Caravaggio e Mr. Ripley: dove si dimostra che l’arte e la stessa personalità del Merisi siano talmente complesse e ricche di sfaccettature da prestarsi a diversi tipi di lettura.

di Sergio ROSSI

Caravaggio e Mr. Ripley

Agli ultimi Emmy Awards ha giustamente trionfato la miniserie Ripley, trasmessa su Netflix nel 2024 e che ha visto Steven Zaillian ottenere il premio come miglior regista, Andrew Scott come miglior attore protagonista, Dakota Fanning come migliore attrice non protagonista e Robert Elswit, quello per la fotografia.

Si tratta di un vero e proprio film diviso in otto capitoli, tratto da uno dei romanzi più famosi e giustamente celebrati di Patricia Highsmith (1921-1995), Il talento di mr. Ripley,[1] la cui trama la serie riprende fedelmente nelle linee essenziali: Tom Ripley è un piccolo truffatore che vive in uno squallido monocamera di New York e che Herbert Greenleaf, ricco imprenditore navale, scambia per un amico del figlio Richard, il quale vive ad Atrani, sulla costiera amalfitana, insieme alla fidanzata Marge, sperperando in pratica la fortuna paterna. A Ripley viene così chiesto, dietro lauto compenso, di recarsi in Italia per convincere il giovane rampollo a tornare in famiglia ed egli, naturalmente, non si lascia sfuggire l’inaspettata occasione. Rintracciato Richard, stabilisce con lui un rapporto ambiguo e quasi ossessivo finché quest’ultimo, anche sobillato da Marge, che non può sopportare l’intruso, non decide di liberarsi di lui. Ripley, scaricato anche da colui che lo aveva assunto, si rende conto che la sua bella vita sta per finire e così, approfittando di un breve viaggio a Sanremo e di una gita in barca, uccide Dicky, si appropria della sua identità, ne diventa l’alter ego, e di menzogna in menzogna e di fuga in fuga riesce comunque a farla sempre franca.

Il romanzo della Highsmith aveva già visto due adattamenti cinematografici, quello molto libero di René Clément del 1960 con Alain Delon e quello del 1999 di Antony Minghella, vero colossal (per non dire polpettone) hollywoodiano con un poco convinto e ancor meno convincente Matt Damon nella parte di Ripley, Jude Law e Gwyneth Paltrow; film a suo tempo accolto con eccessivo entusiasmo dalla critica perché assolutamente lontano dalle atmosfere noir e dai sottili risvolti psicologici del romanzo originale, che invece la serie di Netflix ricrea alla perfezione, grazie anche ad una magnifica fotografia in bianco e nero che rievoca tanto certi film americani degli Anni ’50 e ‘60 come i capolavori hitchcockiani L’altro uomo o Psyco, quanto i film italiani degli stessi anni, già ormai post neorealisti, da Bellissima di Visconti fino alla Dolce Vita di Fellini. Riguardo ai meritatissimi Emmy Awards alla nostra serie, di cui parlavo all’inizio, vi è da dire che Zaillian ha già vinto l’Oscar per la sceneggiatura di Schindler’s List di Steve Spielberg ed ha ricevuto altre quattro nomination per Risvegli, Gangs of New York, L’arte di vincere e The Irishman e nel 2016 ha diretto la splendida serie della B.B.C. The night off. Elswit, a sua volta, ha vinto l’Oscar alla fotografia per il Petroliere e ottenuto la Nomination per Good Night, and Good Luck, anch’esso in bianco e nero. Strettissimo è poi il suo sodalizio con Paul Thomas Anderson con cui ha lavorato ad altri cinque film oltre al Petroliere e tra questi due dei miei preferiti in assoluto, Magnolia e Ubriaco d’amore. Bravissimi anche l’attore irlandese Andrew Scott nel ruolo di Tom Ripley, viscido e sessualmente ambiguo,  manipolatore gelido e insinuante che considera l’omicidio una via per ottenere i propri scopi; e Dakota Fanning, già bambina prodigio e oggi una delle più apprezzate star di Hollywood, nel ruolo, apparentemente minore ma in realtà centrale nell’architettura del racconto, di Marge, la fidanzata del fatuo Richard e anche lei non meno fatua e superficiale: con l’espressione sempre tra lo stupito e il rassegnato, fintamente innamorata e preoccupata unicamente del suo libro su Atrani che riuscirà a terminare solo alla fine della serie.

Una menzione speciale va poi al piccolo “cammeo” di John Malcovich, già protagonista del Gioco di Ripley di Liliana Cavani e che qui compare nei panni di un finto mercante d’arte, dimostrando come ai grandi attori bastino pochi minuti per rendere indimenticabili i personaggi da loro interpretati. Se poi gli Emmy Awards prevedessero un premio alla location, questo sarebbe stato sicuramente stravinto dall’Italia. Infatti la nostra penisola è una delle grandi protagoniste del film, un’Italia lontanissima da quella da cartolina che tanto piace agli statunitensi, asciutta, quasi metafisica, e insieme barocca, decadente eppur sempre bellissima, dalle spiagge assolate di Atrani fino ai sontuosi palazzi veneziani dove Ripley soggiorna nel lusso nell’ultima puntata della serie.

Ma quello che ha trasformato Ripley da splendido prodotto cinematografico in un capolavoro assoluto è stato l’autentico colpo di genio di introdurre un personaggio che naturalmente nel romanzo della Highsmith che è del 1955 non poteva ancora esserci, cioè Caravaggio. E non poteva esserci perché la vera riscoperta del grande pittore lombardo era avvenuta solo pochissimo tempo prima con la mostra Caravaggio e i caravaggeschi, curata da Roberto Longhi e tenutasi al Palazzo Reale di Milano nella primavera del 1951 [2] ed era ancora circoscritta agli addetti ai lavori. Invece nella nostra serie Ripley quasi si identifica con il Merisi, assassino e fuggitivo come lui, seguendolo nei pellegrinaggi da Napoli a Roma alla Sicilia: un Caravaggio che anche in bianco e nero mostra tutta la forza evocatrice della sua luce e del suo magnetismo.

Si inizia con Le sette opere di Misericordia, si continua con San Luigi dei Francesi, la perduta Natività di Palermo, la Madonna dei Palafrenieri della Galleria Borghese; ma è con l’altro capolavoro dello stesso museo, il David e Golia [fig.1] che in qualche modo questo film per la T.V. incrocia i miei scritti, cosa di cui io vado molto fiero.

1 Caravaggio, Davide con la testa di Golia, Roma, Galleria Borghese

Ecco infatti come in una delle puntate una guida descrive quel sublime dipinto:

«Ha scelto di creare una connessione tra l’assassino e la vittima dando a David un’espressione compassionevole, forse anche addirittura affettuosa, mentre guarda la testa mozzata di Golia e ha reso questo legame ancora più forte utilizzando sé stesso come modello per entrambi i personaggi: è sempre il viso di Caravaggio, è lui da giovane e da vecchio».

Ebbene, sono quasi alla lettera le parole che io ho usato nel mio volume Caravaggio allo specchio tra salvezza e dannazione [3], tanto da escludere che possa trattarsi di semplice coincidenza:

«In effetti si tratta, come ho già più volte esposto, di un doppio autoritratto, perché il sommo artista si raffigura non solo nella veste del reprobo per eccellenza, ossia Golia, ma anche in quella di David. Come in una sorta di flash back cinematografico, infatti, Caravaggio fa emergere dall’ombra la figura dolente del fanciullo che rievoca proprio sé stesso ancora non toccato dal peccato ma che quasi presagisce il proprio tragico destino, esemplificato al contrario dal viso sconvolto di Golia, ferito alla testa come lui era stato ferito nel tragico duello del 1606»

E ancora:

«Il tumultuoso e tragico volgere degli eventi faranno precipitare sempre più vertiginosamente il pittore nell’abisso del male e la figura sconvolta del Caravaggio/Golia parrebbe precludere ad ogni possibilità di salvezza: eppure Caravaggio/David col suo gesto pieno di pietas sembra poter venire in tempo per redimerlo, pentendosi dei suoi peccati ed invocando il perdono di Dio e degli uomini».   In effetti, l’unico che aveva accennato alla possibilità che anche il David fosse una “specie di autoritratto” del Merisi, era stato E. Röttgen nel suo pioneristico Caravaggio ricerche e interpretazioni [4], ma lo aveva fatto secondo una lettura troppo sbilanciata verso la psicoanalisi e le teorie freudiane e che solo in minima parte si avvicina alle vere intenzioni caravaggesche. Scrive infatti lo studioso che il nostro pittore, all’interno di un percorso di tipo autolesionistico, usa la figura di David per soddisfare il proprio masochistico bisogno di punirsi «in quanto, nel significato psicologico del quadro, il David non è una figura autonoma ma serve a integrare l’autoritratto [di Golia] nel complesso tematico di colpa e punizione. In altre parole, questa figura rappresenta lo strumento dell’autopunizione, essa è un simbolo che l’artista ha scelto per visualizzare gli effetti che il principio morale del super-io produce nell’io: è una specie di autoritratto psicografico».

Ora al di là del linguaggio alquanto contorto è evidente che innanzitutto parlare di “specie di autoritratto” o di figura “non autonoma” del David non è la stessa cosa di quello che ho sostenuto io e che hanno ripreso gli autori della serie: perché quello del giovane eroe biblico è un autoritratto a tutti gli effetti ed egli è una figura assolutamente autonoma anche se ovviamente legata a filo doppio a quella di Golia. Inoltre Röttgen analizza il dipinto in chiave esclusivamente psicoanalitica, riconducendo tutto al conflitto tra io e super-io, mentre tralascia la componente religiosa e spirituale, assolutamente fondamentale.

Quanto al romanzo della Highsmith, è certamente significativo che Ripley frequenti le stesse località che aveva frequentato Caravaggio: Napoli, Roma, la Sicilia, Venezia, anche se non nel medesimo ordine e la cosa non è certo sfuggita a Zaillian, che ha avuto l’idea particolarmente stimolante e creativa di usare il Merisi come una sorta di co-protagonista della serie. Del resto le tele caravaggesche costituiscono una sorta di autobiografia per immagini già pronta per chiunque voglia usarla per trarci un film, ma un film senza attori o altri interpreti che non siano i quadri stessi, già altamente “cinematografici” per proprio conto.

Il grande pittore era animato infatti da una  vera e propria ossessione autobiografica che egli ha estrinsecato sostanzialmente secondo tre tipologie [5]: gli autoritratti veri e propri, nei quali egli si raffigura come era realmente, senza abbellimenti o forzature espressive; le immagini idealizzate, a volte auto raffigurazioni più che autoritratti veri e propri; e infine i dipinti in cui l’artista esaspera espressionisticamente i propri lineamenti, presentandosi addirittura come reprobo o carnefice in una sorta di auto espiazione catartica dei propri peccati.

Al primo gruppo appartengono in definitiva quattro dipinti:

2 Caravaggio, Bacchino malato,(particolare) Roma, Galleria Borghese
3 Caravaggio, Il Martirio di san Matteo (Particolare), Roma, San Luigi dei Francesi

[fig.2] della Galleria Borghese del 1594 circa; la figura che compare tra gli astanti che fuggono, nel fondo della scena, nel Martirio di San Matteo in San Luigi dei Francesi (1599/1600) [fig.3]; l’uomo di profilo sull’estrema destra della Cattura di Cristo di collezione privata romana (ex Sannini) del 1602 [fig.4] (da confrontarsi con quella già citata di San Luigi dei Francesi) e che viene riproposta, quasi identica e appena più invecchiata nell’uomo subito alle spalle di Sant’Orsola nel dipinto con il martirio della Santa ora a Napoli, Palazzo Zevallos [fig.5], forse l’ultimo in assoluto ad essere dipinto dal Merisi (1610).

5 Caravaggio, Martirio di Sant’Orsola (part.)
4 Caravaggio, La Cattura di Cristo (part.)

Quanto alle immagini idealizzate, ossia autoidentificazioni più che autoritratti veri e propri, esse comprendono Il 

6 Caravaggio Ragazzo con canestra di frutta 1597 ca., Roma, Galleria Borghese
7 Caravaggio, Narciso, 1595, Roma, Gallerie d’arte antica di Palazzo Barberini (part.)

[fig.6] della Galleria Borghese (1594/95); il S. Francesco in estasi, ora ad Hartford, Wadsworth Atheneum Museum of Art, 1595; il Narciso di Palazzo Barberini [fig. 7] che io retrodato al 1595;

8 Caravaggio, I musici (o Concerto), 1597 ca. Metropolitan Museum of Art New York, U.S.A., particolare.

il musico rivolto verso gli spettatori nel Concerto [fig.8] ora al Metropolitan Museum di New York (1596/97); il San Francesco in preghiera del Museo Civico di Cremona del 1603.

Alla terza tipologia appartengono il Ragazzo morso da una “lucerta” di collezione privata romana, databile intorno al 1594 [fig.9]; la Testa della Medusa degli Uffizi, del 1596/7 [fig. 10]; il Golia del David trionfante su Golia del Kunsthistorisches Museum di Vienna, del 1607.

9 Caravaggio, Ragazzo morso da una “lucerta”, Roma, coll. privata
10 Caravaggio, Medusa, Firenze, Galleria degli Uffizi

Infine, il David e Golia della Galleria Borghese, del 1610, comprende e racchiude tutte e tre le tipologie da me individuate.

 

 

Indubbiamente non è sempre semplice cogliere questi riferimenti autobiografici all’interno delle sue tele, di così immediato impatto visivo da apparire, ad un primo superficiale sguardo, come semplici riproduzioni dal vero in presa diretta senza ulteriori e più complessi significati, che egli invece dissemina a mo’ di puzzle, rendendo i suoi quadri degli autentici “enigmi”.

«Ed è forse per questo che, nonostante i tantissimi documenti e gli ancor più numerosi saggi e volumi che lo riguardano, egli rimane sostanzialmente un affascinante mistero. Molto dipende, probabilmente, dall’estrema complessità, ai limiti della schizofrenia, della sua personalità umana ed artistica: violento fino all’omicidio eppure credente; ammirato soprattutto dai giovani artisti; apprezzato e protetto da influenti mecenati ma anche inviso a una parte consistente della cosiddetta cultura ufficiale e da tutta la critica di orientamento accademico; moltissimo ha guadagnato (anche qui contrariamente a quanto si è voluto far credere) e altrettanto ha dilapidato; moltissimo ha peccato e costantemente ha cercato la “grazia” e il perdono, come tanti altri grandi artisti prima e dopo di lui. Comunque una cosa va messa subito in chiaro: sicuramente Caravaggio era un violento ma non un disadattato: il suo modo di fare, cioè, apparteneva a un preciso cliché di un’epoca in cui maneggiare di continuo le armi era una prassi consueta»[6].

Eppure l’elenco di risse e processi in cui egli venne coinvolto in un brevissimo giro di anni e di cui rimane traccia nei documenti del Tribunale Criminale di Roma [7] è veramente impressionante, dal ferimento del notaio Mariano Pasqualone del luglio del 1605, a causa di Lenadonna del Caravaggio”, fino al tragico epilogo del maggio del 1606 con l’uccisione di Ranuccio Tomassoni da Terni in seguito a una rissa nella quale lo stesso pittore era rimasto ferito alla testa. Costretto a fuggire da Roma a Napoli, via Paliano e Palestrina, poi a Malta, in Sicilia e di nuovo a Napoli sempre inseguito dal “bando capitale” per l’omicidio del Tomassoni, il Merisi trascorrerà il resto della sua breve esistenza in un frenetico crescendo fino morte avvenuta a Porto Ercole il 18 luglio del 1610. Ed anche la sua pittura sembra seguire l’evolversi drammatico della sua personalità divenendo via via più movimentata, nel tumultuoso disporsi delle figure entro spazi sempre più scuri e illuminati da improvvisi squarci di luce.

Tornando alla serie televisiva da cui siamo partiti, una delle scene più emblematiche è quella in cui vediamo Ripley seduto su una poltrona con in mano il grosso portacenere insanguinato di cui si è servito per uccidere un amico di Richard Greenleaf che aveva scoperto i suoi crimini e che subito, come in una sorta di flashback, ci riporta indietro nel tempo mostrandoci il corpo esanime di Ranuccio Tomassoni sdraiato in una pozza di sangue e poi Caravaggio che fugge a cavallo e si rifugia notte tempo nel Palazzo di Paliano accolto da Costanza Colonna e il pittore, seduto davanti a un caminetto, con ancora la spada insanguinata nelle mani, ci appare del tutto indifferente e dice: «cerco solo un posto dove riposarmi un po’».

In realtà a Paliano il Merisi rimarrà almeno sei mesi e l’omicidio del suo rivale sconvolgerà per sempre la sua vita, ma la scena che ho descritto mostra piuttosto quello che Ripley pensa di Caravaggio, quasi identificandosi nel grande pittore, che quello che a Caravaggio è accaduto realmente. D’altra parte si tratta di una serie cinematografica e non di un saggio scientifico. Ma questo dimostra anche come l’arte e la stessa personalità del Merisi sia talmente complessa e ricca di sfaccettature, io le ho già definite “polisense”, da prestarsi a diversi tipi di lettura.

E così al Caravaggio assassino, a quello omosessuale, a quello assiduo frequentatore di prostitute, a quello ateo o miscredente, a quello cattolico e peccatore si aggiunge per ultimo il Caravaggio Ripley che tutti li racchiude. Sì anche quello religioso perché di chiese Tom ne frequenta molte, non sappiamo se solo per ammirarvi le opere d’arte che le riempiono o perché anche lui in cerca di pentimento ed espiazione.

Quanto alle definizioni prima elencate io le condivido tutte, tranne quella di ateo e miscredente, alias corrotto, perché il Merisi è stato invece per tutta la sua vita un peccatore alla continua ricerca del perdono di Dio e degli uomini. Ed anzi un’ulteriore definizione la aggiungerei, proprio dopo aver visto la serie di Netflix: Caravaggio veicolo di bellezza e di luce. Infatti è Richard Greenleaf, giovane pittore fallito, a far conoscere a Tom Ripley, piccolo truffatorello relegato nei bassifondi di New York, il grande artista che lo attrae come una calamita ed è subito rivelazione! Più Tom si immedesima nel Merisi e più egli si muove a suo agio in location di lusso fino allo splendido palazzo veneziano su Canal Grande dove concluderà la sua esperienza italiana.

Ripercorrendo ora in ordine cronologico la caravaggesca “autobiografia” per immagini, troviamo subito, poco dopo il suo arrivo a Roma, il David e Golia della Galleria Borghese, del 1594: ed anche in questo dipinto giovanile, come poi farà nel tardissimo David e Golia dello stesso Museo (in cui non a caso rievocherà questa sua immagine quasi adolescenziale), egli si raffigura in modo iconologicamente ambiguo: lì sia nelle vesti del reprobo che di colui che lo uccide, qui un po’ Cristo e un po’ Dioniso[8], un po’ melanconico e un po’ sorridente, ma a differenza del suo capolavoro tardo, ancora portatore di un afflato di speranza e di giovanile sfrontatezza. Subito dopo, nel Ragazzo con cesta di frutta sempre della Borghese, egli ha modificato la propria immagine in chiave apollinea, seguendo una sorta di repertorio già pronto ed adattabile di volta in volta alle diverse occasioni, come faceva anche per le sue varie nature morte, usando un campionario acquisito nel tempo. Legato tematicamente e stilisticamente a questi due dipinti è il Narciso di Palazzo Barberini, che io retrodato al 1595 e sulla cui autobiografia mi stupisco come possano ancora esserci dei dubbi.

Come osserva Bert Treffers

«Narciso che si innamora di se stesso riflesso nell’acqua stagnante è sull’orlo della perdizione e soltanto moralizzato può salvarsi. Ma il vero lavoro che lo potrebbe salvare è svolto da chi lo vede raffigurato, come guarda se stesso. Così il quadro diventa anche la rappresentazione di un potenziale movimento interiore che si chiama, semplicemente, conversione. Anche il Bacchino era in questo tipo di metanoia; la sua pseudo immortalità, da falso e mitico dio, diventerà davvero immortale solo nella grazia della salvezza»[9].

E lo era ancora di più il Ragazzo morso dalla lucertola, che già sull’orlo della perdizione fa appena in tempo a pentirsi e ad aspirare al perdono divino; come farà poco più tardi lo stesso Caravaggio nel Martirio di san Matteo.

Tornando al tema dell’ambivalenza che avevamo evidenziato nel Bacchino malato, la ritroviamo intorno al 1596/97 nel Concerto del Metropolitan Museum di New York. La figura sullo fondo, che suona un cornetto è infatti un autoritratto dello stesso pittore, che qui si è quasi sicuramente ripreso allo specchio. L’uso di uno strumento a fiato si collega alla visione dionisiaca che l’artista intende dare di se stesso, come aveva già fatto nel Bacchino malato che abbiamo appena citato. Nella tela newyorkese infatti, sulla scorta degli echi della cultura lombardo-veneta di cui Caravaggio è ancora debitore in tutti i suoi primi anni romani, viene evidenziato il contrasto tra gli strumenti a corda, simbolo di armonia, misura, concordia (e per quel che riguarda in particolare il liuto anche amore e melanconia), e gli strumenti a fiato, simbolo invece di cieca passionalità, rappresentati rispettivamente da Apollo e Dioniso cui il Merisi esplicitamente allude.

Ma l’aspetto particolare, per non dire sconvolgente, del dipinto è che anche la figura centrale del suonatore di liuto, appunto una sorta di Apollo/Sole, è un alter ego idealizzato dello stesso pittore che quindi concentra nel medesimo dipinto gli aspetti ambivalenti della propria personalità. Sempre del 1597 è la Medusa, ora agli Uffizi, che si inserisce in pieno nel racconto autobiografico che stiamo analizzando.

Che la Medusa sia lo stesso Caravaggio, è infatti fuori di dubbio, anche se non abbastanza rilevato dalla storiografia sul pittore: egli anticipa qui, come in uno straordinario presagio, l’immagine sconvolta di sé che darà, ormai quasi in punto di morte, nel Golia della Galleria Borghese. Ed è come se il pittore, come già aveva fatto nel Ragazzo morso da una lucerta, faccia appena in tempo a sottrarsi all’abisso del male o se si preferisce, a sottrarsi al pericolo delle tentazioni e alle insidie dei nemici, protetto dallo scudo di Perseo, ovvero fuor di metafora, da quella incrollabile fede in sé stesso che nonostante tutto e tutti lo ha sempre sorretto nel corso della sua tormentatissima vita.

Spostandoci ora ai capolavori di contenuto religioso che prenderanno il sopravvento a partire dal Giubileo del 1600, troviamo subito l’autoritratto presente nel Martirio di S. Matteo nella Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi. Qui in primissimo piano viene raffigurato l’omicidio del Santo, che apre le braccia a forma di croce, ribadendo così con questo gesto la sua Imitatio Christi. Al verificarsi di questo tragico evento è come se la scena del fondo si aprisse in due parti, orientandosi in due gruppi opposti tra loro, mentre campeggiano i simboli della croce e del martirio.

Quello di sinistra, riccamente abbigliato, sembra quasi volersi perdere nelle tenebre, ad eccezione di un giovane che sta per snudare la spada e poi la rinfodera e dello stesso Caravaggio che si volge improvvisamente verso la luce con un’espressione come pervasa di dolente pietà verso il martire in procinto di essere colpito. «Il nostro pittore appare coperto da un mantello bruno e la sua figura quasi si confonde con quella sottostante, di un altro uomo di cui si notano solo il risvolto scuro di una cappa, le terga e le gambe coperte da una calzamaglia color carne, con bene in evidenza le scarpe ai piedi.

Di quest’ultimo fuggitivo non si scorge il volto, ma si nota piuttosto il gesto deciso della mano, come a voler ribadire il rifiuto della grazia divina, al contrario di Caravaggio, che alle tenebre si sottrae proprio in extremis volgendosi alla luce ed indirizzando la propria pietas verso il santo morente [10]. Come a voler ribadire che anche il più incallito dei peccatori è sempre in grado di redimersi, purché il suo pentimento sia sincero ed egli sia disposto ad accogliere senza infingimenti la grazia derivante dal perdono divino.

Due anni più tardi, nella Cattura di Cristo nell’Orto, ora in collezione Bigetti, sull’estrema destra del quadro Caravaggio dipinge un ennesimo autoritratto e come gli capiterà in altre occasioni si raffigura come testimone di un tragico evento; la sua figura appare plasticamente definita e sovrastante in maniera netta la selva di elmi luccicanti che gli si parano davanti e verrà replicata a memoria, quasi identica, nel Martirio di Sant’Orsola, ora nel palazzo Zevallos-Stigliano di Napoli, forse il suo ultimo capolavoro. Solo pochi mesi prima egli aveva dipinto il David e Golia di cui ci siamo a lungo occupati e che occupa un posto centrale anche nella serie Ripley da cui siamo partiti.

Il doppio autoritratto della Borghese racchiude ancora una volta due raffigurazioni apparentemente antitetiche, quella del pervicace peccatore e quella del pentito in cerca della retta via e della luce della grazia. Ed ancora una volta è al contrasto luce-ombra che l’artista affida il senso più profondo del suo operare. Luce che colpisce in egual modo i volti del vinto e del vincitore ed è però una luce quasi sospesa: nel momento in cui chiede perdono Caravaggio non sa, e non sanno i suoi eroi, se la grazia, quella divina e quella terrena, potranno essere concesse. Noi sappiamo invece come poi, quasi ad avvalorare la tragica premonizione di questo dipinto, il perdono papale verrà ma raggiungerà il nostro artista nel momento stesso in cui lo raggiungerà la morte.

E mentre scrivo queste righe conclusive mi tornano alla memoria le splendide immagini in bianco e nero del Ripley di Zaillian che inquadrano il dipinto della Borghese mentre una guida osserva che il grande artista ha voluto creare una connessione sentimentale tra l’assassino e la vittima dando a David un’espressione compassionevole, forse anche addirittura affettuosa, mentre guarda la testa mozzata di Golia, concludendo: “è sempre il viso di Caravaggio, è lui da giovane e da vecchio”.

E’ proprio così, il Caravaggio/David guarda il Caravaggio/Golia con pietà, quasi con affetto, e lo perdona, si perdona. E d’altra parte se non si fosse perdonato lui per primo non avrebbe potuto invocare il perdono degli altri, come ha continuato a fare ancora in punto di morte.

Sergio ROSSI   Roma 22 Giugno 2025

NOTE

[1] Edizione originale The Talented Mr. Ripley, 1955, primo di una serie comprendente anche, Ripley Under Ground, del 1970, Ripley’s Game del 1971, The Boy Who Followed Ripley del 1980 e infine Ripley Under Water del 1991.
[2] Si veda 1951-2021. L’enigma Caravaggio. Nuovi studi a confronto, a cura di S. Rossi, R. Papa e R. Randolfi, Et Graphiae, Foligno 2023.
[3] Paparo editori, Napoli, 2022.
[4] Bulzoni, Roma 1974
[5] Si veda quanto scrivo al proposito in Caravaggio allo specchio, cit., passim.
[6] Rossi, cit. p.17-
[7] Si veda S. Macioce, Michelangelo Merisi da Caravaggio. Documenti, fonti e inventari 1513-1883, III edizione, Bozzi editore Roma 2023.
[8] M. Calvesi, Le realtà del Caravaggio, Torino 1990, p. 15 e C. Hermann Fiore, Il “Bacchino malato” autoritratto del Caravaggio e altre figure bacchiche degli artisti, in “Quaderni di Palazzo Venezia”, VI, 1989, pp. 95-34.
[9] B. Treffers,…
[10] Rossi, cit.