di Michele FRAZZI
E’ sempre con molto piacere che rivedo e parlo degli affreschi di palazzo Fava, che segnarono non solo l’esordio pubblico dei Carracci, ma che fu anche la prima pietra miliare di quella rivoluzione della pittura che la indirizzò così decisamente sulla via del realismo.
Una avventura che era cominciata solo qualche anno prima con la fondazione della Accademia del Naturale (1582 circa), che poi diverrà Accademia degli Incamminati, a testimonianza di una via, un percorso, che oramai era già stato preso. La loro strada però non fu facile e fin dagli inizi, cioè dall’esecuzione appunto dell’impresa corale di Palazzo Fava, che vide coinvolti sia i fratelli Annibale ed Agostino che il più anziano cugino Ludovico, essi furono oggetto di aspre critiche da parte degli degli altri pittori bolognesi.
Critiche che si rivolgevano soprattutto all’indirizzo di Annibale, ed erano in primo luogo di natura tecnica, per quel suo modo di dipingere così impaziente e poco pulito, che faceva si che le sue scene sembrassero più schizzi od abbozzi non terminati che quadri finiti. Ma anche di natura formale, poichè lo accusavano di dipingere delle figure senza decoro, di ritrarre dal vero dei facchini con un panno addosso e di metterli di peso all’interno di un quadro, che per questo motivo non poteva che risultare troppo rozzo per essere accettabile. Infatti per i loro detrattori la natura era imperfetta ed andava corretta con “l’arte”, il troppo deciso realismo di Annibale era perciò considerato un’ulteriore serio problema.
Come scrive lo storico Cesare Malvasia, a causa di queste invidiose critiche:
“Stavano però bassi li Carracci, sperando che il tempo, padre della verità, scoprisse l’inganno”,
e qualche dubbio, magari venne anche a loro, ma per fortuna, continuarono per la loro strada ed ebbero ragione.
Il libro Annibale Carracci esordiente, firmato da Emilio Negro e Nicosetta Roio, uscito da poco per i tipi della casa editrice Etgraphiae, tratta proprio di questo primo giovanile periodo dell’ artista, dove la sua pittura, è forse una primizia ancora imperfetta, ma per contro ha tutta la forza, il coraggio e lo slancio vitale delle cose appena iniziate, a cui poi si sostituirà la maturità, che forte della sua esperienza tenderà a dimenticare tutte queste qualità.
Lo studio si concentra sulla prima prova a fresco del giovane, la realizzazione del camerino con la storia mitologica del Ratto di Europa, che narra di come Giove invaghitosi della bellissima fanciulla, si trasformò in un toro per sedurla; la ragazza attratta dall’aspetto e dalla gentilezza dell’animale che docilmente si lasciava cavalcare vi salì sopra, ed in un attimo il padre degli dei la rapì portandola via con sè.
L’affresco si compone di una sequenza costituita da quattro scene principali, posizionate al centro delle quattro pareti di questa stanza di forma quadrata: Giove trasformato in toro che viene avvicinato da Europa, il toro che si fa condurre da Europa, Europa sale sul dorso del toro (Fig.1) ed il finale Ratto di Europa, questi riquadri sono intervallati con scene a grottesche e figure monocrome.
Lo studio comincia con un bell’intervento di Paolo Nucci Pagliaro che ci racconta il clima sociale, culturale ed anche scientifico della Bologna di quell’epoca, una premessa importante per capire il contesto dal quale presero le mosse i tre giovani, la descrizione dell’humus che generò e nel quale si innestò la loro riforma artistica.
Questo genere di premesse appaiono sempre più indispensabili per poter comprendere nella loro interezza anche i fatti dell’arte, che non sono mai slegati dalla propria epoca, ma che anzi sono sempre una parte inscindibile di una realtà più umana più complessa. A questo proposito credo che uno dei più bei libri scritti sull’Italia, sia un testo redatto da uno studioso: Fernand Braudel, che, non essendo italiano, e dunque un testimone imparziale, ci svela il punto di vista con cui gli stranieri vedono il nostro paese: si tratta de Il Secondo Rinascimento.
Nel suo libro questo storico, che fu uno dei più importanti del XX secolo, ci spiega che l’Italia come l’araba fenice rifiorisce sempre dalle ceneri della distruzione in maniera quasi inspiegabile, per merito di alcune personalità individuali e geniali (questo è il suo limite ed il suo pregio) apparentemente sorte dal nulla. Nucci Pagliaro nel suo saggio introduce una prima notazione decisiva ai fini dello sviluppo del discorso, e cioè che i confini tra la scienza e l’alchimia all’epoca erano molto incerti, e che i committenti discendevano da una illustre casata di medici-alchimisti. All’epoca i confini della spagiria erano altrettanto incerti anche rispetto a quelli della religione, basti pensare al Trattato sulla pietra filosofale attribuito a San Tommaso d’Aquino o al pavimento del Duomo di Siena dove è raffigurato un leggendario alchimista: Ermete Trismegisto.
Come avrete già probabilmente potuto intuire da queste poche righe, Emilio Negro e Nicosetta Roio propongono che sia appunto questa la chiave di lettura necessaria ad interpretare gli affreschi. La stanza si aggiungerebbe perciò ad una piccola serie di altre stanze disposte a simile uso, lo Studiolo di Francesco I a palazzo Vecchio a Firenze, la camera affrescata dal Parmigianino a Fontanellato che fu studiata da Maurizio Fagiolo dell’Arco, e la camera di San Paolo affrescata dal Correggio nell’omonimo monastero di clausura a Parma, alla quale erano adiacenti alcuni “camerini da stillare”, come annotava nel 1598 l’architetto Smeraldo Smeraldi. (1).
I due autori dunque riprendendo il discorso storico già sviluppato in prima battuta, aggiungono ulteriori notizie riguardanti la casata dei Fava ed il palazzo, per poi passare all’argomento centrale e cioè all’inquadramento artistico-interpretativo. La loro lettura allegorica si fonda molto solidamente su testi ben diffusi ed utilizzati all’epoca: si tratta del Mythologiae di Natale Conti, e dell’ Ovide Moralisé, dove il ratto di Europa viene interpretato come la figura di Cristo che conduce l’anima in cielo.
Una lettura che può essere ulteriormente rafforzata, facendone una verifica in direzione della continuità storica consultando un altro testo: L’huomo, e sue parti figurato di Ottavio Scarlini pubblicato a Bologna nel 1684, dove il Ratto di Europa rappresenta il desiderio dell’ anima di tornare verso il suo creatore ( pag.243), confermandone così la lettura in chiave neoplatonica. Del resto la conoscenza delle immagini simboliche era ben consolidata a Bologna (2) per merito delle Symbolicarum questionum realizzate di Achille Bocchi, alla cui illustrazione nel 1574 partecipò anche Agostino Carracci.
Ai lati di ciascuna delle storie principali fanno da corona due scomparti decorati a grottesche intervallati da bellissime figure monocrome tipiche anche negli affreschi con Le Storie di Giasone. Questi riquadri di grandi dimensioni nonostante il loro aspetto decorativo sono in realtà tutt’altro che accessori, ed anzi sono una parte importante dell’apparato simbolico, dato che rappresentano i quattro elementi principali, Terra, Acqua, Fuoco, Aria, che sono stati qui raffigurati come avviene anche nel caso dello studiolo di Francesco I a Firenze.
I quattro elementi, accoppiati al progressivo svolgimento della storia di Europa, corrispondono ad una esatta sequenza che si evolve dal corporeo verso l’incorporeo, cioè in una direzione immateriale, e questo ha un senso ben preciso, perchè come scrivono gli autori:
”La Grande Opera, porterà alla produzione del lapis philosophorum e dell’oro: quest’ultimo, il più nobile dei metalli, è simbolo del sole, della luce divina, che nella mistica alchemica rappresenta l’apogeo del cambiamento interiore e il massimo livello di spiritualità”,
dunque alla sublimazione connessa al mito del rapimento di Europa fa da eco il passaggio di risalita verso il mondo spirituale.
Questi spazi in cui vi è l’occasione di dare libero sfogo all’immaginazione non sono popolati dalle solite immagini stereotipate, ma invece riuniscono un coacervo di situazioni fantastiche e caricaturali, una dote per la quale i Carracci divennero giustamente famosi, davvero di entità notevole: scimmie che arrotano coltelli ( Fig.2), gatti arruffati (Fig.3), anziane che filano davanti ad una pignatta sul fuoco, strani esseri dalle ali di farfalla, galli spennati, pipistrelli, insomma un universo degno del migliore Bosch.
Alloscritto non mancano poi certamente considerazioni di tipo artistico come quella che evidenzia la vicinanza a livello di invenzione dello scorcio prospettico della testa, tra una figura a monocromo e il famoso ragazzo che beve di Annibale Carracci (Fig.4),
a cui si potrebbe aggiungere anche il volto di un ragazzo relativo alla Predica del Battista di Ludovico Carracci, che è dotato dello stesso scorcio di sottinsù (Fig.5-6), a dimostrazione di quanto attestato dallo storico Malvasia, e cioè che a quell’epoca i Carracci si passavano le idee l’un l’altro, e questo è nei fatti il risultato di una pratica pittorica collaborativa, di cui gli affreschi per i Fava furono la prima espressione.
Annibale Carracci esordiente è dunque un libro che ci permette di ammirare finalmente per la prima volta dopo l’indispensabile restauro, un repertorio di immagini la cui lettura era fortemente compromessa dalle condizioni di conservazione. Inoltre fornisce una chiave di lettura a questo apparato, che era rimasto sotto questo aspetto un po’ trascurato (forse a causa delle sue condizioni), aiutandoci così a situare il debutto dei Carracci nel contesto culturale con il quale questi giovani si dovettero confrontare. Si tratta dunque di un documento prezioso per tutti coloro che vogliono esplorare nel dettaglio gli albori del naturalismo in pittura.
Alla realizzazione dell’importante volume ha generosamente contribuito il Rotary Club Valle del Salmoggia distretto 2072, patrocinatore anche dell’omonimo premio ArteFiera.
Michele FRAZZI Parma 21 Novembre 2021
Note :