di Michele CUPPONE
“Caravaggio 2025”: la narrazione di una mostra a regia (pressoché) unica
È in corso fino al 6 luglio a Palazzo Barberini Caravaggio 2025, a cura di Francesca Cappelletti, Maria Cristina Terzaghi e Thomas Clement Salomon. La mostra, come il titolo fa intendere, celebra il genio lombardo nell’anno del Giubileo, e il prevedibile successo si è confermato da subito con i 240.000 biglietti staccati nei primi venti giorni dall’apertura e, a due mesi dalla chiusura, con il tutto esaurito per gli ingressi individuali.

L’esposizione è stata accolta con favore dalla stampa, come avviene di norma per i grandi eventi, con poche eccezioni rispetto alle testate a carattere generalista. Una delle prime voci critiche a levarsi è stata quella di Fabrizio Federici (Artribune), anche se la sua è una riflessione rivolta più in astratto all’intera industria delle mostre. La quantità di dipinti chiamati a raccolta nello spazio espositivo non così ampio di Palazzo Barberini, tanto forte è sempre la “tentazione … di macinare ‘grandi numeri’”, ha portato d’altra parte a quell’effetto “bolgia” su cui insiste la coraggiosa recensione di Federico Giannini (Finestre sull’Arte).

Ventiquattro capolavori tutti del maestro, informano i curatori nelle interviste (Il Giornale dell’Arte, TGR Lazio, Tv2000). Per Vittorio Sgarbi (Panorama), tuttavia, si potrebbe eccepire sull’autografia di almeno due: il Narciso che Gianni Papi, con più forza di tutti, ha ricondotto ragionevolmente alla mano dello Spadarino, e il Mondafrutto la cui illustre provenienza, le collezioni reali inglesi, non ha consentito di presentarlo al pubblico come “attribuito” – eppure, collocato com’è accanto al Bacchino malato anziché isolato, il quadro quasi si eclissa, tanta è la distanza dal suo vicino sul piano qualitativo e stilistico. Non si può nemmeno ignorare l’intervista di Edoardo Sassi (la Lettura) con l’ultima, importante rivelazione di Papi che riguarda proprio una versione inedita del Mondafrutto, da lui ritenuta il prototipo delle numerose copie conosciute.

Sarebbero ancora di più le opere in mostra da assegnare a un altro pittore, secondo Giannini. Oltre che del Ritratto di Maffeo Barberini di collezione Corsini, egli dubita del tanto acclamato Ecce Homo di Madrid e a tal proposito chiama in causa uno studioso di razza come Claudio Strinati, non il solo a non essersi pronunciato sulla nuova aggiunta al catalogo di Merisi – e che d’altro canto in un uno short video si limita a dire, parafrasando involontariamente una battuta di verdoniana memoria: “Com’è questo quadro? È bello”. Più diretta è Anna Coliva (il Messaggero), che non risparmia vere e proprie stroncature a Ecce Homo, Mondafrutto e Narciso, e assegna a Gerrit van Honthorst la Cattura di Cristo di Dublino.
Passando invece all’allestimento, argute osservazioni vengono soprattutto da Davide Oliviero (The Hollywood Reporter Roma, con un altro e non meno sostanzioso articolo su GBopera), che lo reputa “discutibile e faticoso” e arriva a definire le sale dei “corridoi appena dilatati” (sulla congruità degli spazi la pensa diversamente Silvia Danesi Squarzina, nel suo commento denso di osservazioni pubblicato su About Art online). Tali letture si potranno abbinare a quelle altrettanto stimolanti di Mario De Santis, anch’egli autore di una doppia recensione (Soul Food e mimima&moralia), che giudica la retrospettiva un “ottimo remake” di quella curata da Roberto Longhi nel 1951 a Milano. È la curatrice Terzaghi (Radio 3) a rispondere indirettamente a quanti, come De Santis, lamentano i riflessi di cui soffrono le opere: normalmente, dice, i quadri di Caravaggio hanno una vernice che riflette molto, e le sale espositive hanno dei punti fissi per l’illuminazione.
Al di là di tutto la verità è che una rassegna come questa, la cui grandezza si misura proprio per la quantità e l’eccezionalità dei prestiti (e dei confronti diretti fra alcune tele), poteva concretizzarsi solo a Roma e giusto a Palazzo Barberini, che con l’altro museo delle Gallerie Nazionali di Arte Antica, la Galleria Corsini, ha messo a disposizione tutte e quattro le opere del proprio nucleo caravaggesco. È fuor di dubbio, infatti, che la sede abbia giustificato e agevolato il rientro temporaneo di alcuni dipinti fra le stesse mura in cui erano conservati in passato. Su tutti, la Santa Caterina di Alessandria del Thyssen-Bornemisza, non a caso scelta come ‘testimonial’ dell’evento. Determinante in tal senso è stato il notevole impegno generale profuso dal direttore Salomon, che nel caso specifico della Santa Caterina ha potuto concretizzare il progetto di un suo predecessore, per ammissione di Anna Lo Bianco (About Art online).

A Salomon, ai curatori tutti, agli organizzatori e ai partner della mostra, oltre che naturalmente ai prestatori, bisogna essere immensamente grati per aver fatto convogliare a Roma per quattro mesi tanti capolavori da tutto il mondo, cinque dei quali da oltreoceano. Per non parlare dei dipinti di collezione privata solitamente inaccessibili, quali la Conversione di Saulo Odescalchi e l’altro Ritratto di Maffeo Barberini, attribuito da Roberto Longhi nel 1963 e da allora mai visto pubblicamente, che sarà oggetto di approfondimento nella giornata di studi organizzata a Palazzo Barberini il prossimo 16 giugno. Da apprezzare anche la scelta, rispettabile a prescindere e tanto più sensata in quest’anno giubilare, di non spostare nemmeno un quadro dalle chiese romane, e l’apertura straordinaria del Casino Boncompagni Ludovisi per ammirare l’unico dipinto murale Giove, Nettuno e Plutone. Nel plauso generale, Rachel Campbell-Johnston (The Times) si spinge a candidare questa come la più grande esposizione su Caravaggio di tutti i tempi. Le fa eco, spegnendone l’entusiasmo, Arnold Nesselrath (The Art Newspaper), che tra le altre cose mette in discussione la campagna di comunicazione e i disattesi (a suo dire) propositi scientifici, e si sofferma sul Martirio di sant’Orsola restaurato per l’occasione.

Pochi sono stati finora i commenti sul catalogo, edito da Marsilio Arte e curato da Francesca Cappelletti e Maria Cristina Terzaghi (288 pp., euro 40).

Va riconosciuto il ruolo determinante della Galleria Borghese, di cui la prima è direttrice, come co-organizzatore di fatto di Caravaggio 2025 e per aver prestato tre opere di importanza capitale. È comunque nella seconda che si individuerebbe la regia del volume: per la preponderanza dei contributi a propria firma, per la squadra di autori che sono stati coinvolti, per la promozione delle personali acquisizioni e perché è alla sua visione che si conforma la narrazione della mostra.
Molto si potrebbe dire su quest’ultimo punto. A tal proposito alcune considerazioni dello scrivente, relative a una precedente esposizione (Caravaggio e “la sfida di Giuditta”: questioni di date nel catalogo della mostra di Palazzo Barberini), restano ancora attuali nel riflettere sulle modalità con le quali viene presentato un tema di sempre facile presa sul pubblico: le modelle di Caravaggio.

Ripetuta ovunque – in saggi e schede del catalogo, pannelli didattici e audioguide, social istituzionali, incontri pubblici, interviste, comunicati e dunque anche dalla stampa, oltre che nel nuovo (e ben fatto) documentario Rai “Caravaggio a Roma. Storia di una rivoluzione” – fino a farla diventare una verità popolare, è la suggestiva tesi che la stessa donna si sia prestata come modella in anni vicini, tra il 1598 e il 1600 circa, per tre dipinti esposti nella seconda sala: Santa Caterina, Marta e Maddalena di Detroit e Giuditta e Oloferne. Forse, però, le modelle sono due, una delle quali avrebbe posato solo nei primi due quadri, indossando persino lo stesso abito scuro di velluto arricchito da disegni dorati e argentati. La si riconoscerebbe anche per una iperflessione dell’anulare sinistro che è stata notata da diversi studiosi a partire da Luigi Salerno e davanti alla quale il medico Edoardo Croce ora suggerisce due possibilità: una frattura della falange mal consolidata o, più probabilmente, una tenosinovite di tendini flessori della falange con esito in “dito a scatto”.

Ad ogni modo Giuditta, pur avendo un volto simile e comunque un po’ meno tondo delle sante Caterina e Maddalena, a ben vedere presenta una piramide nasale diversa, maggiormente caratterizzata e più sottile, molto prossima al profilo più lineare – e vivacizzato dalla medesima lumeggiatura – della Vergine nella Natività rubata nel 1969 a Palermo (ma anch’essa era stata dipinta a Roma, nel 1600).

Non si riesce quindi a giustificare una certa reticenza sulla Natività – oltretutto, l’unica pala d’altare realizzata da Merisi in un Anno Santo – nel suo mancato accostamento ai tre quadri di cui sopra. Un accenno però lo fa Francesca Curti: dedicato alle donne ritratte da Caravaggio nei documenti dell’epoca, il suo è l’unico testo in catalogo con novità di tipo storico.

Il saggio contribuisce peraltro a fare maggiore chiarezza intorno al Ritratto di Fillide Melandroni, che per le sue diverse fattezze non può essere la stessa donna che posò in tutti gli altri ritratti femminili su citati. L’argomento delle modelle, insomma, spesso è stato trattato sul solco della suggestione, con superficialità e talvolta qualche mistificazione. In tal senso, uno dei meriti di Caravaggio 2025 è che, documenti alla mano, viene confutata l’identificazione forzata di Lena, modella della Madonna di Loreto secondo le fonti antiche, con la prostituta Maddalena Antognetti.
Da un lato, dunque, si evita se possibile di menzionare la Natività, la cui cronologia è stata spostata di recente dal soggiorno siciliano al periodo romano: uno scostamento di nove anni che crea ancora qualche imbarazzo in quella parte di accademici restia ad accogliere le novità provenienti da ricercatori indipendenti (quale fu, in questo caso, il compianto Giovanni Mendola). Con la stessa logica si continua a collocare la Giuditta e Oloferne prima dei laterali Contarelli, verso il 1598-1600, rigettando così la datazione poco più tarda che è stata precisata dagli studi più aggiornati. Questi ultimi hanno potuto associare al dipinto una ricevuta di pagamento del 1602 da parte di Ottavio Costa, per un quadro di soggetto non specificato che in quel momento l’artista stava già dipingendo, tanto da aver già incassato con ogni probabilità almeno un altro acconto (“Io Michel’Angelo Marrisi ò riceuto di più dal illustre signor Ottavio Costa a bon conto d’un quadro ch’io gli dipingo venti schudi di moneta questo di 21 maggio 1602”).

A trovare il documento fu proprio la regista de facto della mostra in corso a Palazzo Barberini. Una scoperta straordinaria, che la studiosa ritenne di collegare a un altro pezzo della collezione Costa, il San Giovanni Battista nel deserto di Kansas City, un quadro che però per motivi storici non può essere stato realizzato prima del settembre 1603. La questione è stata chiarita da un primo articolo dello scrivente (“un quadro ch’io gli dipingo”? Una nota sulla Giuditta e Oloferne di Caravaggio, disponibile anche in formato PDF), seguito a stretto giro da un contributo di Gianni Papi. Tuttavia, nel catalogo della mostra quel primo articolo è ignorato, mentre un successivo contributo di chi scrive (“Un quadro ch’io gli dipingo”. Nuova luce su Caravaggio per Ottavio Costa, dalla Giuditta al San Giovanni Battista), benché al momento possa considerarsi il più esaustivo sul tema – in quanto ne argomenta diversi aspetti, compresi quelli diagnostici, e soprattutto fornisce un’esegesi più approfondita del documento – è estromesso dalla bibliografia essenziale nella scheda della Giuditta (ma non in quella del San Giovanni Battista nel deserto, firmata da Giovanni Morciano).

In mostra, in definitiva, la collocazione naturale della Giuditta avrebbe dovuto essere la terza sala, accanto alla pressoché coeva Cattura di Cristo, con la quale chi scrive aveva individuato alcune analogie – ma più stringenti sono le similitudini con il Sacrificio di Isacco degli Uffizi, speculare nell’impianto compositivo e generalmente datato al 1603. In catalogo, invece, la cronologia tradizionale della Giuditta viene mantenuta anche nelle didascalie dei saggi di autori che non concordano più con essa (propende per il 1602 Curti, per comunicazione orale che più estemporanea non si può, davanti al dipinto in sede di inaugurazione dell’esposizione). Omissioni e altri interventi editoriali di questo tipo confermano una volontà di perseguire una narrazione che non ammette obiezioni, e che rischia di perdere in scientificità quando viene eccessivamente personalizzata. Si comprende meglio, a questo punto, il rammarico di Pierluigi Panza (Corriere della Sera) per “la curatrice della mostra, studiosa apprezzata ma con qualche amnesia”, che “ricorda sempre in nota quello che scrive o dichiara lei e chi da lei apprezzato e non ricorda chi scopre o scrive per primo” (il giornalista si riferisce in particolare al suo articolo pubblicato nel volume Festschrift per Vittorio Sgarbi, ma tra le ‘dimenticanze’ nella scheda dell’Ecce Homo vi è anche quella sul saggio di Massimo Pulini Caravaggio e l’Ecce Homo della gara Massimi ‘portato in Ispagna’).

Scoperte di serie A e di serie B, si dirà, secondo chi ne scrive[1]. Nulla di nuovo, ma in tal senso è interessante notare come venga accolto in catalogo – con il pieno accordo di alcuni autori e più tiepidamente da altri, ma c’è pure chi ignora del tutto – l’eccezionale ritrovamento d’archivio di Vincenzo Sorrentino che sposterebbe l’esecuzione della messinese Adorazione dei pastori al secondo periodo napoletano (una situazione già vista per un quadro curiosamente vicino per soggetto e ubicazione: la Natività di Palermo, anch’essa dipinta e spedita da una città diversa da quella di destinazione). Nessuno però che si sia reso conto che Sorrentino ha trovato anche il più antico documento datato (28 ottobre 1609) di quell’ultimo soggiorno partenopeo.
D’altro canto, il catalogo, e questo è uno dei suoi punti di forza, fa tesoro di tutti gli ultimi studi sugli esordi capitolini del pittore e Caravaggio 2025 finisce per essere la prima rassegna che accoglie senza indugi l’ipotesi di una datazione più tarda dell’arrivo a Roma (1595 circa, e non più 1592), con un impatto diretto sulla cronologia dei dipinti giovanili. Per il resto, come rileva Sara Magister (il Timone), le schede “trascurano troppo ciò che il grande pubblico vorrebbe capire, ossia l’aspetto iconografico più che quello attributivo o collezionistico”. È singolare peraltro che, per una buona parte, la descrizione delle opere sia affidata a studiosi promettenti con poche pubblicazioni all’attivo e che scrivono su Merisi per la prima volta (“giovani seicentisti” direbbe Stefano Causa, come fa nel volume seppure in altro contesto). Vanno invece considerate semplici sviste, per quanto sfuggite a chiunque in fase redazionale, quelle su alcuni dati storici cruciali nella biografia caravaggesca come le date della morte dell’artista (18 luglio e non giugno 1610) e dell’uccisione del suo rivale Ranuccio Tomassoni (28 e non 31 maggio 1606), o il reiterato lapsus sul “cardinale Vincenzo Giustiniani” (intendendo con ciò Benedetto, fratello del marchese Vincenzo) insieme a quello, forse anche più simpatico, del nome del pittore Francesco Morelli storpiato in Giovanni (come il famoso storico dell’arte ottocentesco) o, ancora, la pittura murale Giove, Nettuno e Plutone stampata in controparte.

Il volume, che include saggi di Keith Christiansen, Giuseppe Porzio, Alessandro Zuccari e Rossella Vodret, anticipa le proposte di attribuzione all’artista di due opere conservate in collezioni private. Una è il già noto Ritratto di Francesco Barberini di collezione Corsini sul quale Gianni Papi, che alla ritrattistica merisiana si sta applicando più di ogni altro suo collega, si riserva di tornare con un saggio dedicato. L’altra è un Giovane con la caraffa di rose con il quale Maria Cristina Terzaghi, che più spesso si spende sulle questioni storico-filologiche, potrà dare una nuova prova della sua connoisseurship. Sarà quest’ultimo dipinto l’oggetto della prossima mostra su Caravaggio? Vedremo con quali novità, e quale narrazione.
Michele CUPPONE Roma, 18 Maggio 2025