di Alberto CADOPPI
Un dipinto di Annibale Carracci, oggi a Dresda (olio su tela, cm. 174 x 114), databile alla penultima decade del Cinquecento, raffigura un giovane ignudo e alato con al capo una ghirlanda d’alloro e tre corone di foglie al braccio, che sorregge una corona d’oro e un’asta, contornato da vari angioletti fra le nuvole.

Questa figura allegorica è stata interpretata in vario modo (fig. 1). Alcuni l’hanno collegata all’Onore, altri all’Amor di Virtù, altri la identificano con il Genio della Fama, o ancora con una miscela fra queste ultime due figure.
Il quadro, che probabilmente un tempo doveva decorare un soffitto, pervenne a Dresda nel 1746, nell’occasione della c.d. “vendita di Dresda”, quando il duca di Modena Francesco III d’Este, per rimpinguare le casse dello Stato, cedette ad Augusto III di Sassonia, re di Polonia, i migliori cento quadri delle collezioni ducali estensi.
Fino a pochi anni fa si era attestata la tesi di Adolfo Venturi, secondo cui il dipinto era stato donato al cardinale Alessandro d’Este – forse nel 1622 (il passo era ambiguo relativamente alla data) – da Asdrubale Bombasi, erudito e collezionista reggiano[1]. Una quindicina di anni fa dedicai un articolo alla questione e al dipinto, e pervenni a conclusioni parzialmente diverse [2].
Analizzando le fonti da cui il Venturi aveva derivato le sue informazioni, ero risalito prima al Campori [3] e poi, a ritroso, al de’ Crescenzi, il quale, nella Corona della Nobiltà italiana, pubblicata nel 1642, aveva in realtà fatto riferimento al testamento del Bombasi, nel quale si trovava il lascito del dipinto al cardinale [4]. Dunque non si sarebbe trattato di donazione, ma di legato testamentario. Nello stesso articolo, pubblicavo parzialmente l’inedito testamento del letterato reggiano. Esso era stato redatto di pugno dal Bombasi il 9 luglio 1612 in Roma, ed era stato consegnato al notaio romano Bernardino Gargari il 1° ottobre dello stesso anno [5]. Nel testamento, in effetti, compariva il passo del lascito in questione, che vale la pena riproporre testualmente in questa sede:
“Al Signor Cardinal d’Este sempre mio particolare padrone e fautore lascio un quadro di Pittura molto nobile et preggiato di mano di Anibale Caracci rappresentante un honore in forma humana con l’ali però et con alcune figurine intorno veramente mirabili che significano l’affetti quali sogliono accompagnare le attioni honorate. A quale Prencipe amico d’honore si doveva hoggi di più raggionevolmente si fatto dono? Reliquias Danaum atq: immitis Achillis”.
Tuttavia il cardinale Alessandro d’Este si spense nel maggio 1624, mentre il Bombasi morì – come dimostrai nello stesso articolo – il 4 novembre 1624. Dunque, il porporato non avrebbe mai potuto ereditare il dipinto dal Bombasi, essendo defunto prima di quest’ultimo. In effetti, nell’inventario post mortem dei quadri del cardinale, del 1624, il quadro del Carracci non figura [6]. Recentemente ho ritrovato anche l’inventario post mortem del Bombasi, datato 1° dicembre 1624, relativo ai mobili conservati in casa sua [7]. Stranamente non viene menzionato il nostro Amor di Virtù, ma nel documento si fa riferimento a un quadro (non meglio descritto) giunto da poco da Roma, ancora avvolto e chiuso in un “cannone di latta impiombato”. Questa doveva comunque essere una tela di una qualche importanza, per essere giunta appositamente da Roma, e così accuratamente protetta. Si potrebbe dunque ipotizzare che all’interno di quel “cannone” si trovasse, arrotolato, il nostro dipinto.
Va detto che in un inventario estense del 1663 il quadro del Carracci risulta nel Palazzo Ducale di Modena, nella camera prima dell’appartamento “de Stuchi” [8]. Dunque, sicuramente pervenne al duca di Modena dopo la morte di Asdrubale, in una data imprecisata. Può essere che gli esecutori testamentari del Bombasi, interpretando la volontà del de cuius, abbiano destinato al duca il dipinto che l’erudito reggiano aveva lasciato al cardinale. Comunque sia, non fu donato dal Bombasi al cardinale, né ciò avvenne nel 1622. La versione dei fatti del Venturi, dunque, deve ritenersi superata [9].
Piuttosto, la descrizione del dipinto fatta dal Bombasi nel suo testamento porta un altro tassello alla questione dell’interpretazione della raffigurazione allegorica elaborata dal Carracci nella tela. A giudizio del Bombasi, il dipinto rappresentava “un honore in forma humana con l’ali però”. E abbiamo visto che l’Onore è uno dei significati attribuiti dalla critica al bel giovane alato raffigurato nel quadro. E’ poi interessante l’espresso riferimento fatto dal Bombasi ad
“alcune figurine intorno veramente mirabili che significano l’affetti quali sogliono accompagnare le attioni honorate”:
si tratta dei bellissimi angioletti che svolazzano attorno al giovane, che devono dunque essere interpretate come gli “affetti”.
L’interpretazione “autentica” fornita dal Bombasi è sicuramente significativa, e veniva sostanzialmente condivisa dal Malvasia, che lo descriveva come “Onore in aria” [10]. Essa non esclude peraltro ulteriori possibili letture dell’invenzione carraccesca. Il Tietze, ad esempio, rilevava la somiglianza con l’immagine dell’Amor di Virtù come descritta dal Ripa nella sua Iconologia [11] (fig. 2).

Tuttavia, oltre agli attributi indicati dal Ripa indubbiamente coincidenti con quelli del dipinto, qui si riscontrano uno scettro e una corona d’oro, non presenti nell’Iconologia. Per questo motivo, vi è chi ha pensato ad una
“sorta di contaminazione tra la figura dell’Amor di Virtù […] e quella del Genio, e forse la presenza dello scettro e della corona collegano appunto l’esercizio del potere a quello delle doti morali”[12].
Comunque, per suffragare l’affidabilità delle parole del Bombasi, pare utile dare qualche altra notizia, sia pur sinteticamente, su questo nobiluomo reggiano.

Asdrubale Bombasi era nato il 27 agosto 1550 da Gabriele e di Giulia Zoboli. Il padre è un personaggio di una certa importanza, ed è noto agli storici dell’arte [13] (fig. 3). Nato a Reggio nel 1531, parente dell’Ariosto per via materna, compose una tragedia, l’Alidoro, che venne rappresentata il 2 novembre 1568 a Reggio alla presenza di molti sovrani e nobili dell’epoca. Entrò al servizio dei Farnese e passò la seconda parte della sua vita fra Parma e Roma, dove morì alla fine del 1602. Ebbe stretti rapporti con i Carracci, specie con Annibale e Agostino, e fu probabilmente il principale tramite del reclutamento di Annibale a Roma da parte del cardinale Odoardo Farnese, per la decorazione del suo palazzo.
Lo stesso Gabriele commissionò ad Annibale una bellissima S. Margherita (derivata dalla S. Caterina della sua celebre Madonna di S. Luca del Duomo di Reggio) per ornare la cappella della sua tomba, in S. Caterina dei Funari a Roma: un dipinto che, come è noto, piaceva molto al Caravaggio (fig. 4). Il Bombasi possedeva altri quadri di Annibale Carracci, come ad esempio un bellissimo Arcangelo Gabriele, oggi al museo di Chantilly (fig. 5).


Ad Annibale, presumibilmente, commissionò l’esecuzione delle copie degli affreschi dell’abside di S. Giovanni Evangelista in Parma, prima che venisse demolita[14]. Gabriele Bombasi ebbe probabilmente un ruolo rilevante anche nelle committenze reggiane al Carracci, nella seconda metà degli anni Ottanta del Cinquecento: si pensi alla citata Madonna di S. Luca del Duomo (fig. 6), alla Madonna di S. Matteo di S. Prospero, e all’Elemosina di S. Rocco dell’oratorio omonimo.


Anche il figlio Asdrubale, addottoratosi in legge a Bologna nel 1573, fu letterato ed erudito[15] (fig. 7).
Ebbe rilevanti amicizie: fra questi si può segnalare Ridolfo Arlotti, reggiano, poeta e segretario del cardinale Alessandro d’Este.
Asdrubale trascorse la sua vita fra Reggio, Parma e Roma, dove come abbiamo visto fece testamento nel 1612[16]. Molte iscrizioni latine nelle chiese di Reggio sono di sua invenzione.
Fece erigere in S. Prospero a Reggio, nel 1616, due bei monumenti, dedicati alla madre e al fratello Annibale, morto in guerra combattendo contro i turchi (fig. 8).

Le due lapidi sono state attribuite in un recente contributo all’architetto parmense Giovanni Battista Magnani [17]. Il Bombasi doveva essere molto amico di Ranuccio Pico, figlio del segretario storico dei Farnese a Parma e letterato; lo dimostra un cospicuo lascito destinato al Pico nel suo testamento.
Non sappiamo se l’Onore o Amor di Virtù fu commissionato al Carracci da Gabriele o direttamente da Asdrubale. Questi d’altronde non aveva neppure vent’anni in meno del padre. Questo spiega la particolare vicinanza al genitore, di cui seguì spesso gli spostamenti fra Reggio, Parma e Roma, e per certi versi seguì le orme sotto il profilo culturale.
Per tutti questi motivi, l’interpretazione del dipinto fatta da Asdrubale deve ritenersi piuttosto attendibile. Del resto, anche il Crescenzi aveva identificato il giovane alato nell’Onore, identificazione ripresa tra gli altri dal Venturi.
In proposito, vale peraltro la pena segnalare un documento, di cui non avevo tenuto conto quando scrissi l’articolo citato una quindicina d’anni fa. Si tratta di una testimonianza, raccolta da un notaio reggiano il 19 settembre 1680. Si trova all’Archivio di Stato di Modena, nell’archivio “per materie”, sotto la voce riguardante il pittore bolognese Alessandro Tiarini [18]. In effetti la testimonianza riguarda due quadroni dipinti dal Tiarini per la chiesa di San Giovanni Evangelista a Reggio, su committenza di don Silvestro Menghi [19]. Ma nella testimonianza si parla anche del nostro Onore, o Amor di Virtù. A testimoniare, davanti al notaio Carlo Fiordibelli, è chiamato dal luogotenente del governatore di Reggio il (quasi sconosciuto) pittore reggiano Francesco Ruffini, figlio del fu Federico.
L’artista, che doveva essere piuttosto anziano, riferisce quanto segue:
“La verità fu, et è, che dell’anno 1622, salvo il vero, mentre mi trovavo in casa del già signor don Silvestro Menghi Mansionario della Cattedrale di questa Città ad effetto di designare un quadro dell’honore della virtù fatto per mano del signor Anibale Carazzi, ho memoria d’haver più volte veduto discorrere col detto signor don Silvestro il già signor Alessandro Tiarini pittore bolognese […]”.
Il pittore reggiano, allora evidentemente molto giovane, si era sostanzialmente recato presso la casa di don Menghi per copiare (in un disegno) il quadro del Carracci, per affinare la sua educazione artistica.
Il documento, per quanto ci interessa qui, ci rivela almeno un paio di cose. La prima, che il quadro si trovava attorno al 1622 a casa di don Silvestro Menghi. Ci si potrebbe domandare il perché si trovasse presso quel sacerdote un quadro appartenente ad Asdrubale Bombasi. Ebbene, il Menghi fu per molti anni il fattore prima di Gabriele Bombasi e poi di suo figlio Asdrubale [20]. Dunque, è comprensibile che il mansionario della Cattedrale tenesse in custodia a casa sua il prezioso dipinto del Carracci, specie durante i frequenti periodi di assenza da Reggio di Asdrubale.
La seconda indicazione che ci viene da questo documento è relativa, ancora una volta, all’ interpretazione dell’allegoria raffigurata dal Carracci. Secondo il Ruffini, il pittore che da giovane aveva copiato il dipinto, esso rappresentava “l’honore della virtù”. Questa descrizione doveva corrispondere a quanto don Silvestro Menghi – che conosceva sicuramente bene il quadro, e che di arte se ne intendeva – aveva riferito al giovane artista reggiano che si voleva esercitare copiando quel capolavoro. Si tratta di una lettura in armonia con quanto scritto da Asdrubale Bombasi nel suo testamento, che aveva enfatizzato l’aspetto dell’onore, ma che aveva parlato anche di “attioni honorate”, alludendo dunque pure alla virtù. Ed è una interpretazione che in fondo appare sostanzialmente compatibile con le ulteriori, pur variegate tesi emerse nel tempo fra gli studiosi [21].
Perciò ho pensato di designare il dipinto con quella denominazione nel titolo del presente studio.
Alberto CADOPPI Reggio Emilia 1 Giugno 2025
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