Al Maxxi la storia di una rivoluzione anni ’70: Elisabetta Catalano tra immagine e performance (prorogata la mostra)

di Alessandra IMBELLONE

È stata prorogata fino al 6 settembre 2020 la mostra allestita nello spazio Archive Wall, l’area espositiva del MAXXI Museo nazionale delle Arti del XXI secolo dedicata alla valorizzazione degli archivi del contemporaneo. Realizzata dal Museo in collaborazione con l’Archivio Catalano e curata dall’architetto Aldo Enrico Ponis, con la consulenza scientifica di Laura Cherubini, la mostra si configura come duplice omaggio alla fotografa Elisabetta Catalano, ritrattista elegante e sensibile di artisti, poeti e intellettuali, e alla storia della performance come forma d’arte.

La rassegna, ad ingresso libero, si concentra su un aspetto particolarmente interessante della produzione di Catalano, ossia la sua collaborazione alle performance o azioni di alcune delle figure più importanti della Neoavanguardia degli anni Settanta. In quegli anni, infatti, la fotografa romana realizzò per vari artisti sequenze fotografiche che documentano azioni e performance, spesso ricostruite a posteriori e talvolta nate invece nel suo stesso studio.

Fu infatti nello studio romano di via dell’Oca che nacque un vero e proprio genere: la performance in studio, a porte chiuse, realizzata non per essere vissuta e consumata dal pubblico ma per una sua traduzione in immagini: l’esito fotografico, da tramandare a futura memoria. Il nitido linguaggio della Catalano, affermatasi come ritrattista a livello internazionale dopo un brillante esordio sul set di 8 ½ di Fellini, film nel quale recitò una piccola parte, conferisce permanenza ad azioni altrimenti effimere in un lavoro dal quale emerge altresì un’acuta interpretazione dell’opera degli artisti.

Ricca di documenti che raccontano la complessità del processo creativo in tutte le sue fasi, dai provini ai backstage, la mostra prende in esame quattro performance emblematiche di quella formidabile stagione artistica che fu la Neoavanguardia degli anni Settanta, raccontate attraverso quegli scatti destinati a divenire l’immagine iconica della performance stessa.

Spiega il curatore Aldo Enrico Ponis, ultimo compagno di Elisabetta Catalano

“Se non si riesce a ricostruire il percorso di una performance a far rivivere quella complicità tra i due artisti, uno che si esprime con le opere, l’altro attraverso il mezzo fotografico, l’immagine finale, iconica rimarrà solo la testimonianza di qualcosa che si può solo intuire, rimanendo aldilà della comprensione”.

Nel caso di Joseph Beuys, nume tutelare delle neoavanguardie europee, l’idea della performance nacque in modo estemporaneo nel 1973, quando l’artista tedesco, venuto a Roma per la grande manifestazione Contemporanea, si recò nello studio Catalano per un ritratto. In studio gli venne l’idea di farsi fotografare nel gesto di sorreggere qualcosa d’inesistente tra le mani, quella Scultura invisibile che dà il titolo al ritratto, un ritratto che si fa performance.

Un anno prima Elisabetta scattava in studio una sequenza fotografica che ricostruiva L’Eroe da camera, un’azione dai complessi significati alla quale Vettor Pisani lavorava fin dal 1970 e che era stata rappresentata a Documenta 5 di Kassel nell’estate del 1972, dove aveva scandalizzato il pubblico per la presenza del nudo ed era stata accusata di pornografia.

La performance ricostruita in studio e ribattezzata Lo Scorrevole era ispirata al Grande Vetro di Marcel Duchamp, celebre opera dadaista nella quale però la figura protagonista dell’Impiccato-femmina era sospesa al gancio, mentre qui appare semplicemente legata con un collare a una catena scorrevole tesa tra due pareti, senza traccia di sofferenza.

Elisabetta Catalano, Vettor Pisani, Lo scorrevole

Il corpo indifferente della donna (la modella Monica Strebel, che nello studio Catalano venne a sostituire la sorella di Pisani, Luciana, protagonista dell’azione rappresentata a Kassel) è messo a nudo, alludendo al rapporto dell’artista (e dello spettatore) con la parte femminile, la psiche, l’anima imprigionata nel corpo che si libera in un’esoterica iniziazione.

Elisabetta Catalano, Cesare Tacchi, Painting 1

In un richiamo complessivo al senso profondo della vita come destino tragico dell’esistenza, l’orologio in scena rimanda al tema del destino: nel luogo dov’è ambientata l’azione lo spazio, simboleggiato da un binario orizzontale, e il tempo a cui allude l’orologio sono le coordinate alle quali la nostra vita (il corpo, l’anima) appare ancorata/agganciata. La lettura che ne propose Achille Bonito Oliva in accordo con lo stesso Pisani è molto più complessa e verte essenzialmente sulla messa in crisi della soggettività creatrice che l’opera (e lo stesso aspetto fisico dell’artista) proponeva nella sua ambiguità e polisemia.

Dello stesso 1972 è Painting, intitolata inizialmente Action painting, una performance a porte chiuse realizzata nello studio Catalano nella quale Cesare Tacchi faceva riemergere la propria immagine attraverso una lastra di vetro trasparente, cancellando a mano a mano lo strato di vernice bianca che lo offuscava.

La riapparizione dell’artista attraverso la cancellazione rivissuta a ritroso in una sequenza di ventiquattro scatti rovesciava o meglio rendeva reversibile quella Cancellazione d’artista effettuata da Tacchi il 18 maggio 1968 presso la galleria “La Tartaruga” di Plinio De Martiis, che aveva destato tanto scalpore. La performance sessantottina aveva segnato uno spartiacque all’interno della produzione dell’artista, che con la ricerca della tabula rasa abbandonava il passato pop per avviarsi sui sentieri dell’arte concettuale e della negazione della pittura. Pittura che veniva ulteriormente negata e cancellata nella performance messa in atto nello studio Catalano, ironicamente intitolata proprio Painting.

Last but not least la mostra del MAXXI mette in luce la lunga e importante collaborazione con Fabio Mauri, che di Elisabetta Catalano fu anche il compagno di vita, esponendo al pubblico provini e scatti della sequenza fotografica Europa bombardata del 1978.

Si trattava della ricostruzione in studio di un’azione dallo stesso titolo ch’era stata progettata per la rassegna Metafisica del quotidiano organizzata da Franco Solmi a Bologna, dove però era stata realizzata solo in parte, per ragioni non espressamente chiarite ma che si possono ricondurre alle forti resistenze che l’opera di Mauri poteva suscitare.

Elisabetta Catalano, Fabio Mauri, Europa bombardata, Provini

L’artista intendeva evocare la suggestione di diverse situazioni della vita del periodo fascista e nazista, tra le quali una festa dell’alta società tedesca degli anni Trenta. L’intento era quello di ricreare attraverso frammenti di memorie private rappresentate dagli oggetti di scena (tappeti, poltrone, un paio di guantoni da boxe) una memoria storica del periodo fascista. Come nelle precedenti azioni Cos’è il fascismo (1971) o Ebrea (1973) non si trattava di creare un’opera ideologica o “di denuncia”, ma di rievocare i frammenti di ciò che era stato, facendoli rivivere di fronte ai testimoni di oggi: l’opera vera per Mauri si collocava nel mezzo, ossia nella reazione intima dell’osservatore.

La ricerca dell’artista romano, che da bambino aveva scontato sulla propria pelle le leggi antisemite per soffrire pochi anni più tardi di un esaurimento nervoso che lo aveva portato a subire 33 elettroshock, era centrata sull’analisi del rapporto tra realtà e rappresentazione, tra etica ed estetica, tra memoria collettiva e individuale, sul tema della manipolazione del pensiero e su quel concetto di ideologia che ha plasmato la storia del Novecento. Fascismo e nazismo erano sentiti non solo come specifici momenti storici o come fantasmi del passato, ma come fenomeni originati da attitudini tuttora presenti e pervasive nella nostra quotidianità.

L’atto artistico di Mauri consisteva nel riportare al presente ciò che era al tempo stesso assente e passato: la sua era una concezione dell’arte come antidoto alla rimozione dal qui-e-ora e dalla memoria. Lo spettatore era sollecitato dalla performance a non dimenticare il passato o a non ignorare le assenze.

L’articolato progetto originario di Europa bombardata prevedeva l’ambientazione della performance in un angolo della chiesa sconsacrata di Santa Lucia a Bologna, già adibito a laboratorio di ceramica, il quale doveva essere usato per ricostruire l’immagine dei forni crematori di Buchenwald. Impreviste ridipinture in oro e argento che ne alterarono irrimediabilmente l’aspetto indussero Mauri a non servirsene più e ad occupare solo la navata centrale della chiesa.

Per sottolineare la resistenza al progetto già approvato e la mancata collaborazione da parte dei tecnici, che lo avevano sabotato operando le ridipinture, l’artista installò all’interno della chiesa un cartello che recitava paradossalmente: “Il bombardamento d’Europa non si potrà effettuare per motivi di sicurezza”.

La sequenza realizzata nello studio Catalano con la modella Danka Schröder che, come una novella Marlene Dietrich nell’Angelo azzurro, impersonava la Giovane Germania portò alla creazione di una delle immagini più iconiche e pubblicate della compianta fotografa romana.

Un potente invito a riflettere sulla seduzione del male.

Alessandra IMBELLONE   Roma 9 agosto 2020