Albini & Gardella e l’Architettura del dopoguerra a Milano (Parte II^); la vittoria del metodo “determinista” e la “ritirata dal modernismo”

di Francesco MONTUORI

Migranti sull’About

di M. Martini e F. Montuori

GLI  ANNI  DEL  DOPOGUERRA 

Franco ALBINI e Ignazio GARDELLA

seconda parte

Milano venne ripetutamente bombardata dalle fortezze volanti degli alleati.

La città nel dopoguerra è in rovina; malgrado la drammatica situazione la parte più vivace della cultura milanese mantenne con coraggio la sua centralità e preparò con determinazione il dopoguerra e la rinascita.

L’esperienza interrotta degli architetti razionalisti, che Giuseppe Pagano aveva sostenuto con la sua costante iniziativa culturale prima di morire nel campo di Mathausen, venne fatta propria dalle èlite della classe dirigente della città. Si fecero convegni, si crearono nuovi strumenti associativi.

Il Movimento per gli Studi di Architettura (MSA) fondato da Franco Albini nel 1945 elaborò proposte per rilanciare il dibattito architettonico; Ernesto N. Rogers assume la direzione della rivista “Domus”; riprendono le pubblicazioni di “Costruzioni Casabella”, interrotte nel dicembre del 1943 dal Ministero della Culture Popolare; Franco Albini con Roberto Palanti ne diverrà il direttore. Vengono stampati tre numeri della rivista, tra cui il numero monografico su Giuseppe Pagano. Albini scrive di una volontà costruttiva “per formare un gusto, una tecnica, una morale”.

Ovviamente centrale è il problema della ricostruzione delle città ed in particolare il tema della casa.

E’ un problema nazionale che richiede iniziative nazionali: l’avvio dei Programmi dell’Istituto Nazionale Assicurazioni, l’Ina Casa; la redazione del Manuale dell’Architetto; le prime misure per l’industrializzazione dell’edilizia. In particolare il Manuale dell’Architetto, su cui lavorarono tra gli altri Ridolfi e Bruno Zevi, pubblicizzò quanto di innovativo si veniva sperimentando in Italia e rappresenterà un tentativo per definire i modi d’uso di una lingua finalmente comune. Il Manuale sarà un riferimento irrinunciabile per quanti diedero vita ai primi esperimenti di Quartieri Ina Casa.

Fig. 1 Mario Ridolfi. Asilo d’infanzia Olivetti a Canton Vesco, Ivrea 1954

Non ultimo va ricordato il ruolo assunto da Adriano Olivetti e dal movimento di Comunità da lui stesso fondato; si avviarono iniziative per la promozione delle ricerche sulla cultura architettonica, sull’Industrial design e importanti iniziative edilizie che videro la trasformazione della città di Ivrea. Vi si cimentarono i migliori architetti di allora: l’asilo nido di Mario Ridolfi (fig.1),  il quartiere Bellavista di Nizzoli e Oliveri, la mensa e il centro ricreativo Olivetti (1955-59) di Ignazio Gardella (fig.2), la villa Olivetti (1956) di Franco Albini (fig.3).

Fig. 2 Ignazio Gardella. Mensa e Centro ricreativo Olivetti, Ivrea 1955-1959
Fig. 3 Franco Albini. Villa Olivetti, 1956

Infine riferimento essenziale diverrà l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia dove Albini e Gardella insegnarono insieme a Scarpa, De Carlo, Zevi ed al giovanissimo Aldo Rossi.

Nella Milano del dopoguerra si vengono a formare studi professionali qualificati ed articolati per competenze. I professionisti lombardi emergenti come Rogers, Viganò, Magistretti, Zanuso, Caccia Dominioni riorganizzano i loro studi per adeguarli alla nuova dimensione del mercato dell’edilizia; il controverso rapporto fra modernità e tradizione è cosi mediato dall’esercizio di una professione in grado di far fronte al nuovo assetto economico che il Paese sta maturando a partire dalla metà degli anni cinquanta.

A Milano la costruzione della Torre Velasca di Banfi Belgioioso Peressutti e Rogers (BBPR) riproporrà il tema della tradizione e della storia, tema ricorrente dell’architettura italiana. In un lotto nel centro della città distrutto dai bombardamenti, i BBPR ripropongono a scala gigantesca l’immagine di una torre medioevale per riaffermare ancora una volta che la ricostruzione della città non può essere fondata che sui valori della storia (fig.4).

Fig. 4 Banfi, Belgioioso, Peressutti, Rogers. Torre Velasca, Milano 1958

Sono gli stessi progettisti ad ammetterlo:

“non è una torre gotica, non una esercitazione da revival, la Velasca è il risultato di un metodo funzionale che determina la forma desumendola dalle determinanti dell’ambiente circostante e dalle ragioni distributive dell’organismo”.

E’ l’esplicita ammissione di un metodo “determinista” che si coniuga con la centralità del tema dell’ambientamento, tema che si imporrà agli architetti italiani fino a quando Paolo Portoghesi legittimerà la storia con l’avvento dell’era post-moderna.

I BBPR delineano una torre la cui parte superiore è più larga di quella inferiore con un evidente riferimento allo stile lombardo medioevale e in particolare alla Torre del Filarete del Castello Sforzesco (fig.5); un telaio strutturale in cemento armato, simile a membrature neo-gotiche di una torre medioevale, esibisce possenti costoloni rastremati che percorrono le facciate e si allargano in caratteristici puntoni di raccordo tanto da giustificare l’ironica denominazione che i milanesi gli daranno, “il grattacielo con le bretelle”.

Fig. 5 Antonio Averulino detto il Filarete. La Torre del Castello Sforzesco, Milano 1452

Se i gli architetti del  Movimento Moderno avevano dichiarato di ricercare una rottura netta con ciò che li aveva preceduti, Rogers ricostruisce i legami con il passato per perseguire un’idea di modernità come evoluzione culturale priva di fratture.

Anche Albini e Gardella dovranno riorganizzare il loro lavoro per far fronte alle mutate condizioni del mercato delle costruzioni. Albini continuerà ad operare isolatamente; aveva sposato nel dopoguerra l’architetto Franca Helg con la quale fu a lungo associato anche nella professione. Quanto a Gardella riprese l’attività con rinnovato vigore, divenne protagonista nei principali organismi culturali quali il CIAM, Congresso Internazionale di Architettura Moderna, fondato da Le Corbusier, e l’INU, Istituto Nazionale di Urbanistica, che tenne i primi congressi a partire dalla seconda metà degli anni ‘50.

Le collaborazioni fra Albini e Gardella si faranno più rare; riguarderanno in particolare la realizzazione di nuovi quartieri di case popolari: i quartieri Mangiagalli (fig.6), Vialba e il quartiere di via Jacopino da Tradate a Milano, il piano urbanistico del quartiere “degli Angeli” a Genova, l’insediamento Ina Casa di Cesate.

Fig . 6 Franco Albini e Ignazio Gardella. Quartiere Mangiagalli, Milano 1950
Fig. 7 Franco Albini. Edificio per l’Istituto Nazionale Assicurazioni, Parma 1950

Dopo tanti allestimenti ed arredi, negli anni ’50 Franco Albini si apre al campo dell’edilizia e della museografia delle grandi città.

Per l’Istituto Nazionale Assicurazioni realizza nel centro storico di Parma un’opera di estrema semplicità. Una intelaiatura cementizia ridotta ad un’esile trama definisce la modulazione delle pannellature e delle finestre di un edificio che diverrà esemplare, linguaggio di uso comune per l’ inserimento moderno nei centri storici (fig.7). Albini dimostrerà già allora un’eccezionale spregiudicatezza nei confronti dell’eredità del moderno ed altrettanta eccezionale cautela nella definizione dei limiti concessi nel rapporto con la tradizione.

Anche il restauro e gli allestimenti delle gallerie comunali di Palazzo Bianco (fig.8) e del Museo di Palazzo Rosso su via Garibaldi, la via nova di Genova, come il museo del Tesoro di San Lorenzo sempre a Genova, costituiranno, per l’estremo rigore della tecnica museografica, altrettanti prototipi per i tanti allestimenti museali che caratterizzeranno comuni grandi e piccoli dell’Italia del dopoguerra.

Fig. 8 Franco Albini e Franca Helg con Caterina Mercenaro. Museo di Palazzo Bianc, Genova 1950
Fig. 9 Holabird e Roche. Cable Building, Chicago 1899

Roma sarà il banco di prova per affrontare nuovamente il tema della tradizione e della modernità; è del 1960 l’incarico per l’edificio dei grandi magazzini della Rinascente in Piazza Fiume.

Franco Albini e Franca Helg conoscono bene la storia dell’architettura e a Roma hanno certamente guardato attentamente il Palazzo Farnese come hanno approfondito i palazzi ottocenteschi della Scuola di Chicago (fig.9); studiano le Mura aureliane, prossime al luogo dell’intervento, ma anche i lavori  con cui altri architetti lombardi, Maderno e Borromini, avevano contribuito alla realizzazione della Roma barocca.

 

Fig.10 Franco Albini e Franca Helg. Palazzo della Rinascente a piazza Fiume, Roma 1960

Scelgono di adottare un ossatura in acciaio ed una tamponatura in pannelli prefabbricati in cemento color rosato liberamente sagomati; la modulata scansione del rivestimento esterno è funzionale a contenere i condotti dell’aria condizionata e le tubazioni degli impianti; la copertura esibisce un telaio in ferro sporgente sul filo della facciata. Il risultato è un parallelepipedo volumetrico racchiuso nella griglia della gabbia metallica (fig.10).

Va aggiunto che sul fronte principale i due progettisti disegnano un’inutile vetrata che sottrae al volume il suo carattere astratto creando un’assialità ben poco convincente.

“Alla tradizione dò il senso di continuità di cultura tra presente e passato” aveva detto Albini al convegno sulla ricostruzione organizzato dall’MSA e pubblicato su “Casabella” del 1955. Tradizione non è ambientamento non costringe i progettisti ad introdurre “citazioni” ben riconoscibili ma è un riferimento essenzialmente culturale. Albini ed Helg guardano al palazzo rinascimentale ma partecipano ugualmente della cultura del Movimento moderno.

Il progresso e i valori della storia che ispirano Albini ed Helg nel museo di Palazzo Bianco e nella Rinascente si percepiscono anche nella semplice e razionale progettazione di Ignazio Gardella.

Un qualificato professionismo accomuna Gardella agli altri architetti milanesi, Viganò, Magistretti, Zanuso, Figini e Pollini impegnati a definire il volto colto di una città modernamente borghese. Gardella attraversa un periodo storico in cui si vanno profondamente modificando i confini entro i quali si svolgeva il mestiere dell’architetto. A sua volta il professionismo produrrà una vera e propria rivoluzione di tecniche e dei modi di approccio alla progettazione. L’attenzione alla storia e alla modernità, entrambe depurate dall’estremismo delle avanguardie, è mediata da una nuova consapevolezza adeguata all’economia e alle capacità realizzative del paese nel dopoguerra.

Nel 1951 Gardella ha l’occasione di costruire alla Villa Reale di Milano la Galleria d’Arte Contemporanea  creando un felice rapporto di continuità con il Parco esterno da cui la galleria è separata con una grande e continua vetrata (fig.11).

Fig.11 Ignazio Gardella. Galleria d’Arte Contemporanea, Villa Reale di Milano 1951
Fig.12 Ignazio Gardella. Casa per gli impiegati della Borsalino, Alessandria 1952

Nella casa per gli impiegati della Borsalino ad Alessandria del 1952, un blocco edilizio di otto piani di altezza, si snoda con leggere piegature del suo fronte che ritroveremo nella casa alle Zattere di Venezia. Qui la vera invenzione è costituita dalla coperture, una leggera pensilina, un sottile foglio di carta fortemente aggettante, segnato dalla sequenza regolare delle travi portanti (fig.12).

A Venezia Gardella riesce dove Wright, Le Corbusier e Louis Kann fallirono.

Lo scandalo della casa alle fondamenta delle Zattere, definita da Giulio Carlo Argan, un po’ enfaticamente, la “nuova Cà d’oro di Venezia”, è una casa d’abitazione con il fronte sul canale delle Zattere (fig.13).

Fig.13 Ignazio Gardella. Casa d’abitazione alle Zattere, Venezia 1954-1958

La facciata è composta da un basamento in pietra di Vicenza, quattro piani di abitazioni ed un attico; finestre a tutt’altezza accentuano la verticalità; balconate spezzate e di differenti aggetti, con eccezione della terrazza continua dell’attico, segnano l’orizzontale (fig.14). Sulla parete intonacata color mattone le aperture verticali da piano a piano, incorniciate in pietra, sono in gran parte allineate, tranne importanti eccezioni, per creare sulla facciata un eco dei riflessi dell’acqua del canale della Giudecca (fig.15). Con accorte dissimmetrie e abilità nei particolari, il fronte della casa alle Zattere cerca un confronto volutamente ambiguo con l’eccezionalità del sito, tentando un “commento” alla tipologia del palazzo gentilizio veneziano

Fig.14 Ignazio Gardella. Casa d’abitazione alle Zattere, i balconi aggettanti, Venezia, 1954-1958
Fig.15 Ignazio Gardella. Casa d’abitazione alle Zattere, il contesto con la chiesa dello Spirito Santo, Venezia 1954-1958

E’ un cambiamento di rotta, certamente estraneo alla linea seguita dallo stesso Gardella alla Galleria d’Arte moderna come alla Casa al Parco (1947), la più riuscita fra le sue opere del dopoguerra (fig.16).

Fig.16 Ignazio Gardella. Casa al Parco, Milano 1947-1948
Fig.17 Frank Lloyd Wright. Edificio per la Fondazione Masiero, Venezia 1954

Ma qui ci domandiamo: perché mai un’architettura contemporanea deve limitarsi a commentare  il luogo in cui sorge, seppur eccezionale come la città di Venezia? E’ questa una regola o piuttosto un complesso di inferiorità  che ereditiamo dall’ambigua teoria del genius loci?

“L’infantile ritirata italiana dal movimento moderno – commenterà a proposito della casa alle Zattere il critico inglese Reyner Banhamindice di un clima storicistico pericolosamente evasivo”.

Certamente più convincente l’edificio sul Canal Grande che Frank Lloyd Wright disegnò per la Fondazione Masiero. Purtroppo un’occhiuta commissione edilizia gli bocciò il progetto di cui ci rimane soltanto una bella prospettiva (fig.17).

Francesco MONTUORI   Roma 29 novembre 2020