero alcuni particolari che suggeriscono una diversa trattazione del volto del pontefice rispetto al resto della figura. La materia pittorica, nella parte sottostante al volto, riporta pennellate lunghe e sicure, una tavolozza brillante, diversi “pentimenti”, ma anche una certa rigidità generale che si nota dal busto in giù.

Nella prima fase dell’esecuzione, invece, Caravaggio dovette probabilmente tratteggiare il viso di Paolo V, delimitandone, inizialmente, le zone cardine attraverso numerose, sottili e precise incisioni, l’orecchio sinistro, il naso, il taglio degli occhi, per poi catturare con estrema accuratezza lineamenti, particolari, incarnato, zone di luce e ombreggiature. E, in effetti, non solo all’esame ravvicinato, il volto del pontefice risulta definito nei minimi dettagli rispetto al resto della figura che, stando alle rilevazioni diagnostiche, seppur risultando di altissima qualità, fu eseguita sulla scorta di un disegno più sbrigativo. Segno che, molto probabilmente, già dalla prima (e forse unica) seduta di posa, il volto del papa dovette essere definito totalmente, mentre il resto della figura fu abbozzato velocemente dall’artista, stabilendone la spazialità nei punti essenziali con alcune incisioni, per poi essere completato in studio.

L’obbiettivo del Caravaggio, nell’immediato, era probabilmente, fissare anzitutto nell’espressione enigmatica di quel volto, il valore della missione, religiosa e politica, che quell’uomo rappresentava. Il naturalismo caravaggesco era chiamato all’ardua sfida di eternare, esaltandoli, il ministro di Dio e il capo di stato in un’unica persona; il senso “universale”, di una missione che aveva carattere assoluto. E per farlo, Caravaggio decise di escludere ogni accenno di contesto scenico; nessun elemento architettonico, nessuna ambientazione debitamente “apparecchiata”, niente che potesse distrarre l’attenzione del riguardante. Un uomo solo, in mezzo al nulla. E quel “nulla” è il “tutto”; l’universo indistinto sul quale domina – in senso assoluto – la personificazione “terrena” dell’autorità divina.

La figura imponente del pontefice invade lo spazio pittorico emergendo come un’epifania di luce da un ambiente buio; solo due fonti luminose a definire l’ambiente e l’uomo al suo centro. La prima, arriva da una presumibile apertura posta in alto, investendo quasi frontalmente la figura del pontefice; l’altra, dietro, filtra da una porta aperta a rivelare la parete di fondo e il pavimento della sala. Unica concessione, questa, a un’idea di prospettiva e profondità. Ma basta e avanza. L’effetto “totalizzante” è palese e immediato. Una soluzione che, di lì a poco, Caravaggio ripeterà, con successo, nella pala della Madonna con Sant’Anna, per l’altare della congregazione dei Palafrenieri. Inutile e superfluo ogni elemento decorativo o allegorico. Costui è “il papa”: misericordia e rigore, diplomazia e fermezza.

Ma il pittore che a quel papa, ora, ghermisce anima e sentimenti è il maestro del naturalismo estremo, e prima ancora del pontefice, egli vede l’uomo: creatura terrena e materiale, fatta di carne e sangue. Imperfetta nella sua forma tarchiata, nelle mani rotonde, nelle gote cadenti, quella figura umana palesa i segni inequivocabili di una vita agiata e priva di rinunce, in cui diritto e autorità hanno sottomesso la moderazione. Un’interpretazione, quella del Merisi, decisamente audace, per certi versi spietata, se pensiamo che aveva davanti colui dal quale dipendeva quasi totalmente il suo futuro. Eppure l’impatto visivo di questo ritratto restituisce, istantanea e primaria, l’immagine del potere, e questo pur nella totale assenza di elementi decorativi o insegne distintive; anzi, forse proprio per questo l’autorità “temporale” del pontefice prevale all’osservazione.

Paolo V viene ritratto su una sedia che – come già accennato – non è quella pontificale, ma una meno nobile e meno “ufficiale” (le prime sedie appositamente costruite per Paolo V, con le sue insegne, non vengono menzionate nei documenti prima del 1607), e sulla mano destra non ha l’anello piscatorio. Peraltro il pontefice, non aveva ancora preso dimora in Vaticano né preso possesso della sua “cattedra” in Laterano. Nel complesso, sembra una posa approntata nella residenza papale corrente, così, sul momento, senza un’effettiva preparazione e in maniera del tutto informale, segno che il dipinto probabilmente fu eseguito nei primi mesi successivi all’elezione; forse davvero pochissimo tempo dopo l’incontro del Caravaggio con Scipione Borghese il 26 agosto, se non addirittura quel giorno stesso.

Ma se il volto del pontefice fu certamente ritratto “dal vivo”, il resto della figura – invece –  fu verosimilmente eseguito nell’atelier del pittore, ricavato forse in una delle sale della residenza di Andrea Ruffetti, il giureconsulto presso il quale l’artista aveva trovato ospitalità dopo lo sfratto dalla casa di vicolo San Biagio.

Caravaggio aveva in un certo senso “codificato” un modus operandi che necessitava di uno studio appositamente organizzato affinché le fonti di luce e le zone d’ombra fossero funzionali all’effetto potente della sua pittura e, al contempo, gli rendessero agevole il lavoro di strutturazione degli elementi compositivi sulla preparazione della tela.

Dalle rilevazioni dell’ingegner Falcucci si evince che l’ampio uso di incisioni per definire gli spazi e la figura fosse utile all’artista per dipingere il soggetto in condizioni di illuminazione diversificata tra ombra, penombra e zone di luce piena, come doveva permettere sia lo studio in vicolo San Biagio che, presumibilmente, anche quello allestito presso l’avvocato Ruffetti. Ma, dovendo definire il volto del pontefice in brevissimo tempo, e non potendo certo pretendere che fosse il papa a recarsi nello studio del pittore per la posa, è più probabile che il Ritratto di Paolo V, almeno nella parte superiore, sia stato eseguito in una sala della residenza di Monte Cavallo al Quirinale, individuata, verosimilmente, nella Sala attualmente detta “del Bronzino” (fig. 8);

Fig. 8 Sala del Bronzino, Palazzo del Quirinale, Roma.
Fig. 9 Porta di accesso alla Sala del Bronzino, Palazzo del Quirinale, Roma.

uno spazio che, per la sua conformazione, sembra adattarsi perfettamente al metodo operativo del Merisi e corrispondere, nella risultanza luministica, a quanto appare, effettivamente, nel dipinto di casa Borghese.

Questa sala, infatti, presenta un’apertura rettangolare sopra la porta di accesso (fig. 9) che illumina l’ambiente in perpendicolare rispetto alla parete, e crea ai lati due zone in penombra che sono esattamente adattabili alle condizioni di illuminazione in cui amava lavorare il Caravaggio.

Posizionando la sedia sulla quale fu ritratto il pontefice sotto la luce che filtrava dall’apertura sopra la porta, e il cavalletto, invece, in una delle zone in penombra (verosimilmente quella sulla destra entrando), scrive Falcucci:

 

“sul volto di Paolo V si sarebbero proiettate le ombre effettivamente rappresentate nel dipinto, la tela sarebbe stata in penombra e in condizioni di illuminazione radente e sullo sfondo alle spalle del ritratto, si sarebbe vista l’apertura della porta di accesso alla Sala degli Arazzi di Lille.”
Fig. 10 Loggia d’Onore, Palazzo del Quirinale, Roma

L’ipotesi che la sala di posa fosse effettivamente quella “del Bronzino” sarebbe supportata anche dal “riflesso di luce sul pomo dello schienale della sedia, che riproduce una fonte luminosa a forma di rettangolo sormontato da un arco” (Falcucci, 2011); il che corrisponde esattamente all’apertura soprastante la porta di ingresso nella sala suddetta, da cui traspare l’arco di uno dei finestroni di fronte alla porta, nella Loggia d’Onore del Palazzo (fig. 10).

Le stesse condizioni di illuminazione ricavate in quella sala del Quirinale (o quanto meno molto simili), dovevano essere riproducibili dal Merisi nello studio in casa Ruffetti, dove è presumibile abbia dipinto il resto della figura del pontefice. Figura che, sebbene investita da una luce potente che la impone all’osservatore, oggettivamente appare piuttosto fissa, contratta, quasi una “natura morta”, rispetto alla “vita” che palpita sul volto di Paolo V; e non solo perché si tratta di una figura statica in quanto seduta. La mozzetta rossa del pontefice, in particolare, pur magistralmente resa nella preziosità del velluto, sembra “contenerlo” come un involucro, non evidenzia la forma delle spalle ma cade piuttosto “lineare”; e questo probabilmente perché il soggetto non era materialmente davanti all’artista mentre lo dipingeva. Dunque si può immaginare che egli dovette servirsi di un manichino, o comunque di una qualche forma di riempimento delle vesti che, per quanto sapientemente costruito, non avrebbe potuto rendere l’autenticità di un corpo reale.

Caravaggio, però, riesce a mitigare questa rigidità morfologica ammorbidendo la mozzetta nella parte inferiore lavorando sulle pieghe del velluto con il suo impareggiabile panneggio in chiaro-scuro. Allo stesso modo, la lunghezza e la posizione delle braccia del pontefice, che di fatto possiamo osservare meglio delineate solo sul lato sinistro, non presentano quella naturalezza volumetrica che solitamente caratterizza la trattazione dei corpi in Caravaggio.

La mano destra del papa, soprattutto, sembra fissata in posizione sul bracciolo ma senza quella continuità plastica che dovrebbe logicamente legarla al presumibile braccio sotto la mozzetta. Il maestro lombardo riesce comunque a ingannare il riguardante con una percezione d’insieme armonica, attraverso le lunghe pennellate che solcano la cotta bianca e la felice soluzione coloristica che definisce la seta della veste sottostante, ottenuta sfruttando l’ocra della preparazione di fondo, e dalla quale il piede destro del pontefice si affaccia fasciato di velluto rosso come una sorta di “traguardo compositivo”, a chiudere questo viaggio ottico in cui il Merisi ci ha ingegnosamente guidati.

Fig. 11 Caravaggio, Ritratto di Alof de Wignacourt, 1607-1608, Museo del Louvre, Parigi.

A riprova che questo genere di impostazione pittorica nell’esecuzione di ritratti di personaggi autorevoli, fosse particolarmente efficace, pochi anni dopo, l’artista lombardo si ritrovò a ripetere un’analoga esperienza artistica – sia tecnica che concettuale – anche a Malta, con un altro personaggio altamente rappresentativo di un ruolo spirituale e istituzionale; un uomo anch’egli “al comando” più che “al servizio”. E per tale motivo, l’opera che ne derivò, presenta non poche attinenze con il dipinto in cui è raffigurato Paolo V. Nel Ritratto di Alof de Wignacourt (fig. 11), infatti, al di là della presenza del paggio, la trattazione del soggetto risulta piuttosto simile, sia nell’ambientazione priva di elementi strutturali, che catalizza l’attenzione sul protagonista del dipinto, sia nell’espressione del volto; il che, seppur nell’assoluta aderenza al vero, restituisce complessivamente, un’immagine rivelatoria, quasi sacrale.

La differenza tra i ritratti di Wignacourt e Paolo V è nell’analisi concettuale della funzione del potere; nella resa, attraverso l’espressione dei volti, della gerarchia dei rispettivi ruoli e degli alti uffici ad essi correlati: pensiero e azione. Paolo V la mente, Alof de Wignacourt il braccio; entrambi estrinsecazioni fattive del potere divino senza tempo e senza luogo, eppure entrambi assolutamente “umani”, e dunque presenti, attuali.

Caravaggio conferisce al Gran Maestro le fattezze e la posa di un “semi-dio”, un uomo d’armi vigoroso, nobile e fiero. Lo fa emergere fulgido e solenne come un’alba di gloria, anche in questo caso, da un fondo scuro, che sfuma progressivo verso un chiarore beneaugurante. E se a Paolo V, nell’estrema staticità della sua figura, mantiene il rigore vigile e l’ammonimento, a rimarcare la solidità sia della guida religiosa che del capo di stato, a Wignacourt tira fuori dal petto il sorriso gonfio d’orgoglio del condottiero, che incoraggia e rassicura le truppe. La postura rivolta a destra, quasi si incamminasse alla testa di un’armata, lo sguardo lungo dal lato opposto, nel ricordo dei suoi tanti trionfi, come a richiamare i soldati verso nuove vittorie.

Pare – tra l’altro – che anche in questo frangente maltese, Caravaggio si sia trovato a dipingere il volto del suo soggetto dal vivo mentre la parte inferiore della figura, costituita dall’armatura (secondo alcuni studi fuori misura rispetto alla statura reale del Gran Maestro), venne probabilmente eseguita priva del suo “contenuto umano”.

Come per la veste papale di Paolo V, Caravaggio tecnicamente trattò l’armatura del Balì di Gran Croce maltese come una natura morta delle sue, un oggetto di scena inanimato ma “parlante”, al quale adattò il volto e lo spirito di Alof de Wignacourt. L’involucro metallico che conteneva e tutelava lo spessore morale e la forza fisica, la sapienza e la saggezza, l’eleganza e l’autorità; virtù che, sia nel ritratto di Paolo V che in quello di Alof de Wignacourt, emergono tutte, essenzialmente, dal volto. É nel volto che si concentra la potenza comunicativa del ritratto, ed è nella trattazione del volto che Caravaggio manifesta la sua straordinaria capacità evocativa.

Per tale motivo, forse, il Ritratto di paolo V determina una svolta importante nella ritrattistica dei pontefici, fino a quel momento connotata dagli standard compositivi e iconografici con cui la figura del papa veniva tradizionalmente rappresentata, solitamente all’interno di un’ambientazione che richiamasse al suo ruolo istituzionale, spesso in atteggiamento benedicente, e corredata di elementi distintivi. Un’icona, per l’appunto; un oggetto didattico spirituale.

Ma c’è da credere che, se anche il Caravaggio avesse avuto tempo e modo per concepire e organizzare una composizione scenica più strutturata per il suo dipinto, non avrebbe di certo abdicato al chiaro intento di restituire anzitutto l’immagine “naturalistica” dell’uomo-papa; una dicotomia teoretica e sostanziale, risolta rubando al pontefice quello sguardo profondo e indagatore, fissando sulla tela quell’espressione circospetta e determinata insieme. Il campo lungo – e largo – della visione “umana” di un ruolo che andava ben oltre la missione religiosa. La consapevolezza del potere e la responsabilità della sua gestione, la guida spirituale e il monito dell’autorità.

Come già accennato all’inizio, al di là della sua innata protervia, questa innovazione concettuale nella raffigurazione di un pontefice in Caravaggio, va opportunamente contestualizzata e inserita nell’ambito della rivoluzione culturale che stava caratterizzando quel particolare periodo storico, in cui i movimenti intellettuali di impostazione scientifica, sostenevano, in ogni campo della conoscenza, metodologie di indagine esperienziali che stavano progressivamente soppiantando ogni forma di astrazione e idealizzazione. E Caravaggio stava assimilando ampiamente questa temperie culturale. Motivo per cui, anche la figura di un pontefice, come soggetto pittorico, non viene rappresentata dall’artista come una entità emblematica, depositaria di valori pedagogici assoluti, avulsa dal suo tempo, dal suo ambiente sociale e – in definitiva – dalla sua essenza umana. L’io umano e l’io istituzionale, in Caravaggio, diventano inscindibili, si generano e partecipano della stessa natura materiale, “esperibile,” e per questo l’artista può e deve indagarne spirito e intelletto, per coglierne l’unitarietà.

In tal modo, il Ritratto di Paolo V assume una leggibilità diversa, più empatica, ampia e profonda che, grazie alla straordinaria abilità del Caravaggio di catturarne l’intensità emotiva e intellettuale, riesce a suscitare un vero e proprio dialogo “interattivo” tra il riguardante e il soggetto pittorico, azzerando di fatto quella distanza di natura puramente estetica e idealizzata che, fino ad allora, aveva condizionato la ricezione di quel genere di ritratti in chiave essenzialmente metaforica e celebrativa. Una trattazione di impronta psicologica, quella del Merisi, che da quel momento in poi avrebbe fatto scuola, e non solo durante il pontificato di papa Borghese. Da Guido Reni, passando per Pietro da Cortona, fino a Diego Velàsquez e oltre, la raffigurazione dei pontefici riprese la novità proposta dal maestro lombardo con Paolo V, il cui ritratto divenne il prototipo di una nuova idea di indagine introspettiva, che restituisse l’anima di colui che Cristo aveva eletto “pescatore di anime”.

Francesca SARACENO  ©, Catania 24 Agosto 2022.

BIBLIOGRAFIA:

Federica Papi, Ritratto di Paolo V Borghese in Caravaggio a Roma. Una vita dal vero, Roma, De Luca Editori d’Arte, 2011, sezione Catalogo, pag. 225-226
Federica Papi, Claudio Falcucci, Sul “Ritratto di Paolo V” Borghese attribuito a Caravaggio: critica, analisi stilistica, ricerca documentaria e indagine tecnica su «Roma moderna e contemporanea», XIX, 2011, 2, pp. 355-372 ©2012 Università Roma Tre-CROMA. In Francesca Curti, Michele Di Sivo, Orietta Verdi (a cura di), «L’essercitio mio è di pittore». Caravaggio e l’ambiente artistico romano, RMC, anno XIX, 2011, fasc. 2 luglio-dicembre, pp. 311-354
Maurizio Calvesi, Tra vastità di orizzonti e puntuali prospettive. Il collezionismo di Scipione Borghese, dal Caravaggio al Reni al Bernini in Galleria Borghese, A. Coliva, Roma, 1994
Scipione Francucci, La Galleria dell’Illustrissimo e Reverendissimo Signor Scipione Cardinale Borghese cantata da S. Francucci, Di Roma il dì XVI luglio 1613 (in A.S.V., Fondo Borghese, Serie IV, 102)
Paolo Prodi, Arte e pietà nella chiesa tridentina (2014) in L’eterno e il tempo. Tra Michelangelo e Caravaggio, Silvana editoriale, 2018, p. 83-101