di Massimo FRANCUCCI
Barocco Globale
Non c’è un solo barocco, questo è un dato di fatto acquisito da tempo agli studi ed entrato anche nel pensiero comune. Sebbene a Roma si sia legati a quel suadente frangersi di spazi e di moti che comincia a diffondersi con notevole fortuna attorno al fatidico 1630, epifania del barocco secondo un celebre studio di Giuliano Briganti, e che aveva dato avvisaglie importanti con Rubens in pittura e con Mochi e Bernini in scultura, ora bisognerà ammettere che gli apporti non solo stilistici, ma anche culturali a questo movimento artistico così profondamente radicato vadano cercati anche al di fuori dei confini europei.
Ce lo dimostra con un certo impeto la bella mostra alle Scuderie del Quirinale, curata da Francesca Cappelletti e da Francesco Freddolini, che ci obbliga al confronto con opere inattese e talvolta per alcuni di noi colpevolmente sconosciute, e ci costringe a riconoscere che il mondo fosse più ristretto dell’atteso già nel Seicento.
Ancora prima, la scoperta del Nuovo Mondo aveva iniziato ad erodere la centralità del Mare Nostrum, senza di certo ridurlo a un ruolo marginale. Aveva dovuto oltrepassare le Colonne d’Ercole il personaggio che apre simbolicamente la mostra, la cui prima sala vuole celebrare la multiculturalità dell’Urbe nel Seicento.
Si tratta di Antonio Manuel Ne Vunda, anche conosciuto come il Negrita, oggi noto soprattutto a quelli che come me amano particolarmente la Basilica di Santa Maria Maggiore dove, nella sala che conduce al battistero, fa bella mostra di sé, seppure a un’altezza che non ne permette il pieno apprezzamento, il monumento funebre del primo ambasciatore africano subsahariano nella Roma dei papi, dove era stato Inviato dal re Álvaro II. La sua missione fu parecchio travagliata, la nave assalita da pirati olandesi e, dopo essere giunto rocambolescamente in Spagna, vi passò tre anni prima di arrivare a Roma gravemente malato.
Paolo V andò al suo capezzale, ne accolse il messaggio in favore di un affrancamento della sua terra dall’influsso portoghese e lo preparò al viatico. Spirato il giorno dell’epifania del 1608 e sepolto nella basilica mariana sarebbe stato celebrato da un busto realizzato con marmi policromi da Francesco Caporale, basato su un calco funebre. Le scelte cromatiche e di abbigliamento ne celebrano le origini, nonostante vestisse solitamente all’occidentale.
Prima di lasciare la sala andrà certamente apprezzato il dipinto dedicato da Filippo Gagliardi e Filippo Lauri alla Festa del carnevale del 1656 nel cortile di Palazzo Barberini e solitamente al Museo di Roma. Sono passati anni dalle disavventure del Negrita e qui è un personaggio del nord Europa ad avere attirato le attenzioni di Roma e viceversa. Si tratta di Cristina di Svezia, che era da poco giunta in città dopo avere rinunciato alla sua corona ed essersi convertita al cattolicesimo. Fino alla sua morte, nel 1689, sarà tra i personaggi più importanti ad aver animato la nobiltà romana in quegli anni, creando anche un centro di aggregazione artistico e culturale.
Siamo pronti ad aprirci all’esotico, con la presenza in mostra di alcune opere dedicate a tematiche di tal genere, in particolare a giovani gitane che si rendono protagoniste dei marmi di Nicolas Cordier e dei dipinti, stupendi, di Vouet, di Valentin e di Bartolomeo Manfredi, i quali mostravano la grande forza e vitalità di un tema che era stato coniato pochi anni prima da Caravaggio. Le si credeva originarie dell’Egitto: questo si leggeva un tempo sul retro della tela di Vouet, un’imprecisione che svegliava però le fantasie grazie alla capacità di quel nome di evocare l’antico e il lontano.
L’Egitto è ad esempio quello di Cleopatra, rimessa sul regno da Giulio Cesare in una tela al Musée di Lione nella quale Pietro da Cortona esprime al meglio la sua capacità di restituire nuova linfa al linguaggio classico proveniente dallo studio dell’arte greca e romana. Non è un caso che il soggetto si presti alla perfezione a stimolare le corde del pittore.
Non passa certo inosservato il modello dell’obelisco flaminio di Athanasius Kircher, mitica figura di colto gesuita, la cui Wunderkammer è confluita nelle raccolte del liceo Visconti erede del Collegio romano.
Lo stesso sarebbe stato tra gli ideatori del progetto della fontana di Piazza Navona, messo in atto da Gian Lorenzo Bernini con il riferirsi dei quattro fiumi ai quattro continenti allora conosciuti e oggetto delle missioni evangelizzatrici, impegnati a sorreggere l’obelisco domizianeo. Richiamano questo capolavoro i modelli prestati alla mostra da Fabiano Forti Bernini e dall’Accademia di Belle Arti di Bologna, mentre lo studio per il Rio della Plata della Galleria Franchetti di Venezia sottolinea i lineamenti esotici e la gestualità accentuata della figura allegorica che una fortunata leggenda, priva di fondamento, avrebbe messo in relazione con la chiesa borrominiana di Sant’Agnese.
Sorprendente è poi la monumentalità conferita da Albert Eckout all’Uomo africano (1641, Copenaghen Nationalmuseet), il cui abbigliamento succinto ne mette in evidenza la muscolatura che lo caratterizza assieme allo sguardo fiero e alla palma, nonché agli oggetti che si vedono a terra, resi con attenzione da naturamortista.
L’apertura ai nuovi mondi implica per la Chiesa la necessità di evangelizzare: nasce in questi anni la congregazione di Propaganda Fide (1622) la cui cappella, capolavoro borrominiano, conserva l’Adorazione dei Magi di Giacinto Gimignani ora in mostra. Da sempre occasione per infondere nuova vita all’oriente vero e immaginario qui il soggetto doveva anche indicare lo scopo dell’educazione dei giovani missionari. Poca fortuna toccò ai gesuiti giunti a Nagasaki, il loro martirio si vede nella tela di Schonfeld, mentre il viaggio di Francesco Saverio si sarebbe concluso a Goa, nelle Indie. La Cina richiama il nome di Matteo Ricci e delle sue carte in mostra, mentre il bozzetto della Santa Rosa da Lima di Lazzaro Baldi ci ricorda la prima canonizzazione di un’americana; dal Giappone, invece, giunge una delle Marie Maddalene dipinte da Andrea Sacchi.
Gli intenti evangelizzatori dei gesuiti erano poi dichiarati dalla decorazione della chiesa dedicata al fondatore dove padre Pozzo avrebbe magistralmente fatto di sant’Ignazio il tramite per la diffusione del vangelo nei quattro continenti (in mostra il bozzetto per la decorazione ad affresco proveniente da Palazzo Barberini).
I nuovi mondi aprivano anche nuovi interessi botanici e naturalistici: non poteva restarne immune Ulisse Aldrovandi, sempre pronto ad estendere la sua opera di catalogazione, che si giovava spesso e volentieri delle capacità analitiche della pittura di Jacopo Ligozzi.
Ma è chiaro che l’elemento esotico divenga anche vezzo à la page tanto che una scimmietta appare nel Ritratto di cardinale (Giovanni Maria Ciocchi Dal Monte?) realizzato da Sebastiano del Piombo, o nel Ratto di Elena di Guido Reni. Pennuto è invece il cardinale rosso protagonista di un intarsio marmoreo oggi in Galleria Borghese, uccellino presente già tra le specie inventariate da Aldrovandi.
Intanto a Roma giungevano ambascerie da tutto il mondo, una fonte diretta ricordava quella persiana il cui capo delegazione era stato ritratto da Lavinia Fontana: tale dipinto viene identificato da Vera Fortunati e Raffaella Morselli con il Ritratto di Ali-qoli Beg qui in mostra.
Non si può poi ignorare, per fattura e per ingombro, il bel paravento giapponese che fu donato a Giovanni XXIII dal primo ministro nipponico e che si conserva alla Santa Casa di Loreto. Come sono stato colpito io dalla forza e dalla modernità della maschera rituale azteca, portata a Bologna nel 1533 dal missionario domenicano Domingo de Betanzos (Roma, Museo delle Civiltà), deve esserlo stato anche Aldrovandi che ne riportava la riproduzione a stampa in un suo volume. Stupenda è poi la Mitra di San Carlo Borromeo, del Museo del Duomo di Milano, realizzata con una peculiare tecnica che sfrutta i diversi colori delle piume degli uccelli tropicali.
L’esotico era già protagonista della letteratura e ciò permetteva di trasfigurare i protagonisti delle opere d’arte così come dei ritratti: degno di nota quello di Maria Mancini dove la nipote di Mazzarino si fa dipingere da Jacob Ferdinand Voet nei panni di Armida accompagnata infatti da una scimmietta vestita di tutto punto. Alla Gerusalemme Liberata rimanda anche la tela dell’Orbetto, con Tancredi ferito e soccorso da Erminia e Valfrino.
Capolavoro della pittura barocca e di Pier Francesco Mola è poi il Guerriero orientale del Louvre, dove il ticinese mette a pieno frutto la sua conoscenza e il suo amore per la pittura veneta e per il colore guercinesco, creando un perfetto contrasto tra la lente analitica riservata all’uomo, alle sue vesti e all’armamento, ed il trattamento libero e tonale del cielo usato a mo’ di sfondo.
Non tutte le mostre delle Scuderie finiscono in crescendo, ma Barocco Globale lo fa ‘col botto’ grazie a due meravigliosi ritratti di Van Dyck che, a Roma nel 1622, effigiava l’ambasciatore inglese di Persia Sir Robert Shirley e sua moglie in abiti orientali. Sete e ricami permettono al pittore fiammingo di dare pieno sfogo alla propria sensibilità artistica e coloristica in particolare, che acquista una modernità tendente all’informale nell’abito della donna, senza però celarne la leggiadria, quasi fosse stufa di posare e pronta a danzare come le stagioni di Poussin, magari assieme a qualche avventore più coordinato di me. A farmi sentire più a mio agio, del pittore francese, chiamato a chiudere l’esposizione, non è esposta la Danza del tempo, ma l’Annibale che valica le alpi con il suo elefante, concesso in prestito da Alberto di Monaco.

Il pachiderma è probabilmente modellato sulla figura di Don Diego, un elefante giunto a Roma nel 1630 dove da molti anni non se ne vedevano. Oltre alla curiosità del volgo, l’animale attirò l’attenzione di Cassiano del Pozzo e del suo protetto Poussin che non perse l’occasione di fissare sulla tela chi, come tanti altri si è visto, era giunto a Roma da terre e culture lontane.
Massimo FRANCUCCI Roma, 6 Aprile 2025