Al Museo d’Arte Sacra di Camaiore. Quando l’attrazione non è un (improbabile) Caravaggio ma un poco noto Matteo Civitali

P d L

Il museo d’arte sacra di Camaiore si trova nel centro cittadino ed è uno dei molti musei della provincia toscana che la saggezza e l’attaccamento di alcuni benemeriti contribuiscono a mantenere vivi nella convinzione, del tutto legittima, che continuare a far vivere luoghi del genere oltre che documentare e valorizzare un patrimonio inestimabile di opere d’arte, contribuisca a dar lustro e a trasmettere le migliori tradizioni di arte e di vita radicate nel territorio, documentando le straordinarie ricchezze raccolte anche nei ‘piccoli’ musei.

La collaborazione tra le istituzioni, il comune e la diocesi, e il volontariato di numerosi cittadini consentono di mantenere attiva questa sede museale da raccomandare tanto per la notevole qualità di ciò che espone, come vedremo, quanto come testimonianza di quali ambiti di reale religiosità incontrava chi si incamminava per i sentieri della via Francigena.

Nel nostro caso a dire il vero il motivo della visita era dovuto in realtà ad un evento fuori dell’ordinario, cioè l’esposizione nella sala cosiddetta dell’Arazzo (una straordinaria manifattura fiamminga del XVI secolo raffigurante l’Ultima Cena e scene della Passione di Cristo) di un dipinto, vale a dire il San Giovannino disteso (Fig 1), presentato in pompa magna lo scorso 18 ottobre, senza alcuna remora, come opera di Michelangelo Merisi da Caravaggio. Il quadro, ad essere precisi, era stato già esposto in una mostra itinerante in Giappone qualche tempo fa ed ora grazie all’associazione culturale Art Promoter si trova, ed è possibile vederlo, fino al 31 dicembre in Versilia.

1. San Giovannino disteso

E’ noto a tutti quale sia l’irresistibile richiamo del geniale artista – di cui ricorre quest’anno il 450esimo anniversario della nascita- capace come pochi altri di attirare l’attenzione oltre che degli addetti ai lavori anche di molti amanti delle belle arti e perfino di masse di semplici curiosi, attratti da quanto si è tramandato della sua vita disordinata e spesso violenta, ma soprattutto dalla originalità delle sue tele che com’è noto rivoluzionarono la storia dell’arte. Per questo si può comprendere l’interesse delle istituzioni camaioresi ad ospitarne un possibile – per quanto improbabile, come diremo – quadro. E tuttavia chi si occupa dello studio della vicenda biografica e artistica del pittore sa bene che con le attribuzioni che lo riguardano tocca andarci con i piedi di piombo.

Ed in effetti, già da una prima osservazione diretta, l’idea di trovarci di fronte ad un capolavoro è del tutto evaporata ridimensionandosi a favore di una copia, probabilmente coeva, realizzata da un seguace stretto del genio lombardo. Va certamente riconosciuto che il dipinto ha sofferto di vari malsani restauri e ritocchi precedenti che ne hanno compromesso la stesura deprivandolo in buona parte della materia originale al punto che oggi ne esce ostacolata una sia pur sommaria analisi anche solo visiva, e però quello che si può capire in termini di ductus e di tecnica realizzativa porta a escludere – almeno a parere di chi scrive- che vi sia impegnata la mano del Maestro.

Senza contare che la stessa vicenda del dipinto raffigurante il San Giovannino disteso non è priva di lati da chiarire e si ricollega agli ultimi tempi della vita del Merisi, allorquando nel tentativo di rientrare a Roma via mare da Napoli venne arrestato a Palo e perse di vista la ‘feluca’ che trasportava “doi S. Gioanni del Caravaggio” – com’è scritto negli atti-  oltre ad una Maddalena; com’è noto dalla biografia dell’artista scritta da Giovanni Baglione, un pittore dell’epoca suo rivale, Michelangelo Merisi sarebbe infine morto – “malamente, così come malamente era vissuto”-,  forse per malaria sulla spiaggia di Porto Ercole nel disperato quanto folle tentativo di raggiungere a piedi l’imbarcazione che conteneva i tre dipinti che sarebbero stati donati al papa Paolo V Borghese, e grazie ai quali questi avrebbe cancellato la condanna a morte cui l’artista era incappato a seguito dell’omicidio del rivale Ranuccio Tomassoni, consentendogli di tornare a Roma, allora centro focale delle arti.

Due noti studiosi esperti di Caravaggio, purtroppo scomparsi da alcuni anni, Maurizio Marini e Vincenzo Pacelli (autore quest’ultimo del ritrovamento dei documenti che attestano la presenza – dopo la morte del Maestro- dei due San Giovanni e della Maddalena nella casa napoletana della marchesa Costanza Colonna, sostenitrice ed amica di Caravaggio) hanno sostenuto in pubblicazioni e saggi assai ben argomentati che il San Giovannino disteso fosse uno dei “Doi S. Gioanni” presenti sulla feluca e che l’originale sia quello oggi in una collezione a Monaco di Baviera.

Dunque, quello sub judice esposto a Camaiore, proveniente da Malta, altro non potrebbe essere che una copia di quello di Monaco di Baviera (ammettendo che  questo sia l’originale cosa che alcuni fra gli esegeti di Caravaggio non contemplano) e se si considera quanto il Merisi fosse contrario a concedere a chicchessia la possibilità di copiare i suoi capolavori, si deve ritenere che il dipinto di Camaiore possa essere -ancorché coevo- però di qualche anno successivo alla scomparsa dell’artista, avvenuta nel 1610.

Come si vede, al di là di questa ultima considerazione prossima alla certezza, siamo nell’ambito delle ipotesi, cui occorre aggiungerne un’altra, vale a dire che possa esistere da qualche parte, ancora ignota, una versione originale del San Giovannino ancora da scoprire.

2

Detto questo però, la visita al museo, accompagnati da autentici appassionati d’arte come l’assessore alla Cultura Gabriele Baldaccini, il consigliere comunale Graziano dalle Luche e il direttore del museo Antonio Gabriele Palmerini, vero ‘angelo custode’ dei luoghi per tradizione famigliare, assume immediatamente un altro significato appena si è di fronte ad alcuni capolavori –questi si autentici !- che si trovano nelle altre sale, a cominciare dalla straordinaria Vergine Annunciata di Matteo Civitali (Lucca, 1436 – 1502). Figg. 2 – 3 – 4

L’artista, figlio di Giovanni da Cividale del Friuli (di qui il cognome Civitali), fu scultore di notevole spessore, educato presumibilmente alla bottega di Antonio Rossellino (Settignano, 1427 – Firenze, 1479) e secondo il Dizionario Biografico degli Italiani “l’artista più importante del Quattrocento lucchese” nonché “il più notevole scultore in marmo dell’epoca attivo in Toscana e al di fuori di Firenze” (Cfr. Stella Rudolph, DBI, vol. 26 (1982).

3

A questa eccezionale espressione iconografica riguardante il tema dell’ Ecce Ancilla Domini, cui il Civitali sul finire del XV secolo diede vita, il Museo d’arte sacra di Camaiore dedicò una significativa mostra nel 2008 corredata da un interessante catalogo dove peraltro alcune pagine ci raccontano la drammatica – è il caso di dire- serie dei restauri cui l’opera è stata sottoposta, compresa la relazione dell’ultimo a ridosso della esposizione.

 Da questo abbiamo estratto le prime frasi che fanno ben capire quali problemi sono stati affrontati:

“Ricavata da un unico tronco, probabilmente di pioppo o tiglio, la statua (scultura policroma, cm 158 x 44 x 36, ndA) le cui parti assemblate dovevano essere gli avambracci e le mani … è stata nel tempo oggetto di vicissitudini e manomissioni; di qui la difficoltà di leggere la struttura originale e identificare con certezza l’essenza lignea, considerato l’estremo degrado dovuto agli attacchi di insetti xilofagi” (cfr, Eleonora Rossi, Il Restauro, in Ecce Ancilla Domini. L’iconografia della Vergine Annunciata in Matteo Civitati scultore, Pacini editore, Pisa, 2008).
4

Nel catalogo sono altresì analizzati in modo davvero esauriente i significati religiosi, artistici e storici della scultura grazie alle firme di studiosi e teologici di grande valore, cui rimandiamo quanti lettori volessero approfondire argomenti di ampia portata non riassumibili in questa sede considerando i temi affrontati e l’importanza storica della scultura. Basti dire che Vittorio Sgarbi, tra i mallevadori dell’esposizione del San Giovannino disteso, ha espresso l’intenzione di esporre la Vergine del Civitali in una prossima mostra in calendario a Rovereto per il luglio del ’22, dedicata ad un artista toscano contemporaneo, Giuliano Vangi (Barberino del Mugello, 1931) ben noto quale autore di opere a soggetto religioso ospitate in numerose chiese nonché tra l’altro ultimamente proprio di sculture sacre per la chiesa di Namyand nella Corea del Sud.

Ma il Museo camaiorese si fa preferire anche per altre opere di ragguardevole rilievo artistico.

5

Oltre alla Vergine del Civitali, infatti, tra le altre sculture si deve segnalare almeno il S. Antonio Abate, risalente al secondo decennio del 1400 e realizzato da Francesco di Valdambrino, un importante artista formatosi a Siena nella bottega di Jacopo della Quercia (con cui alcuni studiosi ritengono abbia collaborato nella realizzazione di quel capolavoro assoluto dell’arte scultorea di sempre che è la Tomba di Ilaria del Carretto, allocata nel Duomo di Lucca -Fig. 5-) oltre ad una Madonna in trono col Bambino di fattura tardo cinquecentesca. Sono poi da ammirare una serie di paramenti liturgici tra cui una “mitria abbaziale ricamata in argento e oro, proveniente dalla Badia di S. Pietro, prezioso manufatto tessile dell’arte fiorentina della prima metà del sec. XV”, senza contare la serie di croci astile in argento datate dal ‘300 all’epoca neoclassica, fra cui quella proveniente da S. Maria Albiano (secondo decennio del XIV sec.), ritenuto il primo oggetto dell’arte orafa che presenta la tipica punzonatura con la pantera rampante.

6

Dal punto di vista pittorico all’interno del Museo si segnala la pala raffigurante la Madonna in trono e il Bambino fra i santi S. Giovanni Battista, S. Andrea, S. Pietro, S. Sebastiano, attribuita alla mano di Vincenzo di Antonio Frediani (documentato a Lucca tra il 1481 e il 1505), (Fig. 6) un artista influenzato dalla maniera del Ghirlandaio e ritenuto “il più tipico e prolifico esponente della pittura lucchese della fine del XV secolo” e soprattutto il polittico firmato “Francesco d’Andrea Anguilla di Lucha dipinse”, (Fig 7) risalente al primo decennio del XV secolo ed oggi collocato presso il Museo dopo il furto del febbraio del 1971, cui seguì il ritrovamento ed il restauro che non ha potuto però restituire del tutto lo stato originale.

7

Ci ha colpito poi un’altra imponente pala d’altare che raffigura la Madonna in trono e santi realizzata  da un’artista donna, per la precisione una monaca di clausura domenicana, nota come suor Aurelia, al secolo Isabella Fiorentini, nata a Lucca nel 1595, che la eseguì nel 1622 per la cappella di famiglia nella Chiesa  dell’Immacolata Concezione e di san Lazzaro (Fig. 8).

8

La pala non è certamente da ricordare per la particolarità della iconografia che appare ad evidenza frutto di un alfabeto pittorico fermo ancora ai richiami del tardo manierismo fiorentino della seconda metà del ‘500, quanto piuttosto perché è l’ennesima conferma di come il monastero desse  la possibilità di ricevere una buona educazione e di poter studiare ed apprendere la musica, la letteratura e la pittura, e dunque come “abbia effettivamente rappresentato un centro di cultura fra Rinascimento e Barocco”, consentendo alle donne lì rinchiuse “di acquisire abilità pratiche e istruzione” altrimenti di improba acquisizione, come ha scritto Gabriella Zarri (Cfr. G. Zarri, Culture nel chiostro tra arte e vita, in Sheila Baker, a cura di, Artiste nel chiostro. Produzione artistica nei monasteri femminili in età moderna, numero speciale di “Memorie domenicane”, 2015, n. 46, edizioni Nerbini, Fi, 2015).

Di questa suor Aurelia, della sua vicenda umana ed artistica ancora poco si sa, non facendo parte di quella sia pur piccola schiera di pittrici che nel bene e nel male hanno attirato l’attenzione degli studiosi e sono assurte a simbolo di un universo proto femminista, come la notissima Artemisia Gentileschi, o la meno nota Plautilla Nelli, la suor Plautilla talentuosa al punto da essere citata da Giorgio Vasari nelle sue Vite, e come la da poco rivalutata Plautilla Bricci, la “architettrice” capace di sfidare Gian Lorenzo Bernini nella Roma barocca del ‘600.

Se dunque l’intenzione dell’autorità cittadine evocando l’eclatante nome di Caravaggio con la presenza nel Museo d’Arte sacra di un quadro come il San Giovannino disteso era di “dare avvio a una nuova iniziativa di valorizzazione del prestigioso Museo” come ha dichiarato il Sindaco di Camaiore, Alessandro Del Dotto, a nostro parere più opportuno – e forse più logico- sarebbe lavorare di più a valorizzare quanto già di straordinario il Museo contiene.

Innanzitutto, ci sentiamo di suggerire, realizzando una guida del Museo che oggi manca, che sia ovviamente alla portata di tutti e che possa consentire di rendere chiaro e far capire quanto vi è esposto, tramite schede tanto scientifiche e filologicamente valide quanto fruibili da tutti. Una considerazione questa che può apparire forse scontata ma che assume a nostro parere una considerevole valenza se si considera l’espansione, seguita alle restrizioni del Covid, dell’ansia di capire, osservare, frequentare i luoghi della cultura da parte di molti. Inoltre, obiettivo prioritario dovrebbe essere sviluppare al massimo l’integrazione del Museo nella realtà cittadina innanzitutto con le scuole, potenziando gli aspetti didattici, tenendo presente l’evoluzione del linguaggio sempre più caratterizzato specie tra i più giovani dall’uso del web e che in ogni caso dev’essere confacente alle esigenze di un pubblico – residenti, turisti, curiosi- sempre molto diversificato. Un percorso che gli studiosi e gli appassionati camaioresi sono certamente in grado di fare.

P d L  Viareggio  21 novembre 2021