di Nica FIORI
“Tutte le strade portano a Roma” è un modo di dire che trae origine dall’estesa rete viaria, creata dai Romani, in grado di connettere l’Urbe con il resto del mondo, rendendo possibili quegli intrecci commerciali e culturali che hanno caratterizzato il suo impero.
Anche nella Roma dei papi, erede degli antichi fasti imperiali, la presenza di numerosi stranieri, sia per ragioni religiose o d’istruzione, sia per turismo o per lavoro, era una consuetudine. Gli stranieri spesso avevano dei luoghi di aggregazione, come le varie chiese “nazionali” (tra cui quelle dei Francesi, dei Tedeschi, dei Fiamminghi, degli Spagnoli, dei Portoghesi, degli Armeni, degli Abissini), sorte per il desiderio di pregare insieme, ma anche di accogliere e assistere spiritualmente i pellegrini della propria “nazione”.
Come scrisse nel 1581 Michel de Montaigne nel suo Viaggio in Italia:
“Roma è la città più cosmopolita del mondo, dove il fatto di esser stranieri e le differenze di nazionalità contano meno; poiché per sua natura contiene forestieri dappertutto, e chiunque vi si trova come a casa propria”.
Il grande filosofo francese si riferiva probabilmente agli europei, ma a Roma potevano arrivare anche personaggi provenienti dal favoloso Oriente e dai più remoti angoli dei continenti all’epoca conosciuti, ed è sempre dal centro della cristianità che s’intraprendevano lunghi viaggi per evangelizzare il mondo.

La vocazione universale e cosmopolita di Roma è particolarmente presente nel corso del Seicento, quando Roma diventa la capitale indiscussa dell’arte, e molti artisti ne colgono gli aspetti più affascinanti, riproducendo ambasciatori, zingare, esotici personaggi (reali e letterari), missionari, eruditi, oltre a piante e animali curiosi. Tutto ciò viene evidenziato nella mostra “BAROCCO GLOBALE. Il mondo a Roma nel secolo di Bernini”, che si tiene nelle Scuderie del Quirinale dal 4 aprile al 13 luglio 2025, a cura di Francesca Cappelletti, direttrice della Galleria Borghese e docente di Storia dell’arte all’Università di Ferrara, e Francesco Freddolini, professore di Storia dell’arte presso ‘Sapienza’ Università di Roma.
Tra le cento opere in mostra, prestate da importanti musei, i capolavori pittorici e scultorei di grandi maestri del barocco (Gian Lorenzo Bernini, Antoon van Dyck, Nicolas Poussin, Pietro da Cortona, Lavinia Fontana, Nicolas Cordier, Pier Francesco Mola e altri) sono affiancati da disegni, incisioni, libri, mappe, arazzi e rari manufatti di provenienza europea ed extraeuropea, per raccontare quella che con un termine contemporaneo potremmo chiamare “globalizzazione”, a partire dal grande disegno diplomatico di papa Paolo V Borghese (1605-1621), che mise Roma al centro di una complessa rete di relazioni globali.
Proprio per incontrare Paolo V, giunse in città nel 1608 Antonio Manuel Ne Vunda, primo ambasciatore del Regno del Congo, dopo un viaggio avventuroso durato quattro anni, ma era talmente esausto e malato che morì poco dopo. La storia ci racconta che nella notte tra il 5 e il 6 gennaio il giovane diplomatico fu assistito sul letto di morte dallo stesso pontefice, che gli tributò esequie solenni in Santa Maria Maggiore e lo volle ricordare con un busto marmoreo, che richiamasse simbolicamente la venuta di un nuovo re magio dalla pelle nera.

Il ritratto, realizzato in marmi colorati da Francesco Caporale nello stesso 1608, è la prima opera che accoglie i visitatori della mostra, grazie all’eccezionale prestito, concesso da papa Francesco in questo anno giubilare. Per quanto si tratti di un ritratto all’antica, come dimostrato dal confronto con lo Pseudo Annibale (forse di Tommaso della Porta il Giovane), l’effigiato è stato riprodotto in modo veritiero, grazie all’esecuzione di una maschera facciale post mortem, e indossa l’abbigliamento tradizionale della sua terra. L’iscrizione in latino, presente in due incisioni commemorative esposte accanto, lo definisce “marchio”, ovvero marchese.
Bisogna riconoscere che, grazie a questa mostra, viene portato alla ribalta con un elegante allestimento un capolavoro che nella basilica di Santa Maria Maggiore sfugge spesso alla vista (è collocato nel Vestibolo del Battistero), ed è proprio questo africano, sconosciuto ai più, a essere contrapposto alla fama della regina Cristina di Svezia (trasferitasi a Roma nel 1655 dopo aver abdicato e abiurato la religione luterana) nella grande tela raffigurante la Giostra dei Caroselli, ovvero la grandiosa festa data dai Barberini in onore della ex sovrana per il Carnevale del 1656 a palazzo Barberini, con la spettacolare contrapposizione sulla scena delle squadre dei Cavalieri e delle Amazzoni e di carri allegorici. In quest’opera di Filippo Lauri, cui si devono le numerosissime figure, e Filippo Gagliardi, autore delle architetture prospettiche, si notano anche uomini africani la cui condizione sociale era ben diversa da quella dell’ambasciatore congolese. Essi, infatti, partecipano ai festeggiamenti non come spettatori ma da figuranti e possiamo, pertanto, immaginare che la loro libertà fosse limitata, in molti casi, da una condizione di schiavitù.


La prima sezione della mostra è dedicata a “L’Africa, l’Egitto e l’Antico”.
Al centro di una sala è disposta la statua di Giovane Africano (1607-1612, Parigi, Museo del Louvre), realizzata da Nicolas Cordier integrando frammenti antichi di marmi colorati (con in più oro e lapislazzuli) e trasformandoli in una nuova creazione, proprio come aveva fatto Francesco Caporale utilizzando il bigio morato e il giallo antico per il busto di Ne Vunda.
Il colore scuro della pelle era impiegato, oltre che per gli africani, nella raffigurazione di persone appartenenti alle comunità Rom, ma erroneamente connesse all’Egitto, come le protagoniste dei tre dipinti della Buona Ventura dei caravaggeschi Valentin de Boulogne, Bartolomeo Manfredi e Simon Vouet. Sul verso del dipinto di Vouet il soggetto è definito come “AEGIPTIA VULGO ZINGARA” (Egiziana, comunemente detta zingara).

L’Egitto antico, evocato da Pietro da Cortona nella grande tela Cesare rimette Cleopatra sul trono del Regno d’Egitto (1637 ca., Lione, Musée des Beaux Arts), è certamente la terra che ha avuto maggiori contatti con Roma tra quelle dell’Africa, soprattutto dopo la sua conquista da parte di Ottaviano (futuro Augusto) nel I secolo a.C., quando la moda dell’arte e del gusto egizi ebbero una larga presa sull’Urbe, paragonabile soltanto con l’égyptiennerie che dominò la Francia dopo la spedizione napoleonica sulle rive del Nilo. Ed è questo il motivo per cui a Roma si trovano manufatti egiziani di epoca romana, provenienti soprattutto dall’Iseo Campense (il maggiore santuario romano dedicato alla dea Iside) e numerosi obelischi, importati dai Romani e reinnalzati dai pontefici (in primis Sisto V) nelle più importanti piazze cittadine.


Gli antichi egizi ritenevano che gli obelischi, sacri al dio Ra, fossero “raggi di sole pietrificati”, in grado di emanare una sorta di fluido cosmico che elargivano soprattutto ai faraoni, loro costruttori, ma per il dotto gesuita Athanasius Kircher (1602-1680) erano l’occasione per studiare i geroglifici, che aveva riprodotto nei suoi modelli lignei, come quello dell’Obelisco Flaminio, prestato dal Wunder Musaeum del Liceo classico statale “Ennio Quirino Visconti”, che occupa gli spazi dell’ex Collegio Romano, dove il padre gesuita aveva raccolto una miriade di reperti antichi e meraviglie della natura, realizzando nel 1651 il suo Museo (indicato nel primo catalogo come “Teatro di natura e arte”), che anticipava i moderni musei delle scienze, perché istruiva giocando, con stravaganti esperimenti e con l’uso di sue invenzioni, come la lanterna magica.
Kircher, convinto che la scrittura egizia fosse un linguaggio per immagini, ideò un suo sistema di interpretazione, che si sarebbe però rivelato sbagliato dopo la scoperta della stele di Rosetta, che permise nell’Ottocento a Jean-François Champollion la giusta decifrazione dei geroglifici. Kircher era comunque, per i suoi tempi, il maggior esperto di manufatti egizi e, pertanto, gli fu chiesto di collaborare con Bernini al restauro dell’Obelisco Pamphilio (proveniente dal Circo di Massenzio), che domina la berniniana fontana dei Quattro Fiumi in piazza Navona.


Clou della mostra è proprio il progetto di questa fontana, con l’esposizione di due bozzetti, dei quali quello più monumentale (terracotta, legno intagliato, ardesia, oro e argento, 1647-50, Collezione Forti Bernini) è scenograficamente disposto al centro della sala. Si tratta del più celebre dei soggetti globali dell’intera iconografia barocca, in quanto i giganteschi Fiumi (Danubio, Nilo, Gange, Rio de la Plata) alludono ai quattro continenti. In questa esposizione viene messo in evidenza come la figura corrispondente al Rio de la Plata, personificazione allegorica del continente americano, mostri nella versione finale dell’opera un uomo dai tratti africani subsahariani, invece di un indigeno americano come era stato concepito inizialmente. Ciò a dimostrazione della consapevolezza da parte di Bernini della presenza di moltissimi schiavi neri, deportati dall’Africa nelle Americhe.
Per dare un’idea della visione universale del mondo da parte della Chiesa troviamo, procedendo nel percorso espositivo, anche il bozzetto per la volta della chiesa di S. Ignazio a Roma, di Andrea Pozzo, il gesuita architetto, pittore e teorico dell’arte, celebre per i suoi effetti illusionistici. Al di sopra delle architetture dipinte in prospettiva si apre lo spazio celeste, dominio della Luce. Secondo quanto scrive lo stesso Pozzo, nel mezzo è raffigurato Cristo che comunica al cuore di sant’Ignazio un raggio di luce, che poi viene da esso trasmesso alle quattro Parti del mondo, che
“investite di cotanto lume stanno in atto di rigettare i deformissimi Mostri o d’idolatria, o di eresia, o di altri vizi”.
Sono stati proprio i gesuiti, insieme ai francescani, a diffondere il cristianesimo nei quattro continenti allora conosciuti, come evidenziato nella sezione “La Chiesa e il mondo”. Diretta dal 1622 dalla Congregazione de Propaganda Fide, l’attività dei missionari imbastì una fittissima rete di relazioni che legava Roma all’intero globo, anche se non sempre i missionari vennero accolti in modo pacifico, come documentato dal dipinto I tre martiri gesuiti di Nagasaki, di Johann Heinrich Schönfeld (1643, Napoli, Museo Civico Castel Nuovo).

Il gesuita belga Nicolas Trigault, il cui ritratto in abiti da mandarino (Peter Paul Rubens e bottega, 1617, Douai, Musée de la Chartreuse) venne eseguito prima della sua partenza per la seconda missione in Cina, incarna questa complessità di relazioni. Non era romano, ma prima di partire, nel 1615, soggiornò a Roma per preparare la missione e pubblicare un volume con gli scritti del gesuita Matteo Ricci, dedicandolo a Paolo V.
Ricordiamo che a Matteo Ricci e al cinese Li Zhizao si deve il testo in ideogrammi cinesi del Mappamondo (Carta geografica completa di tutti i regni del mondo), pubblicato nel 1602, che costituisce una testimonianza eccezionale di come alcuni tra i più grandi missionari seppero posizionare con spirito critico sé stessi e la loro cultura sulla mappa del mondo, tanto che in esso la Cina è stata posizionata al centro, facendo slittare la prospettiva da cui si guardavano i continenti in Occidente.
Ma ancora prima del Seicento, alcune opere illustrano l’attività dei missionari, come nel caso dei francescani nel Nuovo Mondo, evidenziata da un’incisione, inclusa nella Retorica Christiana di Diego Valadés (1579), e di come le immagini svolgessero un ruolo fondamentale nella comunicazione con le popolazioni indigene.

La Salus Populi Romani, la miracolosa icona conservata nella basilica di Santa Maria Maggiore, venne fatta circolare, a partire dall’autorizzazione di Pio V nel 1569, attraverso copie incise e dipinte, e riprodotta poi da artisti locali, come mostra un rotolo cinese del XVII secolo. Circolarono anche le riproduzioni a stampa di celebri opere della Controriforma Cattolica, come nel caso della scultura in marmo di Santa Cecilia di Stefano Maderno (Roma, Santa Cecilia in Trastevere), dalla quale deriva una raffigurazione dell’artista indiana Nini (Martirio di Santa Cecilia, I metà XVII secolo, acquerello e oro su carta, Londra, Victoria and Albert Museum).
Oltre alla circolazione di immagini romane, questa epoca vide anche la canonizzazione di sante e santi provenienti o legati a contesti culturali non europei, come ad esempio santa Rosa da Lima, la domenicana peruviana morta nel 1617, che ebbe un notevole impatto nell’immaginario non solo del suo Paese. Pure straniera è la santa martire Maria Maddalena del Giappone, raffigurata nel dipinto di Andrea Sacchi Le tre Maddalene (1633-34, olio su tela, Roma, Gallerie Nazionali di arte antica).

Al piano superiore della mostra vediamo come la presenza di ambasciatori nella corte papale, dai vicini paesi del Medio Oriente fino alle comunità cristiane del lontanissimo Giappone è stata ricordata in alcuni dipinti e stampe secentesche; possiamo ammirare, in particolare, il ritratto inedito di Ali-Qoli Beg, ambasciatore del re di Persia ‘Abbas I, dipinto da Lavinia Fontana in occasione dell’incontro con Paolo V nel 1609, un’acquaforte di Arnold van Westerhout, intitolata Padre Guido Tachard e gli ambasciatori del Siam in udienza presso Innocenzo XI, come pure cortei, cavalcate e funerali, come quello di Sitti Maani Gioerida Della Valle, una donna persiana di religione cristiana sposata nel 1616 dal nobile romano Pietro della Valle (1586-1652) durante uno dei suoi viaggi che lo portarono dapprima in Terrasanta e poi in altri paesi orientali.


La donna, infatti, era morta in viaggio e il marito decise di tumularla nella cappella di famiglia in Santa Maria in Aracoeli. Qui, nel 1627, fu organizzato il suo solenne funerale, con un elaborato catafalco riprodotto in un’incisione e in un disegno esposti in mostra. Il catafalco, perduto, era ornato con iscrizioni in tredici lingue diverse (in caratteri arabi, caldei, turchi, persiani, latini, greci e romani) nella chiesa che, per la sua collocazione sul Campidoglio, si trovava in un luogo altamente simbolico per Roma. A questa manifestazione di universalità linguistica si aggiunse un volume, edito da Girolamo Rocchi, che includeva una biografia di Sitti Maani, un dettagliato resoconto delle esequie, e un’antologia di componimenti poetici dedicati alla donna da molti letterati del tempo: testimonianza eccezionale di come una donna persiana potesse essere accolta a Roma nel XVII secolo.
Grande importanza viene data anche agli oggetti etnici provenienti da mondi lontani, fra cui la maschera di Yacatecuhtli (Cultura Nahua, Puebla, Messico, XV-XVI secolo, Roma, Museo delle Civiltà) e alcuni straordinari paramenti liturgici ricamati con piume di uccelli tropicali di manifattura centro-americana, come la preziosissima Mitra (ante 1565) appartenuta a san Carlo Borromeo, al quale era stata donata da Pio IV (prestito della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano), e i paramenti secenteschi provenienti dalla chiesa romana di Santa Maria in Vallicella.

Nella sezione “Alterità tra immaginazione e letteratura” attrae l’attenzione il dipinto di Jacob Ferdinad Voet e Benedetto Fioravanti raffigurante Maria Mancini Colonna travestita da Armida (1669 ca. Fondazione Palazzo Colonna). Ricordiamo che la bella Mancini, nipote del cardinale Mazzarino, fu il primo amore di Luigi XIV, mentre Armida è la maga musulmana della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso. Nella stessa sala troviamo il Guerriero Orientale di Pier Francesco Mola proveniente dal Louvre, scelto come immagine guida della mostra, e l’Andromeda di Rutilio Manetti, che nel mito è una principessa etiope, ma viene raffigurata secondo un ideale di bellezza che la voleva bianca.


Quasi alla fine del percorso troviamo, nella sezione “Crocevia di culture”, due spettacolari dipinti di van Dyck, eseguiti a Roma nel 1622, ma mai tornati in Italia prima d’ora (National Trust Collections, Petworth House), che ritraggono sir Robert Shirley, il cattolico inglese ambasciatore dello scià di Persia, e sua moglie, Teresia Sampsonia, una circassa sposata da Shirley in Persia.
Entrambi indossano abiti dalla foggia orientale realizzati con pregiati tessuti, i cui colori, come commenta Francesca Cappelletti:
“Vibrano e reagiscono alla luce, consegnandoci a Roma un pezzo di bravura nel tonalismo veneziano, eseguito da un artista nordeuropeo”.
Straordinario è il mantello dorato di lui, decorato con motivi floreali e antropomorfi, mentre di lei, raffigurata di tre quarti seduta su un divano con un fazzoletto in mano, ci colpisce soprattutto lo strano copricapo costituito da un diadema sormontato da un pennacchio”.


L’ultima opera esposta è Annibale che attraversa le Alpi, dipinto da Nicolas Poussin (1630 circa) per Cassiano dal Pozzo. L’episodio della storia romana relativo alla II guerra punica è l’occasione per l’artista per ritrarre un animale esotico come l’elefante, da identificare probabilmente con Don Diego, il pachiderma indiano che attraversò due continenti per giungere fino a Roma. Ospitato a Palazzo Venezia, dove attirò folle curiose di spettatori, questo elefante era approdato nella città dei papi a più di un secolo di distanza dal celebre Annone, l’elefante dell’isola di Ceylon che era stato regalato a Leone X dal re del Portogallo Manuele I nel 1513 (ma sarebbe morto due anni dopo stroncato dal clima romano) e che ebbe l’onore di aver ispirato alcuni artisti (si conosce anche uno schizzo di Raffaello).

A proposito di elefanti, mi sarei aspettata di trovare in mostra per lo meno un riferimento all’elefantino di piazza della Minerva, che regge un piccolo obelisco, visto che il progetto è di Bernini (mentre l’elefante è stato eseguito nel 1667 da Ercole Ferrata), il quale dovrebbe aver visto lo stesso Don Diego ed esserne stato influenzato per un suo bozzetto in terracotta (nella collezione Corsini di Firenze), di un elefante che sostiene un obelisco con le api barberiniane (mai realizzato), derivante da un’incisione dell’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna. Progetto che egli rielaborò in seguito per il curioso monumento, voluto da papa Alessandro VII, soprannominato dai Romani “il Pulcin della Minerva”.
Un arricchimento della mostra è dato dall’apertura al pubblico, con prenotazione obbligatoria (sul sito www.quirinale.it) e su iniziativa della Presidenza della Repubblica, dell’ex Sala Regia del Quirinale, attuale Sala dei Corazzieri, con il ciclo di affreschi del 1616 di Agostino Tassi, Giovanni Lanfranco, Carlo Saraceni, Spadarino e altri. Un’opera nella quale furono immortalati i vari ambasciatori, compreso il congolese raffigurato nel monumento iniziale, provenienti da Africa, Asia, Vicino ed Estremo Oriente e ricevuti da Paolo V nei primi del Seicento.
Nica FIORI Roma 13 Aprile 2025
“Barocco globale. Il mondo a Roma nel secolo di Bernini”, presso Scuderie del Quirinale
Orario: tutti i giorni dalle 10 alle 20 (ultimo ingresso: ore 19)