di Rita RANDOLFI
Il sarcofago con lo scontro tra Romani e Daci, esposto oggi nel portico del Casino di villa Borghese, è stato sempre considerato un pezzo di notevole bellezza e qualità artistica[1]
Vi è raffigurata una scena di battaglia inquadrata da trofei e da due coppie costituite ciascuna da un barbaro e una donna con lunghi capelli, a sinistra lui reca una spada e lei ha le mani legate, a destra il contrario, lei porta una mano sul petto e lui ha i polsi stretti da una corda. I vincitori irrompono al centro, sotto l’insegna dell’aquila imperiale, respingendo i nemici verso i lati. L’imperatore si distingue dagli altri per l’attributo della pelle di pantera posta sul cavallo e per la corazza anatomica.
In basso gli sconfitti, tra i quali spicca uno, completamente nudo, visto di schiena, caduto a terra insieme al suo destriero.
Secondo Moreno tale impaginazione segna il passaggio da rappresentazioni di guerra concepite come duelli personali a riproduzioni di scene di massa[2], in cui si esalta lo sforzo comune dell’esercito unito che decreta la vittoria o la sconfitta, a seconda dei casi, riflettendo una concezione che, nel vocabolario moderno, definiremmo romantica, volta alla celebrazione non più dell’azione di un singolo, che pur mantiene una posizione di rilievo, ma di un insieme di persone, nelle cui mani è il destino di un evento.
Stilisticamente i volti dalle espressioni drammatiche dei morenti sono simili a quelli dei personaggi che compaiono sulla colonna di Marco Aurelio, e la tecnica con cui sono resi li avvicina alle decorazioni dell’arco di Settimio Severo.
Il sarcofago, la cui iconografia è stata ampiamente studiata dallo Schafer[3], fu eseguito probabilmente da un’officina urbana per la necropoli del Vaticano, da cui pervenne ad ornamento dell’atrio dell’originaria basilica di San Pietro. Qui, catturato dal suo fascino, lo vide e lo disegnò Giulio Romano.
Successivamente se ne perdono le tracce, fino a quando non entrò a far parte della raccolta dei Lante, grazie al cui archivio è possibile ricostruirne la storia collezionistica, dietro la quale si nascondono gli interessi economici della casata, ma anche tratti da gossip.
In un passaggio contenuto in un contratto di locazione, stipulato il 2 settembre del 1670, tra Ippolito Lante ed alcuni agricoltori, riguardante i giardini della villa gianicolense, la cui estensione un tempo giungeva fino a via della Lungara e che in parte erano coltivati, è possibile individuare il marmo menzionato come una «Battaglia in basso rilievo»[4].
Non si conosce il momento esatto del suo ingresso nella raccolta della famiglia, ma è possibile avanzare qualche ipotesi. Infatti l’8 novembre del 1631 Urbano VIII Barberini concesse al cardinale Marcello Lante un appezzamento, comprensivo di un tratto di strada pubblica, che il prelato aveva indebitamente occupato per costruire i muri di cinta a protezione della sua villa, ma il pontefice reputando il lavoro di utilità pubblica emanò un chirografo in cui:
«considerando noi le spese fatte nella fabbrica di detti muri per farli grazia speciale (…) concediamo il sito con l’obbligo di mantenere li suddetti muri a tutte loro spese e di pagare ogni anno alla R.C.A. nel giorno di festa di Santi Pietro e Paolo (...)»[5].
Il documento svela anche che quella parte di giardino era coltivato a vigneto, ma soprattutto potrebbe costituire il presupposto per un possibile dono aggiuntivo del Papa a Marcello, che già dal 1616 rivestiva il ruolo di membro della Congregazione della Fabbrica di San Pietro, incarico che conservò fino alla morte.
Tuttavia per avere notizie più concrete sul manufatto occorre arrivare agli inizi dell’Ottocento: il 16 novembre del 1811, infatti, Antonio d’Este fu contattato dai Lante per redigere l’inventario dei marmi del duca Vincenzo, a un mese dalla sua morte. L’artista descrisse l’opera come un:
«Prospetto di sarcofago rappresentante una Battaglia de’ Romani contro Daci di buono stile»,
valutandola 2675 franchi[6], una somma piuttosto elevata.
Dal documento risulta che il sarcofago si trovava ancora nella villa sul Gianicolo e, come si desume da altre stime effettuate dallo stesso d’Este, inizialmente era stato collocato nel «Pomaro» lungo il muro di confine, per poi essere esposto nella loggia. Questi spostamenti testimoniano un’attenzione maggiore da parte degli eredi del duca nei confronti del sarcofago, che passa da un’ubicazione esterna ad una più protetta, sicuramente dietro consiglio di Antonio d’Este, pienamente consapevole del suo valore, ma in un elenco senza data, di mano dello stesso scultore, il marmo risulta trasferito nel palazzo di piazza dei Caprettari, sistemato: «in una sala del primo appartamento (…) a mano dritta»[7].
Presumibilmente il documento deve datarsi tra la fine del 1816 e l’inizio dell’anno successivo: la situazione economica dei Lante, infatti era talmente compromessa da indurre il fratello di Vincenzo, Alessandro, a cedere la villa ai Borghese, e nonostante l’elezione prima alla porpora e poi alla nunziatura di Bologna avessero garantito alcune nuove entrate, il neo-prelato, dalla città emiliana, non si stancava di sollecitare il proprio computista, Pietro Ferrari, affinché trovasse dei compratori, anche stranieri, interessati anche alle collezioni di famiglia[8].
Antonio d’Este, quindi, fu incaricato di redigere una serie di stime di sculture, in cui si assiste a un ribasso del costo del sarcofago, che scese da 2.675 a 2.373 franchi. In una dichiarazione firmata oltre che dal d’Este, anche da Gaspare Landi, perito per i dipinti, e da Pietro Ferrari, risultava che il mercato non disponeva di somme ingenti da spendere per gli oggetti artistici, motivo per cui le valutazioni dovevano adeguarsi al momento, anche se i manufatti erano considerati di notevole qualità[9].
Alessandro, intanto inviava continuamente dispacci a Roma, sollecitando il fedele Ferrari a smuovere tutte le conoscenze importanti al fine di pubblicizzare le raccolte presso il Governo Pontificio:
«Bologna 7 gennaio 1818. Carissimo Ferrari, (…) le statue e i quadri si potranno proporre ai forestieri, ma alla fine la prassi va al governo il quale potrebbe tenere la massima parte del denaro per sborsarlo in occasione de’ rotti»,
e ancora il 25 febbraio dello stesso anno ritornava sull’argomento:
«Attendete alla vendita delle statue, ma credetemi che il miglior partito è quello di convenire col Governo, dal quale se ne può sperare denaro alla mano, si può sperare bensì che si accetti debiti e censi. Impegnate Fea, Canova il Cardinal Camerlengo e che so io»[10].
Malgrado gli sforzi diplomatici del Ferrari fossero riusciti ad attirare l’attenzione del cardinal Pacca, che aveva assicurato il suo personale interessamento, Alessandro si spense il 14 luglio del 1818 a Bologna, senza aver avuto la soddisfazione di poter vendere una statua. Sarà infatti il nipote Giulio ad ottenere il permesso di mettere all’asta le opere d’arte della famiglia, ma soltanto il 12 febbraio del 1827[11].
Nel luglio dello stesso anno Filippo Albacini redasse una stima delle sculture, ed il prospetto del sarcofago con i Romani e i Daci fu valutato 300 scudi[12]. Infine il 18 luglio dell’anno successivo Giuseppe Bofondi, uditore di Rota, emanerà una sentenza con la quale i creditori recidivi del patrimonio Lante vennero definitivamente saldati attraverso la cessione di opere d’arte.
Tra questi figurava Camillo Borghese, il quale riceverà, tra gli altri pezzi, anche il sarcofago, il cui costo, come recitava la sentenza, era rimasto quello stabilito dall’Albacini[13].
Non è da escludere l’ipotesi che il manufatto fosse stato segnalato al principe Borghese proprio da Antonio d’Este, che in anni appena precedenti la sentenza del 1828, aveva svolto il ruolo di restauratore, nonché di mercante e consulente per l’esposizione delle sculture, insieme a Massimiliano Laboureur, proprio per Camillo[14].
Né va dimenticato che il principe Borghese era divenuto l’amante di Margherita Marescotti, vedova di Vincenzo Lante, e aveva fatto in modo che il proprio amministratore patrimoniale, il cavalier Gozzani, fosse divenuto anche il curatore dei beni di Margherita, interferendo, a proprio vantaggio, sulle delicate questioni economiche dei Lante[15].
Ancora una volta amore, finanza e arte si intrecciano indissolubilmente determinando la sorte delle lastre di un sarcofago che, ironia della sorte, transitano da una villa ad un’altra, restando di proprietà dei Borghese, apparentemente, almeno al momento dell’acquisto della proprietà gianicolense, non interessati al pezzo, che invece, grazie anche all’intermediazione di Antonio d’Este, avevano adocchiato, aspettando il momento opportuno per “vendicarsi” ed impossessarsene con modalità decisamente più vantaggiose.
Ripensando alle pratiche “non ortodosse” di Scipione Borghese nei confronti del Cavalier d’Arpino per sottrargli i quadri di Caravaggio verrebbe spontaneo dar credito al detto “Buon sangue non mente”, considerato che anche Camillo, due secoli dopo, non si pose scrupoli pur di incrementare la collezione, che lui stesso aveva in parte devastato, per garantirsi i favori del cognato Napoleone.
Rita RANDOLFI Roma 14 giugno 2020