Bertel Thorvaldsen, novità da un inedito inventario (Parte III e Conclusioni)

di Rita RANDOLFI

Riconsiderazioni su Thorvaldsen: la casa, gli ateliers e le collezioni dall’inventario dei beni del 1844.*

*Pubblichiamo la parte conclusiva di un ampio saggio di Rita Randolfi che fa luce, sulla base di un’ importartante documentazione inedita, su aspetti di grande rilievo relativi alla figura e all’opera di Bertel Thorvaldsen, all’ambiente in cui visse e al mondo del Neoclassicismo.

L’atelier di piazza Barberini

Il 29 maggio 1844 i redattori del documento si recarono nello studio di piazza Barberini.

Thiele affermava in proposito:

Questo studio (…) contiene, essendo il più grande, il grosso della sua produzione. L’intero ambiente, che per dimensioni si può paragonare a una chiesa, è diviso in tre parti da coperte appese al soffitto.[1]

L’atelier di piazza Barberini fu sicuramente il locale più visitato dagli intellettuali dell’epoca e sul quale oggi si posseggono le testimonianze più numerose rispetto alle altre dimore romane di Thorvaldsen. Un confronto con le testimonianze dell’epoca e con le celebri rappresentazioni di Martens e Ricciardelli si impone necessariamente analizzando il documento ottocentesco.

Nel dipinto di Martens (Fig. 20), eseguito per celebrare la visita di Leone XII del 18 ottobre del 1826, e nel disegno del Ricciardelli (Fig. 21), che invece commemora quella di Ludovico I di Baviera del 1829, l’ampia struttura sorretta da travi lignee e separata dai tendoni rispecchiano abbastanza la descrizione del Thiele.[2] Nell’inventario del 1844 invece non vi è alcun accenno alla conformazione del vano, ma sicuramente qui erano conservate le opere di dimensioni maggiori, molte delle quali eseguite negli anni Venti.

I commentatori dell’inventario partirono dal Mercurio, n. 110, che anche il Martens collocava al centro del secondo settore, esattamente come riferiva il Thiele.[3] Secondo la Skiøthaug, la statua di marmo rimase in questo ambiente fino al 1849, anno in cui fu acquistata all’asta delle opere dallo spagnolo Cueto, per poi finire al Prado di Madrid.[4] Tuttavia nel documento ottocentesco non si parla di marmo, ma di gesso, che potrebbe essere identificato in quello oggi nell’A5 alto 174,5 cm. Un altro particolare rivela che si tratta di due opere diverse e non solo nel materiale. Il Thiele affermava che il messaggero degli dei, ritratto sul punto di uccidere Argo, era a capo scoperto per via di imperfezioni nel marmo,[5] dettaglio che non si riscontra nel dipinto del Martens e tantomeno nel gesso posseduto dal Museo danese, che potrebbe essere quello dell’inventario. Thorvaldsen nel libro dei conti del 1820-1823 e del 1824 registra la fattura di un altro Mercurio, che non può riferirsi all’esemplare spagnolo, in quanto dotato del copricapo con le ali, ma a quello commissionato da Carl Friedrich August, duca di Augustemburg, e acquistato dal Museo Thorvaldsen nel 1928, l’altezza del quale è identica al gesso A873. Nel Museo Thorvaldsen si conserva, oltre alle versioni già citate, un altro gesso alto soltanto 52,2 cm (A868), che pare impossibile essere stato esposto nell’atelier di piazza Barberini, dove sarebbe passato completamente inosservato a confronto con le altre opere di dimensioni maggiori. Rimane però il dubbio che quello visto dal Martens non sia il marmo ma il gesso, come riportato nell’inventario, che però registra al n. 233 in via delle Colonnette altre due copie sempre in gesso, nonché le forme in casa di Antonio Ceci, al n. 269.[6]

Ma non è questa l’unica discrepanza che si nota tra il documento e le testimonianze coeve.

Subito dopo il Mercurio al n. 111 è registrato il Copernico, che invece il Thiele riferiva collocato nella prima sezione dello studio. Il contratto, sottoscritto il 30 settembre del 1820 da Thorvaldsen e dalla Società Reale di Varsavia degli Amici della Scienza e delle Belle Lettere, committente di quest’ultima statua, prevedeva l’esecuzione di un gesso colossale e di tutte le forme necessarie per la fusione in bronzo. Il modello fu pronto per il maggio 1821 e venne affidato a Pietro Tenerani, che ne trasse il gesso, spedito a Varsavia nel 1827, corrispondente oggi al n. A113.[7] L’esistenza di questo pezzo acquista importanza in quanto l’originale andò perduto.

Sempre nel secondo settore dell’atelier Thiele collocava il superbo cavallo per il monumento equestre di Józef Poniatowski. Thorvaldsen ricevette questo incarico dalla Polonia. La storia della controversa esecuzione dell’opera è documentata da un fitto carteggio, da cui si evincono le perplessità dei committenti circa la resa idealizzata all’antica del generale e le posizioni autonome di Bertel, che strenuamente difese le proprie idee in fatto d’invenzione artistica.[8] In ogni caso dal bozzetto originario nel 1822 fu ricavato il solo cavallo arabo, studiato dal vero dal danese a Napoli presso il generale Laval Nugent Westmeath, che era venuto in possesso del destriero appartenuto proprio al Poniatowski. Il gesso (n. 112) è quello corrispondente all’attuale inventario A125 del Museo (Fig. 24),[9] che si intravede anche sullo sfondo del disegno del Ricciardelli e che fu immortalato da Georg Seligmann in un olio su tela del 1903 (B455, Fig. 25), in un corridoio del museo di Copenaghen. Le lettere del 1819 ricordavano un altro cavallo, perduto, ma che nel 1844 si trovava ancora nello studio dell’artista al n. 134.[10] Sempre inerente al monumento è la testa colossale dell’eroe citata al n. 134 dell’inventario, nell’atelier di piazza Barberini, oggi A249.[11]

Nel «leone giacente» (n. 113) va identificato il celebre Leone di Lucerna, rielaborazione da parte del “Fidia nordico” della tomba commemorativa di Clemente XIII di Canova. Si trattava di un monumento che onorava la guardia svizzera massacrata per difendere Luigi XVI durante la rivoluzione francese nel palazzo de Le Tuileries. Il promotore del progetto era stato il colonnello Karl Pfyffer von Altishofen, scampato alla strage per aver ottenuto una licenza in patria. Questi aveva raccolto il denaro, ma aveva scartato numerosi progetti, ritenuti di scarso interesse, di artisti locali. Thorvaldsen accettò di realizzare il solo gesso per un compenso di 300 scudi, imponendo come vincolo che il leone non fosse rappresentato morto, ma agonizzante, dando l’idea dell’ultimo respiro eroico delle guardie, e che l’animale non fosse tradotto in bronzo, ma venisse collocato all’interno di una sorta di caverna, scavata dentro una roccia.[12] Quando Thorvaldsen, durante il suo viaggio per Copenaghen fece tappa a Lucerna nell’agosto del 1819, i suoi modelli in gesso, uno di piccole dimensioni e l’altro colossale, ancora non erano arrivati da Roma.[13] La scultura fu poi realizzata da Lucas Ahorn. Il bozzetto oggi si trova all’Historisches Museum di Lucerna forse da identificarsi nel n. 236, ma il Museo danese possiede un calco in gesso (A119) che è lo stesso che partì da Roma dopo il 1844 (n. 114, Fig. 26).[14] Thiele ne parlava come dell’«ultimo leone da lui modellato per il Monumento agli svizzeri», collocato originariamente nello studio che subì il crollo del pavimento nel 1820.

 

Al n. 115 l’Amore delle Grazie è da identificarsi con il gesso che rappresenta Amore con la lira (A786) del 1818, successivamente unito al gruppo delle Grazie, come risulta dal diario di Frederik Schmidt.[15] Fonte di ispirazione per il danese è l’Amorino canoviano che accompagna la Naiade, oggi al Buckhingham Palace di Londra.[16] Il Cupido di Thorvaldsen fu molto apprezzato dai collezionisti dell’epoca, che ne richiesero molteplici repliche, sei delle quali menzionate nella contabilità dell’artista. Bertel stesso ne regalò una alla figlia Elisa, in occasione delle sue nozze con l’ufficiale Fritz Paulsen nel 1832, posseduta ancor oggi dagli eredi Paulsen Diliberto di Palermo. Lo stesso Thorvaldsen dovette scrivere una lettera ad Elisa per convincere il genero a consentire al Bravo di ricavarne una copia per l’avvocato Filippo Ricci. E si deve rammentare che Bravo e Ricci erano stati nominati esecutori testamentari dal Thorvaldsen insieme al pittore Küchler,[17] lo stesso che aveva effigiato la famiglia Paulsen al completo. L’Amorino palermitano è quello che più somiglia al gesso a Copenaghen, mentre il marmo nello stesso Museo si differenzia per la capigliatura, e Hartmann lo riferì alla bottega del maestro.

La n. 116 «una statua ritratto di donna» potrebbe identificarsi, sulla base del Thiele, [18] che la citava nella seconda porzione dello studio grande, in quella della contessa russa Osterman Tolstoy, dal cui modello originale (A167), nel Museo di Copenaghen, fu ricavato il marmo oggi all’Ermitage di San Pietroburgo, commissionato nel 1815 dalla stessa nobildonna in visita a Roma, e consegnato quattro anni più tardi.[19] La statua, che rappresenta la contessa seduta, cogliendo diversamente da prototipi femminili della famiglia Bonaparte di Canova, un aspetto più introspettivo del carattere dell’effigiata, fu descritta anche nella lettera dell’Eckersberg al Clemens risalente al 1815.[20]

La n. 117 «una piccola a sedere», potrebbe invece essere un gesso, realizzato sempre nello stesso periodo, durante il quale Thorvaldsen si dedicò ai ritratti femminili seduti, subendo il fascino del rivale veneto.[21]

Il modello originale del Pastorello (n. 118), il cui successo fu dovuto all’assoluta novità sia iconografica sia tematica, legata alla rievocazione delle Georgiche e dell’Eneide virgiliane, nel 1844 si trovava ancora nell’atelier del danese (A177, Fig. 27); da esso successivamente furono tratte numerose repliche in marmo, di cui una elencata al n. 245, dello studio di via delle Colonnette e attribuita a Pietro Galli, oggi nel Museo Thorvaldsen di Copenaghen.[22] Nell’inventario ottocentesco si rintraccia ancora la statua in gesso n. 231. All’invenzione della postura del giovanetto si collega il racconto del Thiele, che ricordava la statua nel secondo settore dello studio alle rimesse Barberini, circa la posizione casuale assunta da un modello al quale l’artista si ispirò immediatamente realizzandone il bozzetto, aneddoto che, pur messo in dubbio dallo stesso biografo, sottolinea tuttavia l’importanza della ripresa dal vero come prassi collaudata. In realtà la posizione del giovanetto potrebbe essere stata meditata su quella dell’Amore Vincitore di Caravaggio a Berlino, a sua volta debitore del san Bartolomeo del Giudizio Universale di Michelangelo. In ogni caso lo scultore, come sempre, combinò fonti iconografiche diverse, ricordando anche l’Hermes Sciarra, oggi alla Ny Carlsberg Glyptothek di Copenaghen, e il Diadumeno di Policteto, di cui possedeva una copia.[23]

 

L’inventario ottocentesco nominava la statua di George Gordon, Lord Byron, n. 119, il cui bozzetto in piccolo, n. 53, come già visto si trovava in casa di Thorvaldsen. Il poeta venne effigiato seduto su un piedistallo decorato con il Genio della Poesia che suona la lira (A717). Thorvaldsen aveva conosciuto personalmente lord Byron, il quale si era recato presso il suo studio nel 1817. Lo scultore lo aveva immediatamente immortalato in un busto,[24] che più tardi servì anche per il monumento, destinato a una sorta di pantheon degli uomini illustri inglesi e successivamente posto nel Trinity College di Cambridge, su incarico di un comitato capitanato da Hobhouse.[25] Il busto, molto naturalistico, fu inizialmente criticato dal poeta, che poco dopo invece lo accolse come ben riuscito e ottenne talmente tanto successo da essere replicato in molteplici varianti. L’originale infatti rispettava sia la mancanza del lobo delle orecchie, caratteristica di cui Byron andava fiero, perché dimostrava a suo dire una nobile discendenza, sia il particolare dell’occhio sinistro più aperto dell’altro, elementi che conferivano un sapore di verità ad un ritratto idealizzato. Difficile dire quale dei due gessi A130 e A132 sia ricollegabile a quello menzionato nell’inventario.

Il documento antico registrava sia il modello originale in gesso per Vulcano (n. 121, oggi A9, Fig. 28) eseguito a Roma nel 1838, come parte di un ciclo di statue, ispirate all’ode XLV di Anacreonte, da situarsi in una sala del palazzo di Christiansborg, che la statua (n. 127, oggi A10) lasciata incompiuta nello studio romano.[26] La controprova dell’arrivo del gesso al Museo Thorvaldsen successivamente al 1844 potrebbe essere costituita dal dipinto del 1865 del norvegese Johan Christian Dahl, conservato nella stessa istituzione, che raffigurava alcuni personaggi intenti ad ammirare l’opera (B451, Fig. 29).

La Predica del Battista nel deserto (n. 122), che Thiele collocava nella parte più interna dell’atelier, comprendeva dodici statue, atteggiate in modo tale da poter essere agevolmente inserite nel timpano della Vor Frue Kirke.[27] I diversi personaggi rinviano all’antico o a pose già sperimentate da Canova, ma la critica si divise tra coloro che ne elogiarono la varietà di attitudini e d’invenzione e altri che sottolinearono invece l’incapacità di comunicare emozioni. L’intera composizione tuttavia non venne fusa in bronzo, come Thorvaldsen si augurava, ma le singole figure furono tradotte in terracotta. Dai modelli originali, rimasti nello studio dell’artista alle rimesse Barberini e ora nel Museo Thorvaldsen (A59, A60, A61, A62, A63, A64, A65, A66, A67, A68, A69, A73, A77, A78, A79 ecc.), fu tratta la versione in bronzo circa un secolo dopo.[28] Del resto Bertel aveva potuto assolvere molte commissioni proprio grazie ai suoi fidati aiutanti, che utilizzarono i prototipi. La posizione del danese inoltre si era venuta sempre più affermando in seguito alla morte di Canova. Ciò determinò la conquista di un incarico decisamente prestigioso: la commessa del monumento di Pio VII per la basilica di San Pietro. Il cardinal Consalvi aveva risparmiato i soldi di una vita per poter erigere il mausoleo al papa che lo aveva eletto cardinale e segretario di Stato, e aveva individuato in Canova e, in mancanza di questi, in Thorvaldsen l’artefice dell’opera. L’affidamento dell’esecuzione a un artista protestante suscitò molte polemiche, dissipate dallo stesso Leone XII che si recò personalmente nell’atelier dell’artista per visionare l’opera, come documenta il dipinto del Martens.[29] Proprio questa tela e il disegno del Ricciardelli certificano l’esistenza del modello, registrato al n. 123 (A142). Anche Giovan Battista Corboli Bussi[30] ed il Colomb[31] affermavano che la tomba non era ultimata, il francese addirittura precisava che le statue della Provvidenza e della Sapienza si trovavano allo stato di abbozzo e Thiele specificò che: «In questa stanza fu collocato in seguito anche il modello finito del Monumento a Pio VII».[32] Il confronto incrociato tra queste testimonianze induce all’ipotesi, peraltro già formulata, che il quadro del Martens sia una riproduzione falsa dello studio del maestro, infatti egli scompose il monumento in tre parti, collocando sullo sfondo la statua del Papa, e di lato a sinistra quelle delle due personificazioni. Nel 1844 il monumento era sicuramente terminato in tutte le sue parti, ma nell’atelier si trovava solo la figura centrale del pontefice. Al n. 125 dell’inventario la menzione di «Due Angeli formanti parte del sepolcro di Pio settimo in marmo ultimati» si riferisce alle due creature celesti, una con il libro, l’altra con la clessidra ai lati del papa in secondo piano. Tuttavia i compilatori del documento parlano di marmi mentre a Copenaghen si trovano i gessi (A146, A147),[33] ed è più probabile che fossero questi ad essere rimasti nello studio dell’artista, visto che il monumento a quella data era stato già consegnato. Nell’inventario, poco oltre, al n. 154 si trova il bozzetto in gesso di Pio VII, (oggi A148).[34] In ogni caso il monumento papale era stato modellato nello studio che aveva subito il crollo nel 1820, come non mancava di sottolineare il Thiele nel 1824, il quale ne annotava la nuova ubicazione nel settore più interno dell’atelier di piazza Barberini.[35]

Per la Vor Frue Kirke Bertel realizzò le statue di Cristo con i dodici apostoli, trasposte in marmo da una schiera di collaboratori, i cui nomi vengono ricordati dal Thiele, il quale le collocava nel settore più interno dello studio grande.[36] Anche l’adolescente Giovanni Corboli Bussi le aveva descritte nel suo diario di viaggio del 1827, paragonandole per bellezza alle lastre del Trionfo di Alessandro.[37] Ne aveva fatto cenno inoltre il letterato Hillerup,[38] mentre decisamente più ricche di ammirazione si rivelano le descrizioni del Colomb,[39] che addirittura le giudicava il capolavoro di Thorvaldsen, e del Valery,[40] che ne apprezzava la compostezza greca in contrasto con le fisionomie italiane. L’insieme è ben visibile sia nel dipinto del Martens che nel disegno del Ricciardelli, i quali in ogni caso ritrassero lo studio esattamente l’uno dalla posizione opposta dell’altro. L’inventario del 1844 ricorda tutte le tredici statue (n. 124),[41] nel dipinto del Martens oltre a quella di Cristo con le braccia spalancate (A82), si individuano san Bartolomeo con il pugnale con il quale venne scorticato vivo (A99) e forse Giacomo maggiore con il volto barbuto girato verso lo spettatore (A98). Nel disegno di Ricciardelli si vedono Giacomo dietro Gesù e alla sua sinistra Pietro, con le chiavi in mano (A86), dietro cui compare san Paolo con la spada (A103) e a lato san Matteo (A87). Al n. 126 il documento registra le statue di marmo non finite dei santi Taddeo e Matteo. Il primo apostolo era stato modellato a Roma tra il 1823 e il 1827 da Giuseppe Pacetti come un san Giovanni, (A94), riconoscibile dal volto giovanile con capelli e barba lunghi, anche se Thiele lo ricordava eseguito da Marchetti nello studio di via delle Colonnette lasciato dal Thorvaldsen al Tenerani;[42] in seguito il soggetto fu trasformato in san Taddeo da Pietro Galli nel 1842, sotto la supervisione del maestro (A105).[43] Stupisce tuttavia che nell’inventario del 1844 al n. 120 sia riportato «L’apostolo Taddeo (anzi l’imperatore Corradino)», come se la primitiva statua di san Giuda Taddeo, non ancora ultimata, fosse stata modificata in corso di lavorazione. Dunque si crea un po’ di confusione rispetto al san Taddeo che secondo la tradizione derivava da una primitiva statua di san Giovanni, mentre qui sembrerebbe da Corradino. Il san Matteo invece era stato realizzato da Pietro Bienaimé, sull’esemplare del maestro A87.[44] Thorvaldsen approntò i modelli dei dodici di dimensioni maggiori rispetto allo spazio nelle nicchie parietali della chiesa loro destinato, proprio per rivendicare ancora una volta la sua autonomia e libertà di espressione, nonché la volontà di far in modo che la scultura fosse completamente indipendente dall’architettura e dunque non considerata un ornamento, ma una parte fondamentale a sé stante.

Corradino di Svevia era stato commissionato nel 1833 dal principe ereditario Massimiliano di Baviera per essere collocato sulla sua tomba nella chiesa di S. Maria del Carmine a Napoli. Il modello originale (n. 128 oggi A150) corrisponde a quello ancora conservato nel Museo danese. Il marmo era stato abbozzato da Carl Frederik Holbeck nello studio dello scultore a Roma, come dimostra la menzione nel libro dei conti, ma il maestro voleva apportare correzioni, interrompendone il lavoro. La statua fu completata da Peter Schöpf nel 1847.[45]

Dal n. 129 inizia l’elenco dei rilievi che principia con il Carro di Alessandro Magno, difficile da collegare ad uno dei tanti manufatti con questo soggetto presenti nel Museo di Copenaghen, tutti legati ovviamente al ciclo dedicato al grande imperatore persiano. Si può avanzare con cautela la supposizione che la prima lastra corrisponda al frammento catalogato A713, vista la vicinanza con le statue abbozzate di Corradino e di Vulcano che lo precedono.

Ai nn. 131 e 132 si trovano i due pendant con il Battesimo di Cristo, del 1820 (A557) e l’Istituzione dell’Eucarestia (A558),[46] modelli che furono trasposti in marmo per la decorazione della chiesa di Nostra Signora di Copenaghen.

Il monumento a Schiller prevedeva che la statua (n. 133, A 770) fosse collocata su una base con tre rilievi rappresentanti l’Apoteosi di Schiller, (n. 172, oggi A135) il Genio della Poesia sul lato destro, e la dea della Vittoria su quello sinistro (nn. 133, 152 oggi A137), tutti e tre ospitati nello studio di piazza Barberini. L’opera era stata commissionata dalla Società per il Monumento a Schiller di Stoccarda nel 1830, con il desiderio che il volto del poeta, raffigurato seduto, fosse desunto dal busto colossale di Dannecker del 1794 ora nello Schiller Nationalmuseum della stessa città. Thorvaldsen invece licenziò un bozzetto con il letterato in piedi, con la testa coronata di alloro e una penna ed un libro nelle mani.[47] Bertel realizzò anche il busto in gesso come si desume dal n. 220 dell’inventario. Il monumento definitivo in bronzo venne fuso dai modelli originali nel 1839 da Johann Baptist Stieglmair e collocato su un piedistallo progettato dall’architetto danese Michael Gottlieb Bindesøll.

L’Amore e Imeneo del n. 136 era stato eseguito a Roma tra il 1841 e il 1844, (A452), come annotato con diligenza da Carl Frederik Holbech nel libro dei conti dello studio dell’artista e menzionato successivamente in un pagamento di Luigi Scaramelli.[48] Il fatto che il rilievo sia ricordato con il suo pendant, l’Amore e Psiche, eseguito a Nysø nella primavera del 1840 (A450) fa supporre che Thorvaldsen ne avesse prodotto una replica, rimasta finora sconosciuta.

Il rilievo con Achille e Briseide era probabilmente quello commissionato nel 1837 da Alessandro Torlonia per il cortile di palazzo Giraud (n. 137, oggi A491),[49] variante della prima versione realizzata nel 1803 per il barone della Curlandia Theodor von Ropp, ora in Lituania al Museo Nazionale di Arte di Kaunas.[50] Questo fu il primo bassorilievo che guadagnò al Thorvaldsen il titolo di “Fidia nordico”. I contemporanei, tra i quali il filosofo August Wilhelm Schlegel, rimasero colpiti soprattutto dalla reazione convulsa di Achille, l’unica figura realmente modificata nella versione del 1837.[51] Da notare come l’artista nel suo studio avesse esposto questi ultimi tre bassorilievi uno vicino all’altro, viste le dimensioni simili.

Se troppo generiche risultano le annotazioni dei nn. 138 e 139 riferite a rilievi concepiti come ornamenti per un monumento sepolcrale, i nn. 140 e 141 «Un Battisterio, ossia Fonte di Battesimo, Due bassirilievi appartenenti al suddetto Battisterio», forse si collegano al «n. 148 Battesimo del Salvatore bassorilievo, seguito della vita di Gesù Cristo», e ai «nn. 218 e 219: Bassorilievo in marmo il Battesimo di Gesù Cristo; detto in marmo Tre Angeli» che potrebbero riguardare la committenza della baronessa Charlotte Schimmelmann, sorella del console Schubart, per un fonte battesimale per la chiesa danese di Brahetrolleborg a Funen. La baronessa rivestì un ruolo fondamentale per il successo del connazionale in Danimarca, non solo ospitandolo nella sua villa di campagna a Montenero presso Livorno nel 1804, quando l’artista si ammalò,[52] ma anche chiedendo all’architetto Hansen di coinvolgerlo nella decorazione della chiesa di Christiansborg. Bertel, dopo aver elaborato dei disegni consoni alla forma tradizionale del fonte, secondo i desideri della nobil donna, pensò ad un parallelepipedo, decorato da quattro rilievi: il Battesimo di Cristo, Gesù benedice un fanciullo, la Madonna con Bambino e san Giovannino e la Gloria di angeli fluttuanti. Guattani ne elogiò la novità concettuale, ispirata alla forma delle primitive are, trasformate in fonti dal tempo di Noè. In realtà Thorvaldsen mescolò abilmente elementi derivati dall’iconografia antica ad altri più moderni, tra cui i rilievi con le opere misericordiose di Canova, e rimandi a quadri di Raffaello.[53] Il modello originale in gesso dell’intero fonte (A555) si trova nel Thorvaldsen Museum e risale al 1805-1807 circa, ma si conoscono calchi della scena con il Battesimo di Gesù del 1820 (A557 e A730), uno dei quali fu tradotto in marmo su incarico della società di Adam Wilhelm Moltke e Nicolai Holten, per la Frue Kirke di Copenaghen.[54] Il modello originale di questo episodio fu acquistato all’asta delle opere di Thorvaldsen nel 1849 dal suo cameriere personale, Carl Frederik Wilckens, poi comprato dallo scultore Rasmus Secher Malthe, che lo vendette al fabbricante di birra Carl Jacobsen. Oggi si trova nella Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen. Si suppone che i bassorilievi menzionati al n. 141 dell’antico inventario possano riferirsi ad altre scene. Si sa che numerose varianti e repliche in gesso furono realizzate, anche perché il fonte fu la prima opera di Bertel esposta in patria, dopo quelle eseguite durante il pensionato accademico, decretando il successo dello scultore, che in tal modo si assicurò commissioni pubbliche successive.[55]

Al Museo Thorvaldsen finirono i quattordici medaglioni originali con Apollo e le Muse n. 142, del 1836, di cui facevano parte anche quelli con Minerva, Le Grazie fluttuanti e il Genio della Luce con Pegaso.[56] Nei medaglioni Thorvaldsen riprodusse l’iconografia delle Muse già in parte esperita nel rilievo con il Trionfo del Parnaso (nell’inventario n. 146), modellato nel 1816.

Il «busto di Wolberg» del n. 143 potrebbe essere quello di Willerup scultore e intagliatore danese della Marina Reale, immortalato dal collega nel 1796.[57]

Il gesso con Cristo che consegna le chiavi a san Pietro (n. 144) potrebbe riconoscersi in quello oggi inventariato A564, risalente al 1818, di cui esistevano le forme, al n. 274 in casa di Antonio Ceci.[58] L’opera era destinata alla cappella della Santissima Annunziata della Villa di Poggio Imperiale a pendant con la Predica di San Giovanni Battista poi replicata per la Vor Frue Kirke. Il modello va ricercato nell’arazzo con lo stesso soggetto di Raffaello oggi nei Musei Vaticani, chiaro rimando al tema della superiorità del pontificato cattolico.[59]

Il n. 146 intitolato il Trionfo del Parnaso va identificato con il rilievo che rappresenta Apollo, le Muse e le Grazie nel Parnaso (A341),[60] variante di altri due con tematica uguale destinati uno ad ornare il camino della granduchessa Elisa Baciocchi, l’altro, non completato, per i conti Schubart.[61]

Le Grazie del n. 149 potrebbero identificarsi nel pezzo A374 del Museo danese, dove le tre fanciulle danzano da sole senza essere accompagnate da Cupido.

Difficile dire quale dei due gessi che hanno per soggetto la Fucina di Vulcano (A419 e A420) possa corrispondere al n. 150, mentre il Giudizio di Salomone del n. 151 potrebbe essere il rilievo A554, del Museo di Copenaghen, commissionato nel 1806, ma eseguito dal maestro solo nel 1835 per il frontone del Råd og Domhuset, palazzo del municipio e tribunale della città, mai realizzato.[62]

Nel n. 155, forse replicato nel n. 170 come «Cena di Nostro Signore», va identificato il prototipo (A562) che servì per il rilievo d’argento per il tabernacolo dell’altare maggiore della SS.ma Annunziata a Firenze, eseguito nel 1819 su commissione di Ferdinando III d’Asburgo Lorena, e fuso da Jollage & Hopfgarten, ma che non riguarda l’ultima cena come si potrebbe supporre dalla laconica citazione inventariale, bensì un Cristo con i discepoli di Emmaus.[63]

Al n. 156 Amore con il leone addomesticato deriva da un gesso del 1809 tradotto in marmo nel 1811, lo stesso anno della morte di Zoega, per il principe tedesco Malthe von Putbus, sfortunatamente andato distrutto nell’incendio del castello di Pokroy a Rugen nel 1865. Il manufatto si ispirava per quanto riguardava Amore ad un cammeo conservato agli Uffizi, già studiato dal Carstens e da Flaxman, nonché ad un’opera di Keller a Zurigo nella Kunsthouse, mentre per il leone a quello antico Barberini, a significare la potenza dell’amore sulla forza fisica.[64]

Al Museo Thorvaldsen si trova un altro gesso, variante del modello del 1809, che potrebbe essere quello ricordato nell’inventario A390.

Presso il Ceci si trovava anche il calco del rilievo con Amore e Bacco (le prime menzionate al n. 156, presso Ceci n. 275), ricordato nell’inventario antico come Amore che dà da bere a Bacco, il cui gesso originale del 1810, già nel Randers Kunstmuseum in Danimarca, è andato perduto. Una replica rilavorata e con le figure collocate all’interno di una lunetta si trova a Copenaghen nel Thorvaldsen Museum (A408) e una terracotta era stata collocata su un muro della casa di Bienaimé a Carrara. Altri marmi con questo soggetto vennero richiesti al maestro nel 1824, uno firmato appartiene ad una collezione privata svedese, di un altro, passato per un’asta Sothebys a Londra nel 2005, si ignora l’attuale ubicazione, un terzo, a forma di lunetta, già del conte Grigorij Orlov, si trova oggi all’Ermitage di San Pietroburgo.[65]

L’unico bozzetto noto della Resurrezione n. 158, oggi A561, realizzato nel 1835, era preparatorio per la Slotskirken di Copenaghen.[66]

Al n. 159 sono ricordati i quattro medaglioni raffiguranti l’Infanzia o Primavera (A642), la Giovinezza o Estate (A643), la Maturità o l’Autunno (A644), la Vecchiaia o l’Inverno (A645), che Thiele datava 1835, mentre Marie Puggard nel suo diario raccontava come il maestro glieli avesse mostrati nel 1836. Il successo del ciclo si manifestò nelle commissioni ricevute da Johann Scholl, da parte di Guglielmo I e di altri privati, tra cui alcuni inglesi.[67]

Al n. 160 tre copie di Anacreonte e Amore, composizione che segnava con la Notte ed il Giorno, una svolta romantica nella scultura di Thorvaldsen; il soggetto doveva rappresentare l’Inverno e fu concepito nel 1823 come pendant di A Genio Lumen per Thomas Hope. In Anacreonte, poeta antico che proteggeva Amore dai rigori dell’inverno, ma che, trafitto dalla freccia di lui, se ne innamora, si nascondeva l’identità di Hope stesso, il quale, grazie al successo del Giasone da lui commissionato aveva consentito al danese di restare a Roma.[68] Secondo il libro dei conti di Thorvaldsen il rilievo si trovava ancora in esecuzione nello studio del maestro nel 1824, ed era stato poi donato all’Hope e successivamente acquisito dal museo danese (marmo A827). Si conoscono tuttavia almeno altre quattro versioni in marmo e diventa impossibile, in assenza della specifica dei formati e di una descrizione più dettagliata, riconoscerli in quelli elencati nell’inventario del 1844.[69]

Al n. 163 dell’inventario la frase sibillina «busto di grazie di Vernet» farebbe quasi pensare a un dono di una delle numerosissime repliche del gruppo all’amico pittore.[70]

Ancora ai nn. 164 il «Trionfo di Alessandro», e quattro lastre non specificate, ma attinenti allo stesso ciclo (n. 165), di cui si rintracciano ulteriori versioni ai n. 192 «Trentacinque bassirilievi del Trionfo di Alessandro» trovati in marmo e n. 193 «Sedici dello stesso bassorilievo piccoli in gesso». Quelli del n. 192 sono gli stessi visibili nel celebre dipinto del Martens, nel disegno di Ricciardelli e nella testimonianza di Giovan Battista Corboli riguardanti però la committenza Sommariva[71] e corrispondono anche a quel che ricordava il Thiele, che per far capire quanto fosse maestoso lo studio di piazza Barberni affermava:

Questi tre settori, della cui grandezza è possibile farsi un’idea ricordando ciò che vi era sistemato, erano collegati dall’esemplare in marmo, quasi terminato, del Trionfo di Alessandro, che ne occupava tutta la lunghezza, lungo il pavimento, sul lato sinistro.[72]

 

Esistono numerose versioni del bassorilievo con la Notte, n. 167, del 1815 circa, di cui il museo danese possiede un originale in gesso (A369) e i due marmi A901 e A905. Thorvaldsen ne propose sostanzialmente due varianti, che si diversificano riguardo la posizione dell’ala,[73] come del resto accade anche per il pendant con il Giorno, modificato nella veste (gesso originale A370). Impossibile sapere se i due modelli sono gli stessi citati nell’inventario antico. Il libro dei conti del maestro menziona diversi rilievi con questo soggetto e anche nell’inventario del 1844 si trova registrato un altro medaglione con il Giorno n. 208.[74] Secondo Jørnaes questi furono i bassorilievi più copiati, non solo in gesso ma anche in biscuit, dell’artista, il quale li plasmò nel suo appartamento nella pensione di palazzo Buti, mostrando l’argilla della Notte ancora fresca al suo amico pittore Eckersberg, che assistette persino all’ideazione del Giorno e al conferimento per entrambi i rilievi della forma rotonda.[75] La Notte reca in braccio il Sonno e la Morte e vola verso il basso, superando una civetta ad ali spiegate, mentre il Giorno si dirige verso il cielo, con il Genio della luce sulle spalle.

Si conoscono tre marmi rappresentanti l’episodio di Priamo che implora Achille di restituirgli il corpo di Ettore, n. 168, uno commissionato da John Russell, duca di Bedford come pendant dell’Achille e Briseide (inv. n. 137), eseguito nel 1818 oggi nella Wouburn Abbey di Bedfordshire in Inghilterra, un altro ora a Chatsworth House, Deryshire sempre in Inghilterra, ed infine l’ultimo eseguito nel 1837 per palazzo Giraud Torlonia. Nel Museo Thorvaldsen si conserva il gesso originale (A492), che potrebbe essere quello dell’inventario antico, dal quale fu tratto il calco oggi all’Accademia di San Luca a Roma.[76]

Il principe ereditario Maximilian di Baviera aveva commissionato nel 1832 cinque rilievi dedicati ad Alessandro Magno, ma venne realizzato solo quello con Alessandro Magno dà alle fiamme Persepoli nel 1837 (n. 169), di cui esistono il gesso originale del 1832 (A515),[77] ed un’altra versione del 1837 (A516), probabilmente quella dell’inventario.

La venditrice di Amorini fu un tema molto caro agli artisti dell’Ottocento. Il modello originale risale al 1831 (A425, n. 173) da cui furono tratti un marmo nel Museo Thorvaldsen A424 e un altro scolpito da Johann Scholl nel 1831 e acquistato da Guglielmo I re di Würtemmberg nel 1836, mentre oggi si trova nel Würtemmbergischen Landesmuseum di Stoccarda.[78]

Purtroppo i compilatori dell’inventario nel ricordare i due bassorilievi al n. 176 con Cacciatore e cacciatrice non precisano quali animali accompagnino i protagonisti. Infatti il personaggio maschile era stato pensato inizialmente come affiancato da un’aquila, sostituita da una lepre nella versione finale, impossibile quindi ricondurre l’inventario alle opere.[79]

Nel documento antico vi sono due composizioni con Minerva tra virtù e Vizio: sicuramente la n. 176, definita «bassorilievo sepolcrale» è da mettersi in relazione con la base del monumento a Thomas Maitland nell’isola di Zacinto in Grecia del 1820 (A600) la cui forma n. 213 si trovava nella bottega di Antonio Ceci.[80]

Il gesso del busto della baronessa Stampe,[81] ritratta con vivo senso psicologico, conservato al Museo Thorvaldsen, non può corrispondere al n. 177, definito di marmo, le cui forma si trovavano presso Antonio Ceci n. 287.

Dal n. 180 al n. 188 sono menzionati nuovamente diversi “ferri del mestiere”, cavalletti, scale, trapani, leggii e pezzi di marmo da lavorare ad ulteriore garanzia della prolifica attività di questo museo-laboratorio e soltanto alla fine dell’inventario si accenna alla presenza di due tende grandi e due piccole che potrebbero essere quelle che separavano i tre settori descritti da Thiele e visibili nelle testimonianze grafiche del Martens e del Ricciardelli. L’atelier di piazza Barberini era certamente quello di rappresentanza dell’artista, che sfruttando anche la posizione strategica in cui era ubicato, sapeva di potersi procacciare facilmente commissioni e ammiratori. Del resto era questo l’ambiente maggiormente raffigurato, descritto e visitato dai personaggi che contavano, un vero polo d’attrazione culturale irresistibile, dove già si respirava un’atmosfera cosmopolita.

 

 

 

L’atelier di via delle Colonnette 38

 

Nel 1844 Thorvaldsen non risultava più affittuario dei piccoli studi di via delle Colonnette, descritti nel contratto di affitto del 1815 e dal Thiele nel 1824, ma di uno soltanto, al civico 38, l’ultimo ad essere visitato dagli esecutori testamentari. Questi elencarono prima i rilievi, dal n. 192 al n. 219, probabilmente collocati in alto, lungo le pareti, poi i busti, a partire da quello di Schiller, ai nn. 220 e 221 fino al n. 229, ed infine le statue dai nn. 230 a 246. Mancano dunque i bozzetti dei monumenti.

Si comincia con le immancabili lastre del Trionfo di Alessandro, e quelle relative al fonte battesimale della Von Frue Kirke di cui si è già parlato, nonché con manufatti che è impossibile ricollegare ad opere conservate in Danimarca per la genericità con la quale sono descritti, un gesso per un monumento sepolcrale (196) un ritratto (197). Nel museo di Copenaghen invece è conservata una lastra di marmo con Amore che cavalca l’aquila, simbolo del potere di Amore su Zeus, padre degli dei, (A377) del 1828 circa, i cui modelli potrebbero identificarsi nelle due copie con Amore sull’aquila citate al n. 198 dell’inventario, una delle quali corrisponde all’attuale A381.

Il bozzetto n. 199 oggi A344 con Apollo con i pastori, realizzato verso il 1837, fu successivamente riutilizzato da Pietro Galli per la decorazione del frontone di villa Carolina a Castel Gandolfo.[82]

Probabilmente il n. 200 del documento corrisponde ad un’invenzione del 1809 Mercurio che affida Bacco infante a Ino, di cui esistono due gessi al museo Thorvaldsen: il primo (A346) è una versione rilavorata del modello originale A347 tradotto in marmo per il principe Wilhelm Malte von Putbus, che lo ricevette nel 1811. Il pezzo andò distrutto in un incendio nel 1865.[83] Faceva pendent con Venere consola Amore punto da un’ape da identificarsi con il rilievo citato al n. 216, il cui successo è confermato dalle diverse repliche con varianti.[84]

Il modello originale in gesso con Ulisse che riceve da Minerva le armi di Achille del 1831, (n. 202 corrispondente oggi all’A498) era stato ideato per decorare una statua colossale di Achille mai realizzata.[85]

L’inventario scioglie il dubbio circa l’esistenza di due gessi con Nesso e Deianira (n. 203) utilizzati il primo nel 1821-23 per eseguire il marmo acquistato da Paolo Marulli di Napoli e finito nel Museum of Art di New York, e l’altro per realizzare il gruppo oggi a Copenaghen A482.[86] Nel Museo si conserva il gesso A481. Il bozzetto tuttavia doveva risalire ad anni precedenti, in quanto descritto in una lettera che nel 1815 il pittore Eckesberg scrisse all’acquafortista Clemens.[87]

Al n. 204 sono ricordati tre bassorilievi destinati ad un generico monumento sepolcrale, mentre al n. 207 Ila e le ninfe dovrebbe corrispondere al secondo modello del 1833 (A485),[88] realizzato dopo che il primo, del 1831 (A483), non aveva soddisfatto Thorvaldsen.[89] In ogni caso i due rilievi, (esistono le forme in gesso che l’inventario registra al n. 281 in casa di Antonio Ceci, forse l’A483, da cui fu tratto il marmo destinato al palazzo Giraud Torlonia), sono unici nella produzione del Thorvaldsen, che introdusse la scena in un contesto paesaggistico, assente nelle altre sue produzioni. A questo tema Bertel si era dedicato appena giunto a Roma insieme al suo amico pittore Koch, che nel 1832 dipinse un quadro molto prossimo all’invenzione scultorea del collega.[90]

Ai numeri 209 e 217 sono registrati i bassorilievi con Baccante ed un satiro: Thorvaldsen realizzò nel 1833 una versione di una Baccante con satiro fanciullo entro una lunetta (A355) da cui fu ricavato il marmo (A354), [91] ed un’altra con il Satiro che danza con una Baccante A357 (marmo A358) del 1840. Tuttavia se il n. 211 corrisponde al gesso con Pan e Satiro A353,[92] ugualmente contenuto in una lastra a forma di lunetta, risalente al 1831, è probabile che anche la composizione con Satiro e Baccante sia la A355, che presenta lo stesso formato.

Il Cristo del n. 212 potrebbe essere il modello preparatorio da cui furono desunti tanti calchi per la statua destinata alla Von Frue Kirke. Un gesso era menzionato da Thiele nello studio grande del maestro, come dichiarato dal Tenerani. Dall’originale fu tratto anche il busto frammentario che gli esecutori testamentari del Thorvaldsen donarono, insieme ad altri pezzi, all’Accademia di San Luca.[93]

Nel n. 214 «Monumento sepolcrale di Schinbach» si può ipotizzare di riconoscere la lastra per il Monumento a Jaqueline Wieling Schubart, olandese, moglie di Herman, intendente generale danese addetto ai porti italiani, raffigurato al capezzale della consorte, venuta a mancare nel 1814 (A618). L’opera non fu mai consegnata e persino il rilievo in marmo rimase al maestro, per poi essere trasferito al Thorvaldsen Museum (A704).[94] Si suppone con cautela, senza poter avere riscontri precisi, che Herman Schubart possa essere identificato nel busto citato al n. 226 dell’inventario antico. Il Museo possiede due gessi (A718, A812) e un marmo A219, tutti del 1804, del ritratto del diplomatico olandese, che ospitò varie volte l’amico scultore a Livorno.[95]

Forse nei «Tre angeli» del n. 219 dell’inventario ottocentesco va individuato il prototipo per il gesso collocato nel tamburo della Slotskirken di Christiansborg a Copenaghen, finora documentato solo da alcuni disegni del maestro.[96]

Come già accennato in precedenza dal n. 220 parte l’inventariazione dei busti. Al n. 222 sono ricordati due busti del pittore norvegese Dahl, conosciuto a Dresda nel 1820, di cui Thorvaldsen possedeva alcuni paesaggi, che lo avevano affascinato per l’interpretazione della luce e dell’atmosfera.[97] La notizia desta interesse in quanto Sass conosceva solo un busto del pittore, quello finito al Museo (A229).[98]

Si può ipotizzare che i nn. 224 e 225, corrispondenti ad un ritratto di ragazzina in gesso e alla sua traduzione in marmo, possano riferirsi alle effigi della quindicenne Auguste Böhmer, figlia del geologo Johann Franz e di Caroline Michaelis. Il monumento funerario dell’adolescente era stato ordinato dal poeta August Wilhelm Schlegel, secondo marito di Caroline, a Christian Friedrich Tieck, che tuttavia aveva scolpito solo il busto della fanciulla. Fu l’ultimo consorte di Caroline, il filosofo Friedrich Schelling, a contattare Thorvaldsen, nonostante avesse poco denaro. Lo scultore rendendosi conto dell’importanza strategica di assolvere a tale incarico, che lo avrebbe reso famoso a Jena, accettò la commessa, ed ispirandosi all’idea del filosofo, rese omaggio anche alla madre, rappresentata nel momento in cui assisteva la figlia malata, affiancata da Nemesi e da un genio funerario con face rovesciata, elemento poi ripreso da Canova per il monumento degli Stuart nella basilica di San Pietro. Per motivi ancora sconosciuti i rilievi che dovevano ornare il ricordo funerario, iniziati nel 1811-1812, ma rilavorati in alcune parti nel 1817, non furono consegnati, ed il tutto venne depositato nel Museo Thorvaldsen (A700 e A702), insieme al busto della ragazza, (A703), che potrebbe identificarsi in quello citato nell’inventario e tratto dal modello di Tieck (G245), inviato appositamente a Bertel per la realizzazione della tomba.[99]

Il n. 227 corrisponde ad uno dei numerosi busti del Sommariva, grande estimatore dello scultore,[100] mentre si ignora a tutt’oggi l’esistenza di un’effigie del Poninski citata al n. 229 dell’inventario, da relazionarsi probabilmente al monumento commissionato nel 1835 dalla principessa Helena Poninska, collocato sulla tomba dei suoi figli nel 1842, ora nella Galleria d’Arte di Uviv in Ucraina.[101]

Dal n. 230 comincia l’elenco delle statue: la prima, quella di Amore con l’arco, di cui al n. 239 si menziona una replica ma con l’arco rovinato, la cui originaria invenzione risale al 1819, con molteplici versioni registrate nel libro dei conti dell’artista alle date 1821-1823, 1826-1828, 1832-1833, e 1838-1841.[102]

Al n. 233 sono registrate due copie in gesso di Mercurio, oggi A45 e A868 del museo danese. La statua del dio rappresentato giovane e sedente viene considerata una variante del tema del Pastorello. Fu modellata nel 1818 e destinata ad avere un successo strepitoso a partire dalla versione acquistata nel 1822 da Alexander Baring, e ciò ne giustifica anche le copie presenti nell’atelier romano dello scultore. Il soggetto è tratto dalle Metamorfosi di Ovidio e rappresenta Mercurio che, fingendosi un pastore, suonando un flauto, riuscì a far addormentare Argo, al quale Giunone aveva raccomandato di sorvegliare Giove. La posa quasi in bilico del nume, raffigurato mentre si accinge a suonare, si ispirava a quella reale di un giovane seduto presso un portone in via Sistina, e la sua naturalezza affascinò i committenti dell’epoca.[103]

Il gesso di Polluce n. 234 è una replica di quello realizzato nel 1799, oggi inventariato A54, (Fig. 13), e testimonia come anche il “Fidia nordico” si fosse dedicato alla copia del celebre gruppo dei due Dioscuri di Monte Cavallo, come già altri colleghi dell’epoca, durante i primi anni di soggiorno a Roma, su suggerimento del maestro Abildgaard.[104] Thorvaldsen aveva riprodotto due volte lo stesso personaggio, a figura intera e solo la testa, e aveva spedito entrambi i pezzi in patria tra la fine del secolo e l’inizio del successivo per ottenere il prolungamento della borsa di studio in Italia.[105]

Resta molto difficile invece collegare il frammento in gesso della statua di Ebe, n. 235, con le versioni note.[106]

Al n. 237 è citata una testa colossale di Goethe realizzata su modello di quella di David, non rintracciata. Thorvaldsen aveva eseguito i modelli per il monumento del poeta per Francoforte sul Meno nel 1840, ricevendone la commissione durante il viaggio che lo riportò in patria, ma la realizzazione finale dell’opera fu affidata a Scwanthaler.[107]

Al n. 240 è registrato il ritratto di Marie Sophie Frederikke, regina di Danimarca, eseguito tra il 1819 ed il 1820, oggi A860.[108] L’elaborata acconciatura, trattenuta da una fascia con un diadema, il mantello che ricade sulle spalle scoprendo il seno e la collana di perle, nonché l’espressione della donna conferiscono al ritratto quella sensazione di alterigia mista a grande naturalezza, qualità che ben si confacevano ad una regina. A questo busto sono da connettersi le altre sei effigi n. 162, tra cui probabilmente anche quelle delle principesse Carolina e Guglielmina Maria, del principe Federico Carlo Cristiano e del re Federico VI.[109]

Complicato ricondurre la Danzatrice del n. 241 ad uno dei numerosi gessi conservati nel Museo Thorvaldsen.[110] Del resto il soggetto era uno dei più praticati dagli scultori neoclassici per le infinite possibilità di rappresentare la grazia femminile. Thiele affermava di aver visto la statua di una Danzatrice nel secondo settore dello studio grande di piazza Barberini, da dove evidentemente proveniva.

Nell’atelier di via Colonnette i redattori non mancarono di menzionare tre opere ai nn. 243, 244 e 245, realizzate da Pietro Galli. Questi era stato uno dei più importanti collaboratori del “Fidia nordico”; quando nel 1838 Thorvaldsen tornò a Copenaghen, gli affidò il compimento di molti lavori, incaricandolo di fungere da direttore dell’atelier al posto di Pietro Tenerani e lasciandogli inoltre l’appartamento in via Sistina fino al suo ritorno nel 1841. La statuetta di Bacco del n. 244 del Galli potrebbe correlarsi ad un modello in gesso (A2) risalente al 1804, da cui fu ricavato un marmo ricordato persino da Guattani.[111]

Dopo aver descritto la cassa con il busto colossale dell’amico pittore Vernet, gli esecutori dell’inventario si soffermarono nuovamente sugli attrezzi da lavoro, cavalletti, leggii, non dimenticando di ricordare i bozzetti delle Grazie, n. 254, del Ganimede con l’aquila, n. 255, che un tempo si trovavano nel secondo studio nel vicolo delle Colonnete Barberini[112], e alcuni bassorilievi i cui modelli erano già stati spediti dall’Holbech in Danimarca, n. 261.

Dunque questo atelier era più piccolo per dimensioni rispetto a quello prospiciente la piazza e accoglieva i gessi meno ingombranti e l’inventario è l’unico documento che lo descrive.

Al termine di quest’altra giornata di fatica i compilatori del documento tornarono indietro a visionare il magazzino della casa di via Sistina, situato al portoncino n. 28.

 

 

Il magazzino di via Sistina n. 28 e di nuovo l’appartamento.

 

 

Il magazzino sottostante l’appartamento dove Thorvadsen abitava in via Sistina, con l’eccezione del bozzetto per il monumento del principe Karl Philipp von Schwarzenberg commissionatogli dall’imperatore Francesco I d’Austria nel 1821, corrispondente al A120,[113] era utilizzato come deposito di materiali che potevano servire all’occorrenza: busti e gessi rotti, un armadio senza sportelli, aste per sostenere i gessi, tavole. Thiele definiva questo luogo «Una tetra cantina», dove si trovava «Una raccolta dei suoi stessi modelli, alcuni dei quali eseguiti in precedenza e qui abbandonati nelle tenebre».[114] Finita la ricognizione, i redattori del documento ritornarono nella dimora di Bertel, per analizzare i documenti conservati nei cassetti del comò, tralasciati precedentemente. Nonostante il proverbiale disordine di cui il danese si circondava, le carte, le lettere, le giustificazioni, i contratti di affitto degli ateliers, i resoconti dei collaboratori, i diplomi ricevuti dai sovrani, nonché gli assegni a lui intestati dal Banco Torlonia risultavano invece sistemati con cura e catalogati in mazzi, e questo fa pensare ad un uomo accorto negli affari e preciso nell’amministrare il patrimonio pecuniario. E dunque le fragilità che talvolta lo rendevano emotivamente instabile, svogliato e scorbutico con gli allievi, nascondevano un affarista attento, o meglio un uomo deciso a riscattare la sua infanzia e adolescenza segnate da privazioni.

 

 

La bottega di Antonio Ceci

 

Gli avvocati Ricci e Bravo conclusero l’inventariazione dei beni di Thorvaldsen con l’elenco delle forme in gesso rimaste presso Antonio Ceci. Non si conosce molto di questo personaggio che viene definito dal Mercurio di Roma un formatore; si può arguire che fosse un collaboratore, di cui evidentemente il danese si fidava. Il suo nome figura anche nella lista di assistenti del Thorvaldsen rintracciabile nel sito web del museo di Copenaghen, nella quale Ceci è definito un formatore dagli originali del maestro, attivo dal 1810 al 1834, data evidentemente da posticipare fino al 1844 ed oltre. Lo studio del Ceci era ubicato in piazza dei Capuccini n. 93, a poca distanza dall’atelier situato al civico 83, intestato a Pietro Tenerani.[115] La menzione del nome del Ceci nell’inventario dei beni del Thorvaldsen apre sicuramente altre strade di indagine sui collaboratori del maestro, ancora tutti da scoprire.

La lista delle opere da lui conservate viene suddivisa in due parti: figure e bassorilievi, anche se non vi è accenno al modo in cui queste forme erano esposte.

Tra il 1813 ed il 1816 Thorvaldsen aveva ripreso il modello di Venere con il pomo, proponendola come la sua interpretazione del concetto di grazia, più naturalistica rispetto al prototipo di bellezza femminile espresso da Canova nelle Grazie. Molti nobili dell’epoca ambirono ad annoverare la statua nella loro collezione, tra essi Lord Lucan, il IV duca di Devonshire, Guglielmo I di Prussia, motivo che ne giustifica anche la presenza di questi modelli presso la bottega del Ceci.[116] La statua fu nominata oltre che nella già citata lettera di Eckerberg, anche nel diario di Fanny Caspers,[117] che tuttavia le preferiva altre opere del danese, e in una testimonianza del musicista Rudolph Bay, ammaliato dalla sua avvenenza.[118] Oltre al gesso del museo di Copenaghen A12 sono noti anche due calchi, uno a Roma all’Accademia di S. Luca e uno all’Accademia di Carrara.

Ceci possedeva almeno quattro forme del Ganimede (un gesso era in casa dell’artista n. 5) nn. 271, 272, 273, di cui uno in coppia con Amore di cui si parlerà in seguito (n. 285). Nel resto dell’inventario soltanto un Ganimede viene riferito accompagnato dall’aquila, (n. 255), ricordata anche da sola (n. 232), in ogni caso la menzione di queste forme certifica, qualora ce ne fosse bisogno, il successo del soggetto.[119]

Dal n. 274 inizia l’elenco dei bassorilievi con Cristo che consegna le chiavi a Pietro di cui esisteva il gesso n. 144, nello studio grande di piazza Barberini. Anche dell’Amore che dà da bere a Bacco, n. 275, esisteva la versione in gesso registrata al n. 156 nello studio grande.

Resta il dubbio invece circa l’interpretazione del n. 276, citato come Favorio, forse una copia sconosciuta del celebre Marforio capitolino?

Le forme della Baccante del n. 277, potrebbero essere quelle relative al bozzetto della collezione Thorvaldsen di Nysø.

Al n. 278 si riconoscono le forme del gesso oggi A425 della Pastorella con il nido di Amorini, del 1830-32, dal quale furono tratti almeno tre marmi, di cui uno a Copenaghen reca la firma dello scultore.[120]

I nn. 279 e 280 Imeneo e le Grazie[121] dovrebbero costituire con i nn. 282, 283, 284 e 285 rispettivamente Amore con il cane e Amore che fabbrica una rete per catturare una farfalla, Amore e Giove, Amore e Ganimede un insieme facente parte del ciclo dedicato ad Amore.[122] Il 23 giugno del 1831 infatti Thorvaldsen ricevette una lettera dall’amico poeta Angelo Maria Ricci, che aveva scritto sei versi, ognuno dei quali riferito ad un’impresa di Amore. Nel Museo di Copenaghen si trovano i marmi con Imeneo, dio del matrimonio (A454), e con le Grazie che legano Cupido al tronco di un albero con una catena fatta di rose (A375), con Giove e Giunone (A393) e con Ganimede (A393, che hanno un formato rettangolare, gli ultimi due sono anche incorniciati, mentre gli altri, Amore con il cane, simbolo della fedeltà, e Amore che fabbrica una rete per catturare una farfalla, simbolo dell’anima umana, sono sagomati a lunetta (A396, e A397). Tutte queste lastre furono eseguite entro il 1831, soltanto la prima qualche anno più tardi, ma entro il 1834. Altri rilievi legati a questo ciclo si ritrovano oltre che al 27, ai numeri 48 e 49 e 206 dell’inventario antico, quest’ultimo nell’atelier di via Colonnette 38.

In esecuzione dal maggio del 1832 al novembre dell’anno successivo, secondo i libri dei conti, risulta essere il rilievo con Ila rapito dalle ninfe, del quale Ceci conservava la forma n. 281, di cui esistono due versioni come già accennato in precedenza, una delle quali nello studio di via delle Colonnette (n. 207).[123]

Al n. 286 è menzionata una forma per «Tobia», mentre al n. 287 tornano le forme per il busto della baronessa Stampe, di cui esisteva un’altra versione in marmo citata al n. 177, che tuttavia non corrisponde con il gesso ospitato a Copenaghen.

Riguardo al Putto con la lira invece è bene spendere qualche parola soprattutto in relazione ad un articolo di Gemma Hartmann, che ha reso nota una versione del soggetto successivamente da lei acquistata, vista casualmente presso un antiquario romano, ma con una provenienza toscana, le cui forme potrebbero a questo punto identificarsi con quelle citate al n. 288 dell’inventario ottocentesco. Anche Stig Miss ha giudicato il marmo dell’epoca di Thorvaldsen e molto simile a quello conservato all’Ermitage, dunque il documento ne certifica l’autenticità.[124]

L’inventario infine si conclude con le forme per il busto di Napoleone al n. 289. Il museo di Copenaghen possiede ben quattro versioni del medesimo busto, un gesso e tre marmi, tutti licenziati nel 1830, con l’eccezione di uno, iniziato da Thorvaldsen a Roma, ma ultimato nella capitale della Danimarca dietro la supervisione del Bissen.[125]

Antonio Ceci dunque era l’autore delle forme delle opere che avevano riscosso un enorme successo di pubblico e di critica, e che coprono un arco di tempo piuttosto lungo della carriera del maestro danese, dagli inizi, forse certificati dalla copia del Marforio, agli anni quaranta documentati dal busto dell’amica di sempre, la baronessa Stampe.

Dietro la scoperta di questa bottega, che doveva rivestire un ruolo affatto modesto, se i compilatori dell’inventario la visionarono a parte, si nascondeva certamente l’intenzionalità di Thorvaldsen di poter replicare, senza troppa fatica, sue invenzioni che continuavano ad essere richieste e che potevano essere riproposte facilmente dai suoi allievi e collaboratori. Il danese dunque, ancora una volta, si rivela un vero e proprio imprenditore di se stesso.

Conclusioni

La lettura dell’inventario dei beni del 1844 permette alcune riflessioni importanti. Innanzitutto la scelta da parte di Thorvaldsen della zona in cui abitare e lavorare “all’ombra dei Barberini”, per utilizzare un’espressione arcinota, un’area geografica già ricca di opportunità per farsi conoscere, trovare committenti, poter usufruire di acqua in abbondanza per modellare, ma che grazie al danese si conquista definitivamente un posto di primo piano tra i nobili, gli intellettuali di tutta Europa[126] e soprattutto tra gli scultori, i formatori, i lustratori, gli scalpellini che gravitavano attorno ai grandi nomi.[127] Al seguito del Thorvaldsen moltissimi furono i personaggi che decisero di dimorare nei dintorni di piazza Barberini, dai più noti De Fabris, Tenerani,[128] Trentanove,[129] ad altri come lo stesso Antonio Ceci o Giulio Cravari, personalità ancora tutte da indagare. La vicinanza di questi atelier difendeva la continuità nella professione, e anticipava in qualche modo il concetto di museo a cielo aperto, dove i pezzi lasciati incustoditi fuori dalle botteghe attraevano visitatori all’interno di ambienti allestiti come gipsoteche, in cui comprare, studiare o semplicemente ammirare la bellezza dei manufatti.

Il documento, oltre a descrivere nel dettaglio la casa e gli studi, specchio della vita di un uomo che fece della scultura la sua ragione di esistere, fornendo elementi di giudizio sulla sua personalità per certi aspetti disturbata, per altri estremamente vigile, specialmente per quanto riguardava la gestione amministrativa e finanziaria del suo patrimonio, dimostra anche l’evoluzione, la capacità dello scultore di prendere coscienza della propria grandezza, tanto da portare avanti con caparbietà il sogno di costruire un mausoleo a suo nome.

L’importanza delle cospicue raccolte di opere autografe e non si desume anche dalla relativa velocità con cui i compilatori dell’inventario agirono, lasciando trasparire il timore di una dispersione illecita.

In casa Thorvaldsen conservava gli oggetti piccoli, i bronzetti, le medaglie, la raccolta di reperti antichi, le stampe, i gessi di ridotte dimensioni, che qui e non negli studi, come si credeva, erano gelosamente custoditi, ma anche i libri ed i quadri dei suoi amici, nei confronti dei quali il maestro si comportava come un vero e proprio mecenate, aiutando i pittori stranieri esordienti ad ottenere un posto nella variegata e multiforme Roma. La sensazione di horror vacui che domina la descrizione dei redattori dell’atto sembra dettata più da problemi di spazio, anche lungo le scale si trovavano pezzi di marmo e gesso, che da canoni estetici superiori.

Nello studio grande di piazza Barberini rispetto alla descrizione del Thiele alcuni gessi erano stati trasferiti da una parte all’altra e novità assoluta, l’atelier di via delle Colonnette 38, che sostituì i tre fabbricati sullo stesso vicolo, presi in affitto dai Barberini nel 1815 e successivamente ceduti, ancora il maestro vivente, al Tenerani, come risulta dall’inventario dei beni di quest’ultimo[130]. Importante la bottega di Antonio Ceci, dove mantenere le forme dei pezzi maggiormente richiesti dal mercato.

In ogni ambiente il criterio espositivo non seguiva un ordine cronologico, quanto dimensionale e, soprattutto negli atelier, strategico, in base cioè al successo che le opere avevano riscosso, motivo per cui le più importanti dovevano risultare maggiormente fruibili e quindi si trovavano nel locale di piazza Barberini.

Il documento ovviamente precisa quali pezzi autografi e delle collezioni si trovavano ancora a Roma nel 1844, nonostante la già avvenuta partenza di alcune casse per la Danimarca.

Thorvaldsen non poteva contare sugli eredi diretti, come farà poi Tenerani, ma sugli amici e gli estimatori che avevano caldeggiato e sostenuto il suo desiderio: la creazione di un mausoleo, un vero e proprio monumento a se stesso, che tramandasse la sua memoria e la sua scultura ai posteri. E nonostante ciò l’uomo proveniente dai ghiacciai del nord fu premiato, di lui possediamo più che di altri artisti un ritratto a trecentosessanta gradi, e ancora oggi tutto il mondo può ammirare il frutto della sua incomparabile arte, giusto vanto della Danimarca

[1] Thiele in Di Majo et al. 1989, 331.

[2] Infatti la struttura dell’edificio corrisponde mentre assolutamente arbitraria risulta la disposizione delle statue. Cfr. Capitelli 2007, 126-127.

[3] Thiele in Di Majo et al. 1989, 331.

[4] Per tutte le altre repliche si veda: Skiøthaug 2010, 276, numeri 192 e 193.

[5] Thiele, 1851-1856, II, p.394.

[6] Jørnaes 1957, 152 asseriva che anche la coppia di norvegesi von Cappelen Knudtzon, oltre ad essere committente del Thorvaldsen, svolse anche il ruolo di agente presso collezionisti inglesi, e documentò le opere eseguite negli anni Venti dell’Ottocento, come la Venere, Ganimede con l’aquila e Mercurio.

[7] Grandesso 2010, 225-227. Con quest’opera Thorvaldsen si inseriva nel dibattito circa la posa sedente più consona alla rappresentazione di scienziati, artisti e letterati, in quanto, come asserito dagli antichi, la stessa postura favoriva la concentrazione. Tuttavia tale atteggiamento era già stato adottato per alcuni personaggi politici, come la Letizia Ramolino Bonaparte, o ancor più George Washington di Canova. Cfr. Skiøthaug 2010, 280, numero 298. Secondo lo Jørnaes (1957, 162), lo scultore si era ispirato ad una statua ellenistica di Urania per il corpo dell’astronomo e a un’acquaforte cinquecentesca per il volto. Al Museo Thorvaldsen si conserva anche il bozzetto (A858) già posseduto da Theodor Ryger, amico dello scultore, donato all’istituzione nel 1922 da Marius Nieben Cfr. Skiøthaug 2010, 278, numero 264.

[8] Grandesso 2010, 227-230.

[9] Skiøthaug 2010, 280 numeri 301, 303

[10] Ibid., 277, numero 218.

[11] Ibid., 277, numero 228.

[12] Grandesso 2010, 158-159.

[13] Jørnaes 1957, 129-130.

[14] Skiøthaug 2010, 277, numero 231b.

[15] Ibid., 276, numero 189.

[16] Grandesso 2010, 156-157

[17] L’artista era molto noto a Roma e fu anche aspramente criticato per la sua conversione dal protestantesimo al cattolicesimo, divenendo francescano con residenza a S. Bonaventura al Palatino. Si veda Crielesi 1999.

[18] Jørnaes 1957, 331.

[19] Ibid., p. 236: Skiøthaug, 2010, 273, numero 132.

[20] Ibid., 85, 89.

[21] Grandesso 2010, 141, fig. 171.

[22] Ibid., 146-155; 275, numero 165. Una versione del Pastorello variata nell’attributo della siringa fu commissionata dal conte Franz Erwein von Schönborn intorno al 1823, ma venne consegnata solo dopo la morte del committente nel 1840. Jørnaes, 1957, 151. Si veda anche Grandesso 2003, 71, fig. 52, 79, per Pietro Galli.

[23] Grandesso 2010, 146-148.

[24] Skiøthaug 2010, 276, numero 183.

[25] Grandesso 2010, 234-236; Skiøthaug, 2010, 276, numero 183.

[26] Grandesso 2010 264; Skiøthaug 2010, 286, numeri 510, 511.

[27] Il gruppo della madre col figlio fu eseguito dal Carlesi, ma con il busto di Vittoria Caldoni, come modello per la testa della donna. Cfr. Giuliani 2013, 65.

[28] Grandesso 2010, 186-193.

[29] Ibid., 207-208; 209-215.

[30] Randolfi 2010, 80-81: «Pio VII, da porsi in S. Pietro. La figura del Pontefice sedente, in atto di compartire la sua benedizione, ispira la più alta venerazione, e mostra la dolcezza e la mansuetudine che grandissime furono in Pio, la Sapienza con cui egli seppe guidare il suo gregge in sì difficili tempi, e la Fortezza con cui sostenne tante tempeste, meritandosi di essere ricordate ai posteri; e lo scultore ha collocato presso il Pontefice, da un lato la Sapienza, figura laureata con un libro aperto in mano, e il dito alla bocca, la Forza vestita di pelle di leone, dall’altro».

[31] Colomb 1833, 208-210: «Tombeau de Pio VII. Il se compose de trois figures; celle du pontife, donnant sa bénédiction, est presque achevée; à droite, la Sagesse divine; à gauche, la Force céleste; les deux dernières statue, ne sont encore qu’ebauchées».

[32] Thiele in Di Majo et al. 1989, 331.

[33] Skiøthaug 2010, 280-281, numero 325.

[34] Grandesso 2010, 210, Fig. 255.

[35] Thiele in Di Majo et al. 1989, 331. Corboli Bussi parlava del monumento, ancora in lavorazione, in questi termini: «Due grandi monumenti si stanno ora lavorando. Il primo è dell’ex Vicerè d’Italia la cui statua armata sta in piedi, ponendosi la corona d’alloro in capo. L’altro è di Pio VII, da porsi in S. Pietro. La figura del Pontefice sedente, in atto di compartire la sua benedizione, ispira la più alta venerazione, e mostra la dolcezza e la mansuetudine che grandissime furono in Pio, la Sapienza con cui egli seppe guidare il suo gregge in sì difficili tempi, e la Fortezza con cui sostenne tante tempeste, meritandosi di essere ricordate ai posteri; e lo scultore ha collocato presso il Pontefice, da un lato la Sapienza, figura laureata con un libro aperto in mano, e il dito alla bocca, la Forza vestita di pelle di leone, dall’altro». Cfr. Randolfi 2010, 90. Thorvaldsen comunque non rimase soddisfatto del suo operato: il monumento gli appariva di dimensioni troppo ridotte rispetto a quello della basilica di San Pietro. Cfr. Jørnaes 1957, 173-175.

[36] Thiele in Di Majo et al. 1989 p. 331.

[37] Randolfi 2010, 79. Le testimonianze dell’epoca ricordano che persino papa Leone XIII trascorse circa un’ora in ammirazione della statua di Cristo. Cfr. J.B. Hartmann 1963, 14; 17-18, nota 13.

[38] Hartmann 1964, 6-7.

[39] Colomb 1833, 208-210.

[40] Valery 1833, vol. IV, 163.

[41] La citazione dei bozzetti è interessante, in quanto Thiele ricorda della sola figura di Cristo almeno cinque bozzetti, di cui sono sopravvissuti soltanto due. Cfr. Grandesso 2010, 177-183.

[42] Thiele in Di Majo et al. 1989, 331. Sugli atelier del Tenerani si veda Randolfi 2010, 75-90; Randolfi 2014, 193-201; Randolfi 2016, 124-132.

[43] Skiøthaug 2010, 278, numero 269; 290, numero 297.

[44] Grandesso 2010, 186; Skiøthaug 2010, 278, numero 269; 280, numero 297. Il bozzetto originale per Matteo (A88).

[45] Skiøthaug 2010, 285, numero 472.

[46] Ibid., 277, numeri 238, 239.

[47] Grandesso 2010, 257, figg. 316, 317; 260.

[48] Skiøthaug 2010, 289, numeri 599, 600.

[49] Ibid., 286, numero 491

[50]Grandesso 2010, 40, 85; Skiøthaug 2010, 269, numero 56; 286, numero 491.

[51] Jørnaes 1957, 54; Jørnaes 1989a, 45; Grandesso 2010, 86.

[52] Jørnaes 1957, 56.

[53] Grandesso 2010, 89-91.

[54] Skiøthaug 2010, 277, numero 238.

[55] Ibid., 270, numeri 77, 78. Si ricorda che due altri fonti battesimali vennero realizzati dallo scultore uno per la chiesa dello Spirito Santo di Copenaghen, e un altro fu donato all’Islanda, patria del padre di Thorvaldsen, per la cattedrale della capitale Reykjavik, cfr. Jørnaes, 1957, 59.

[56]Ibid., 286, numeri 478, 479, 480, 481, 482, 483, 484, 485, 486, 487, 488, 489, 490.

[57] Ibid., 269, numero 35.

[58] Ibid., 276, numero 198. Nel museo esiste anche la versione A565.

[59] Grandesso, 2010, 177.

[60] Skiøthaug, 2010, 274, numero 147.

[61] Ibid., 270, numero 65.

[62] Ibid., 285, numero 464.

[63] Ibid., 276, numero 197.

[64] Grandesso 2010, 96.

[65] Skiøthaug 2010, 272, numero 109.

[66] Ibid., 285, numero 465.

[67] Ibid., 285, numeri 468, 469, 470, 471.

[68] Grandesso 2010, 94-95.

[69] Skiøthaug 2010, 280, numeri 308, 311. Jørnaes (1957, 151) ricordava anche un’altra versione per il conte Franz Erwein von Schönborn, che ordinò all’artista le copie dell’Estate, dell’Autunno e dell’Inverno, quest’ultimo come Cupido e Anacreonte.

[70] Helsted 1989, 243.

[71] Randolfi 2010, 80.

[72] Thiele in Di Majo et al. 1989, 331.

[73] Skiøthaug 2010, 273, numero 134.

[74] Ibid., 268, numero 6; 274, numero 135. Esistono altri due calchi in gesso con lo stesso soggetto, uno donato dallo scultore danese all’incisore Gerhard Ludvig Lahde, alla cui morte passò nel Kustakademiet di Copeaghen che lo scambiò nel 1887 con il Museo Thorvaldsen per un nuovo calco, ed un altro, eseguito intorno al 1820, appartenuto al Reventlow Museum di Pederstrup in Danimarca, rimosso nel 1860 perché spezzato. Cfr. Ibid., 268, numero 6.

[75] Jørnaes 1957, 86-88.

[76] Skiøthaug 2010, 268, numero 6; 273, numero 131.

[77] Ibid., 284, numero 426, p. 285, numero 473.

[78]Ibid., 284, numero 423.

[79] Skiøthaug 2010, 285, numeri 457, 458.

[80] Il busto dell’eroe è andato perduto durante la seconda guerra mondiale.

[81] Ibid., 290, numero 640.

[82] Ibid., 286, numeri 499, 500.

[83] Ibid., 271, numero 98.

[84] Ibid., 271, numero 97. Nel museo danese si conserva anche la lastra di marmo A417 ed un altro gesso con terminazione a lunetta, ripensamento del primo A418.

[85] Ibid., 283, numero 402, fig. 308. Nel museo si trova anche il marmo A497.

[86] Ibid., p. 273, numero 126.

[87] Jørnaes 1957, 86.

[88] Skiøthaug 2010, 284, numero 438

[89] Ibid., 283, numero 418.

[90] Jørnaes 1989a 46. Un marmo con questo soggetto era stato realizzato per palazzo Giraud Torlonia.

[91] Skiøthaug 2010, 275, numero 170; 277, numero 176.

[92] Ibid., 284, numero 436.

[93] Sui diversi modelli in gesso si rinvia a Skiøthaug 2010, 278, numero 266.

[94] Ibid., 273, numero 125.

[95] Hartman 1958, 268-291.; Hartman 1965b, 8, nota 66.

[96] Skiøthaug 2010, 277, numero 240.

[97] Helsted 1989, 242.

[98] Skiøthaug 2010, 278, numero 263.

[99] Grandesso 2010, 97-100; Skiøthaug 2010, 272, numero 114.

[100] Skiøthaug 2010, 276, numero 190.

[101] Ibid., 285, numero 459.

[102] Ibid., 277, numero 222.

[103] Grandesso 2010, 155.

[104] Ibid., 18; Skiøthaug 2010, 269, numero 43.

[105] Jørnaes 1957, 42.

[106] Skiøthaug 2010, 270, numero 82; 274, numero 146.

[107] Jørnaes 1957, p. 132; Grandesso, 2010, 264.

[108] Skiøthaug 2010, 277, numero 230.

[109] Jørnaes 1957, 138; P. 277, numeri 229, 231, 232, 233, 234.

[110] Skiøthaug 2010, 275, numeri 168, 169.

[111] Ibid., 269, numero 60.

[112] Thiele in Di Majo et al. 1989, 331.

[113] Grandesso 2010, 169; Skiøthaug, 2010, 278, numero 261.

[114] Thiele in Di Majo et al. 1989, 330.

[115] Mercurio di Roma 1843, 321

[116] Grandesso 2010, 125-127.

[117] La Caspers fu amante del Thorvldsen, che si servì di lei per rompere il fidanzamento con la scozzese Frances Mackenzie, la quale aveva assistito l’artista durante il periodo della sua malattia nell’estate del 1818. Cfr. Jørnaes 1957, 106-109.

[118] Jørnaes 1957, 90-92.

[119] Skiøthaug 2010, 270, numero 61; 274, numero 136.

[120] Ibid., 283, numero 417.

[121] Ibid., 283, numeri 414, 415.

[122] Ibid., 283, numeri 407 e 408.

[123] Ibid., 283, numero 418, p. 284, numero 438.

[124] Sulla storia di questo Amorino si veda: Hartmann 2011, 353-367.

[125] Skiøthaug 2010, 283, numero 390.

[126] Nella zona abitavano personaggi illustri come Fernow, lo scultore svizzero Keller, il pittore danese Lund, il diplomatico prussiano Wilhelm von Humboldt con la moglie Caroline su via Sistina, e la scrittrice Friederike Brun che a villa Malta ospitava un circolo di intellettuali frequentato anche da Zoega.

[127] Sulla situazione della zona nel secolo precedente si veda Randolfi 2013, 377-381

[128] Randolfi 2014, 193-201. Va rilevato come Tenerani seguendo le orme del suo maestro, si circondò di allievi che presero dimora intorno ai suoi studi per facilitarsi la vita, ma anche per garantirsi lavoro e commesse.

[129] Si ricorda che Raimondo Trentanove aveva un legame profondo con Thorvaldsen e Tenerani tanto da nominare quest’ultimo proprio esecutore testamentario. Cfr. Randolfi 2002, 295-314.

[130] Randolfi 2013, 193-201. dall’inventario dei beni del Tenerani, redatto nel 1869, lo scultore risultava proprietario degli studi in via delle Colonnette 14, 15, 16, 17 e 18.