di Chiara GRAZIANI
Saltare da una pelle all’altra, un personaggio via l’altro, sei diversi volti in cinque minuti per un solo performer in scena: qui non c’è studio, scordate l’introspezione.
“C’è energia, energia che sale o cala e si impenna di nuovo”.
Non c’è scavo nell’animo umano. Solo velocità. Intensità. Sorpresa. Ed il cuore come un contatore che gira alla velocità della tensione elettrica che tiene su il personaggio per quei 15 secondi necessari a fargli attraversare la scena già in metamorfosi verso un altro carattere a diversa tensione.
Il salto da uno all’altro è un salto brusco di tensione. Come quelli che bruciano il quadro della corrente durante un temporale. Il segreto del trasformista, racconta Arturo Brachetti, erede dell’arte fregoliana del changement en vitesse, è il cuore inteso come il fisico muscolo cardiaco che impara ad adattarsi a velocità diverse, a sopportare un salto di tensione dietro l’altro. Perchè, dice, ogni personaggio corrisponde all’energia necessaria ad accenderlo. Ed il cuore deve imparare a correre a tutte le velocità possibili, in un violento stop and go contronatura.
“Io, con gli anni, sono diventato brachicardico, addirittura 35 battiti al minuto”, dice. “Un medico mi ha spiegato che fa parte delle prodigiose capacità di adattamento del corpo umano ad un problema”.
Il problema di essere uno e mille, da solo in scena.
( E “Solo” è il titolo-promessa dello spettacolo che porta in tournée in questi giorni e fino a giugno a Firenze, Cascina, Varese, Brescia, Padova, Lugano, Bergamo,Torino, Parma e Cagliari)

Al festival “Custodi di sogni”, appena chiuso alla storica sede della Cineteca Nazionale, presso il centro di cinematografia sperimentale di Roma, si parlava di Lepoldo Fregoli, il prodigioso spiritello delle scene che divenne, a cavallo fra ‘800 e ‘900, una delle prime stelle globali di tutti i tempi inventando l’arte del trasformismo fulmineo – illusionismo praticato con tutto il corpo – che sembrò ai futuristi l’incarnazione del mito della velocità e dell’azione che spalancava tempi nuovi a uomini nuovi. I due, Brachetti e Fregoli, dialogano da un mondo all’altro (da un’era all’altra) ormai da decenni.
“Per me – racconta Brachetti, ospite d’onore – è come il fantasma dell’Opera che mi guarda dal palco numero cinque. Abita gli angoli di casa mia, mi osserva perfino dai vasi come poi vi racconterò. E’ stato un’ispirazione senza averlo mai visto in azione, non fino al ritrovamento di molti dei suoi corti (ndr corti riproposti in sala al pubblico del Festival) ed al loro restauro nel ‘95. A quel punto ne ho riconosciuto le tecniche, le soluzioni, i segreti”.
Un’arte ricostruita passo passo, trucco per trucco, scorciatoia per scorciatoia, per scoprire – dal1995 in poi – che l’apprendistato dei due, con un secolo di mezzo e nessuna scuola ufficiale, era stato lo stesso. La cassetta degli attrezzi, oggi più raffinata e tecnologica, alla fine era quella. Quei corti, su pellicola Lumiére con una sola perforazione per lato, usurati e strappati da mille proiezioni fra i teatri di due continenti, testimoniano, però, anche l’importanza del primo segreto: quello di educare il cuore a correre a cento velocità diverse in uno spettacolo solo. L’importanza, in definitiva, di essere un uomo-cinema (secondo la definizione coniata per Fregoli dalla critica della Belle Epoque), lo schermo umano sul quale far correre una storia.

La giornata del centro sperimentale di cinematografia mirava a far riconoscere a Fregoli, un altro dei suoi primati. Lui, il primo uomo-cinema (o anche il cinematografo vivente, altra definizione coniata per l’idolo delle platee internazionali) fu pure il primo a portare il cinema in Italia. Pioniere anche in questo, curioso di tutto, aveva passato una settimana a farsi insegnare dai Lumière i prodigi della fotografia in movimento. Nell’arco di otto mesi fu in grado di padroneggiare la novità, dalla ripresa, alla stampa e all’editing per produrre una pellicola “Fregoli segreti di scena” che debuttò a Napoli il 18 gennaio del 1898 nel teatro “Circo delle Varietà” alla fine della sua abituale esibizione. Forse il primo spettacolo multimediale, inteso come fusione fra il palcoscenico del trasformista e lo schermo (quasi da reality) che portava il pubblico ad avventurarsi in quello che era vissuto come un mistero magico: come faceva Fregoli ad entrare in scena maestro di musica per poi apparire cantante dall’altra parte del palco?
Aveva un sosia ? Una donna all’epoca ci metteva quasi un’ora a vestirsi (brache, corsetti, bustini, stivaletti da allacciare), Come faceva a saltellare in scena da vezzosa signorina dalla vita stretta se pochi secondi prima era in frac? L’uomo-cinema, in uno di quei corti ritrovati a Viareggio (per inciso dal padre di Carlo Verdone, Mario che ne fece dono alla Cineteca Nazionale), si svelava – ma appena il giusto – come spettacolo nello spettacolo.
Fu il calcio d’avvio del cinema non solo documentario (come lo pensavano i Lumière) ma come racconto sorprendente della realtà “portato non nelle fiere, ma nei teatri, nei luoghi borghesi” spiega Brachetti. I napoletani risero ed applaudirono. I teatri, alcuni, iniziarono a chiamarsi cine-teatri. Lui, per inciso, a furia di potenziare il suo Fregoligraph a proiezione posteriore e a proporre dal vivo numeri a nuovissimi effetti speciali luminosi (la danza serpentina, tanto energivora da fermare i tram elettrici), pare ne abbia fatto andare a fuoco uno, a Parigi, il Trianon. Ma tant’è. Fregoli era Fregoli e risorse dalle sue ceneri, letteralmente, in quindici giorni vissuti a mille all’ora fra sarte, carpentieri e pettinatori di parrucche.
Una storia contenuta in quei corti (quindici quelli proiettati al Festival) che, fra le tante domande su quella vita energivora ne lascia una: perché non avventurarsi fino in fondo fra i pionieri del genere comico muto? I due corti “Pere cotte” e “Fregoli barbiere maldestro” (databili 1897-1899), spassosi, hanno i tempi, il candore, la cattiveria e le situazioni che in seguito faranno grandi i grandi del muto.

Nella sala Cinema della Cineteca il ritorno dello spiritello romano (nato all’ombra di Fontana di Trevi) è scandito dal vivo dall’accompagnamento al piano – a diverse tensioni come il cuore degli uomini-cinema – di Michele Catania ed è l’opportunità di fingersi lì, 128 anni fa, e vedere tutto come nuovo. Lo zelo inarrestabile di Fregoli barbiere che resta con la testa del cliente in mano, o la perfidia impassibile con la quale ingolla alla velocità della luce tutte le pere cotte dell’inerme ambulante romano sono fra le prime due gag del genere che sarà di Chaplin e Keaton. Torneranno e ritorneranno, da oltreoceano. 128 anni fa, però, erano anche nuove. E su quelle pellicole, racconta al pubblico Valeria Rossetto del centro di cinematografia sperimentale, c’è anche una “firma”. L’impronta digitale dello sviluppatore, fissata dalla stampa prima e dai restauri poi. Di Fregoli? La possibilità che effettivamente lo sia (visto che metteva letteralmente mano in qualunque cosa lo incuriosisse) è concreta. La cosa bella è che non potremo saperlo mai. Solo immaginarlo realisticamente. Anche perché quel che possiamo saperne finisce qui.

Fregoli girò il mondo con la sua macchina delle immagini modificata ed abbellita, proiettò anche pellicole dei fratelli Lumière e di Georges Méliès (padre della cine fantascienza). Nel 1925, d’improvviso, chiuse baracca e burattini – chiuse la prima e pare abbia bruciato i secondi – ed eco di lui sono arrivate a noi come il padre, sempre più mitologico, sempre più lontano, del trasformismo teatrale. Meno, quasi nulla, come l’innovatore che riconobbe se stesso nel cinema e lo lanciò.
Nella giornata a lui dedicata, i ricercatori non gli hanno riservato sconti. Le celebrazioni in fondo sono parenti della propaganda e tutte e due non sono amiche della libertà: un ricercatore vero non fa santini. Così Maria Assunta Pimpinelli, che da responsabile del patrimonio filmico della Cineteca cura il fondo Fregoli ed ha organizzato la giornata come ritorno ad un secolo fa con gli occhi di oggi, fa una rivelazione. Anticipata, e senza accordo preventivo, dallo stesso Brachetti che ha percorso vie sue per arrivarci. (“Ho la mia rete di nerd” confessa l’erede).
L’incontro, il celebre incontro con i Lumière nel 1897, al teatro dei Celestini a Lione, non ci sarebbe stato. Pimpinelli cita un titolo di giornale che dà Fregoli “per la prima volta a Lione” nel 1907, un bel po’ dopo il celebre episodio dell’incontro che avrebbe fatto scattare la simpatia umana fra gli inventori e l’attore. Brachetti, grazie ad Alex Rusconi, imprescindibile storico della Belle Epoque e insospettabile fregolimaniaco, dice che non si trova traccia di un suo spettacolo a Lione nel 1897. Si trova, però un manifesto del 1907 che invita ad approfittare della “prima volta a Lione” dell’attore. Una “balla spaziale” dunque (copyright Brachetti) ? Riferita da uno “zuzzerellone” di genio, talentuoso del marketing che per vendere un biglietto in più avrebbe raccontato qualunque cosa?

Chi scrive si permette di lasciare la questione aperta. Non che le evidenze non siano quelle che sono, e riferite da due voci autorevoli e tutt’altro che ostili. Ma dato che ci sono più cose fra cielo e terra oltre al due più due, è giusto notare che nessuno mette in discussione l’apprendistato intensivo di Fregoli per almeno una settimana a Lione dai Lumière, tra il maggio ’97 e la fine dell’anno. A Lione c’è stato, per imparare. In quanto ai titoli di giornali, ci permettiamo di ricordare che, non solo oggi che tutto è verificabile con un clic, ma a maggior ragione più di un secolo fa, ogni volta, in un titolo, può essere la “prima volta” dell’anno di sempre. Lo stesso dicasi per i manifesti: venghino signori, per la prima volta il più grande dei grandi, solo per voi. Rusconi ha anche verificato i programmi teatrali dell’epoca ed è ancora più convinto della sua tesi.
Alcuni aggiungono: e perché i Lumière avrebbero dovuto concedere a Fregoli la macchina del cinematografo dopo averla negata a Méliès? Per due motivi: lo “zuzzerellone” era simpaticissimo oltre che una stella di inarrivabile fama; la celebrity mondiale nel gruppo era lui. Inoltre può essere benissimo che l’abbia acquistata appena messa sul mercato, maggio 1897. L’uomo non badava a spese e la macchina era effettivamente nella sua disponibilità. Un terzo motivo: le bugie radicali, inventate per tradire la realtà e non per ingolosire il pubblico, non le amava. Sbugiardò pubblicamente un grande giornalista che pure ne aveva fatto un eroe di guerra capace di sbaragliare il nemico terrorizzandolo grazie all’arte del ventriloquo: da ogni lato, scrisse, si sentiva gridare con voci diverse “Viva l’Italia!” ed era sempre il bersagliere Fregoli. Lui che mai fu bersagliere, né ventriloquo, né reduce di Adua disse al giornalista: “E’ così che si fa la storia?”. E non aveva che guadagnarne. Fama e biglietti.

Ma l’energivoro uomo-cinema ad un certo punto si spense. D’improvviso. “Si chiude“, comunicò alla moglie Velia nel ‘25. E chiuse. Si rintanò a Viareggio, dove tutti quelli che erano qualcuno avevano una casa vetrina dove restare in vista. Si dice con la famiglia; in realtà pare fosse assistito solo da due domestici, Ezio e Carolina, che non ne decantavano le possibilità economiche. Voleva una tomba-sipario, in terra con la sola scritta “Qui Leopoldo Fregoli compì la sua ultima trasformazione”. Alla fantasia immaginarlo in mutamento nell’al di là. Gli fu imposta, però, una orribile maschera funeraria fra frasche d’alloro, immagine della trappola dell’immobilismo senza ritorno che certo avrebbe detestato.
Non gli è rimasto, dunque, che infilarsi in un vaso. Arturo Brachetti, una vita parallela, la racconta così:
“Da quando a 14 anni mi fu regalato un libro che parlava di lui mi sono trovato a camminare nelle sue scarpe senza accorgermene. Pensate che ho scoperto, dopo, di avere debuttato a Parigi esattamente un secolo dopo di lui, nello stesso giorno. Mi portarono in camerino un manifesto con la data del “20 gennaio 1900” debutto di Fregoli. Io stavo recitando al Marigny dal 20 gennaio del 2000. Anche se non lo cercavo lui cercava me. Ho la casa piena di manifesti, libri, ho sentito i tre dischi sopravvissuti. Ma devo dire che le cose mi vengono a cercare. Una persona gentile e a me sconosciuta mi contattò per offrirmi un regalo. Un vaso di scena, cartapesta dipinta, adatto al trasporto da un teatro all’altro, opera del padre di Fregoli disse. Un vaso che compare chiaramente anche nelle sue pellicole. L’ho messo lì in casa e talvolta sento che lo spirito è lì e mi osserva. Uno spirito nel vaso”.
Non sarà la lampada di Aladino. Ma lo “zuzzerellone” certo avrebbe scelto un vaso di cartapesta per aspettare la sua liberazione.
Chiara GRAZIANI Roma 10 Aprile 2025