redazione
Giulio de Martino, Cantare il disincanto. Disagio e malinconia nei cantautori italiani degli anni ’60.
Da alcuni anni la storiografia si sta occupando — anche in Italia — con accortezza di metodo e serietà di analisi, del «mondo dello spettacolo» e delle sue produzioni in quanto elementi rilevanti dell’ideologia di un’epoca.
Il saggio di Giulio de Martino si propone di evidenziare come i «cantautori» — quelli più malinconici e disincantati — abbiano saputo percepire nei primi anni ’60 – quando la «musica leggera» nutriva la «smisurata ambizione» di orientare i gusti e le idee del pubblico — luci e ombre della società italiana.
Pensiamo a Gino Paoli, Luigi Tenco, Piero Ciampi, Francesco Guccini, Fabrizio De Andrè fino ad arrivare a Giorgio Gaber e a Claudio Lolli. Furono autori di brani apprezzati per il canto e per la melodia, ma spesso fraintesi: l’ideologia edonistica e sentimentale del tempo faceva da velo all’esatta comprensione dei loro testi.
Gli anni ’60 del Novecento furono anni in cui la musica e i musicisti erano ovunque: nei concerti e nei festival, nelle radioline e nei juke–box, in televisione e sui giornali. In quegli anni trionfò la «canzone»: la forma più agile ed essenziale di «musica leggera». Testi sintetici e brevi melodie (due o tre minuti) che generavano immagini suggestive: si imprimevano nei pensieri e sollevavano la vita delle persone al di sopra della realtà.
In quegli anni le canzoni dedicate all’esperienza del «disincanto» e della «solitudine», del «fallimento» e della «sconfitta» contraddissero gli inni alla gioia e al divertimento, l’euforia dei consumi e dell’allegria, propagandati dai rotocalchi e dalle trasmissioni televisive. La discronia delle «canzoni del disincanto» evidenziava l’audacia di quanti le scrissero e le interpretarono in un periodo in cui il mondo occidentale pensava di star vivendo un’intramontabile «età dell’oro».
La «musica leggera» svolse, allora, una duplice funzione. Inserendosi, con il ritmo e la melodia, con sentimenti positivi e slanci lirici, nella vita interiore delle persone fu un fattore di facilitazione e di adattamento nei confronti di una realtà economica e tecnologica in accelerato cambiamento. Fu anche capace di indurre una sorta di «controcanto» rispetto agli eventi, di diffondere narrazioni alternative e momenti di riflessione all’interno del flusso tumultuoso delle esperienze.
Se le «canzoni del disincanto» contraddicevano gli inni all’amore e al successo, in egual misura — però — erano lontane dal moralismo e dal fervore di quanti si opponevano al «consumismo» e alle «ingiustizie sociali». L’intento dei «cantautori del disincanto» non fu di denunciare i «mali sociali», di propagandare solidarietà e commiserazione. Questo fu il compito che si assunse la «canzone politica» con le sue denunce e il suo attivismo ideologico. Quei cantautori vollero, piuttosto, mettere in musica e parole la forza del dolore, la poeticità della sofferenza, la divergenza che erompeva da una sensibilità turbata.
Per comprenderli si deve partire dalle tendenze sociali ed economiche affermatesi nel decennio precedente: negli anni successivi alla fine della Seconda guerra mondiale. Le culture artistiche hanno sempre avuto un carattere transnazionale e poliglotta: anche quando manifestano accentuazioni locali o nazionali. E questo vale, in particolar modo, per la musica leggera italiana di metà Novecento.
Il saggio di de Martino è integrato dagli scritti di Canio Loguercio, cantautore e performer, di Salvatore Rossi, economista, Direttore Generale della Banca d’Italia dal 2013 al 2019 e Presidente di TIM dal 2019 al 2024, e di Carlo Serra, che insegna Estetica dei Media presso l’Università di Torino e Teoria della Immagine e del Suono presso l’Università della Calabria.
Roma 23 Marzo 2025
Il libro
Giulio de Martino, Cantare il disincanto. Disagio e malinconia nella canzone d’autore italiana negli anni del miracolo economico, Con interventi di Canio Loguercio, Salvatore Rossi e Carlo Serra, Como, Manzoni Editore, 2025.