di Claudio LISTANTI
Il nuovo direttore musicale dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Daniel Harding, è tornato sul podio della Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone proponendo uno stimolante programma basato su grandi composizioni sacre prodotte a cavallo tra ‘800 e ‘900.
Si tratta dei Pezzi Sacri di Giuseppe Verdi e della Sinfonia n. 2 in Do minore “Asrael” Op. 27 del compositore ceco Josef Suk. La particolarità di questi brani, oltre ad essere il frutto dell’ispirazione religiosa dei due compositori, è quella di essere praticamente contigui temporalmente. I Pezzi Sacri di Verdi, pur composti in anni diversi -qui accludiamo anche l’Ave Maria che non è stata eseguita in questo concerto- sono comunque il risultato del Verdi maturo nel periodo che va dal 1889 fino al 1897 mentre la pubblicazione complessiva dei quattro pezzi risale al 1898. La Seconda Sinfonia di Suk, invece, risale a qualche anno più tardi rispetto ai brani verdiani, esattamente al 1906 e quindi collocati in un momento cruciale della Storia della Musica quando l’800 stava per concludersi e tutti erano alla ricerca della novità e di quella scintilla che potesse scoccare per segnare il rinnovamento voluto e la composizione di Suk incarna questo tipo di desiderio.

I brani in programma consentono di porre in evidenza il pensiero religioso dei due musicisti che in Verdi era il risultato del non molto celato ‘agnosticismo’ che lo portava a considerare diretto il rapporto tra la divinità e l’individuo, quindi, senza intromissioni intermedie. In Suk, invece, si nota una religiosità più completa e complessa che in questa sinfonia si traduce nel rappresentare la tragedia della morte provata dal compositore a seguito della morte del suocero, il grande Antonín Dvořák, morto nel 1904 del quale sposò la figlia Otilie, la sua adorata moglie, che morì qualche tempo dopo.
I Pezzi Sacri di Verdi, più conosciuti con il titolo di Quattro Pezzi Sacri raccolgono quattro composizioni a carattere sacro, l’Ave Maria, per coro a cappella, in latino, composta nel 1889, lo Stabat Mater, per coro sui celebri versi di Jacopone da Todi, composto tra il 1896 e il 1897, le Laudi alla Vergine Maria, per coro di soprani e contralti a cappella musicate sui versi tratti dal Canto XXXIII del Paradiso di Dante e composte intorno al 1890 ed infine il Te Deum, per doppio coro e orchestra composto tra il 1895 e il 1896.
Questi brani, da come si può evincere dalle date, sono stati composti dal Verdi maturo e coprono un arco temporale che si sviluppa dagli anni seguenti al rifacimento del Simon Boccanegra (1881) e della prima di Otello (1887) per intrecciarsi con Falstaff (1893) dopo il quale Verdi produsse Stabat e Te Deum che possono essere considerati vero e proprio testamento artistico del musicista, racchiudendo in essi il suo modo di intendere la musica che aveva come irrinunciabile punto di partenza la polifonia di Palestrina, qui evocata con i cori a cappella de l’Ave Maria e delle Laudi alla Vergine Maria mentre Stabat e Te Deum sono il punto di arrivo di questa lunga carriera che si è sviluppata per più di 60 anni della sua vita.

Per questo concerto è stato scelto di omettere l’esecuzione dell’Ave Maria costruita sopra una scala enigmatica e realizzata per coro a cappella, interessante per l’armonizzazione di questa particolare scala musicale che rende il brano innegabilmente affascinante. Immaginiamo, pur considerando la decisione discutibile, che la scelta sia dovuta al fatto che gli organizzatori hanno rispettato l’elemento storico di questo pezzo che lo vide escluso alla prima assoluta avvenuta del 7 aprile 1898 all’Opéra di Parigi. Ad oggi buona parte della critica considera i Quattro Pezzi Sacri entità felicemente unitaria e i brani, anche se c’è da dire che possono essere eseguiti, e spesso sono eseguiti, singolarmente ma, senza dubbio, si è persa una buona occasione per proporli tutti e quattro.
L’esecuzione di questi indiscussi capolavori è risultata del tutto apprezzabile in primo luogo per la partecipazione del Coro di Santa Cecilia diretto da Andrea Secchi che è riuscito a dare i giusti impulsi per le parti corali dei tre brani verdiani in special mondo quando è intervenuto cantando ‘a cappella’ mostrando anche grande solidità in tutte le sezioni sia per le voci femminili e maschili ma anche per il tipo di voce specifico di ogni membro della formazione. Al termine della prima parte il coro è stato applaudito veementemente assieme al direttore Andrea Secchi dimostrazione di un gradimento senza riserve da parte del pubblico che si è esteso anche alla voce solista, il soprano Roberta Mantegna, efficace nel breve ma significativo intervento previsto al termine del Te Deum. Applausi intensi e convinti rivolti anche ad Harding e a tutta l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.

Nella seconda parte del concerto c’era la Sinfonia n. 2 in Do minore “Asrael” Op. 27 del compositore ceco Josef Suk che con questo concerto ha fatto l’ingresso per la prima volta nei concerti dell’Accademia di Santa Cecilia anche se c’è da dire che il nome di Josef Suk non era sconosciuto per la nostra prestigiosa istituzione musicale in quanto partecipò ad alcuni concerti da camera negli anni compresi tra il 1896 e il 1922 come secondo violino del Quartetto Boemo del quale Suk fu fondatore i cui concerti romani, come narrano le cronache, furono salutati da entusiastici successi decretati dal pubblico romano.
Suk rientra in quel genere di musica di derivazione ceca e slovacca che pur annoverando tra le proprie fila musicisti di grande spessore come Smetana, Dvorak e Janáček, eseguiti ovunque nelle sale da concerto, è una scuola musicale di valore indiscutibile che ha al suo interno anche altri musicisti importanti che hanno contribuito alla sua evoluzione che ha attraversato diversi secoli, dal Medioevo fino ad oggi, restando però poco eseguiti come questo sinfonia di Suk che abbiamo ascoltato questa sera.

Suk, quindi, è uno di questi, un musicista che mostra di essere appartenente pienamente al suo tempo la cui poetica musicale, come dimostra l’ascolto di questa sinfonia, si rifà alla scuola nazionale del suo paese, in particolare per il colore orchestrale e i timbri strumentali utilizzati in maniera del tutto espressiva ai quali si aggiunge la chiara ispirazione ai grandi sinfonisti dell’epoca come Bruckner e, soprattutto, Richard Strauss e Gustav Mahler con quest’ultimo che con molta evidenza entra specificatamente in questa composizione per rappresentare la tragedia della morte anche se, a volte, pecca per troppa elefantiasi sonora come capita frequentemente per questo genere di sinfonismo.
Suk scrisse questa sua seconda sinfonia per omaggiare due morti importanti per la sua vita, sia personale che professionale. Il 1° maggio del 1904 morì il suocero Antonin Dvořák, suo insegnante di composizione, evento che stimolò in Suk la necessità di omaggiare il suo maestro iniziando a comporre questa nuova opera sinfonica. Durante la composizione la tragedia divenne anche personale e si amplificò, perché il 6 luglio del 1905 morì anche la moglie Otilie Dvořáková, figlia dello stesso Dvorak, evento che lo indusse ad ampliare il suo progetto intitolando la sinfonia ‘Asrael’ personaggio dell’Antico Testamento. Lo stesso Suk spiegò il motivo di questa scelta perché disse:
“Asrael il temibile Angelo della Morte, ha colpìto con la sua falce una seconda volta. Una tale sventura o distrugge un uomo o porta in superficie tutti i poteri dormienti in lui. La musica mi ha salvato”.
La sinfonia fu completata nell’ ottobre 1906 ed eseguita per la prima volta a Praga presso il Teatro Nazionale il 3 febbraio del 1907 diretta da Karel Kovařovic.

Per la Sinfonia n. 2 in Do minore “Asrael” Op. 27 Josef Suk concepì una partitura basata su una scintillante orchestrazione. La sinfonia, infatti, è scritta per un organico composto da ottavino, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, clarinetto basso, 2 fagotti, controfagotto, 6 corni, 3 trombe in do, 3 tromboni, tuba, timpani, percussioni, arpa e archi, un organico che all’evidenza dei fatti risulta essere del tutto simile nell’insieme a quello utilizzato da Verdi per i suoi Pezzi Sacri.
Suk ha strutturato la sinfonia in cinque movimenti suddividendola in due parti ideali, ognuna delle quali dedicata ad uno dei congiunti deceduti e omaggiati con questa partitura. La prima, dedicata al ricordo di Dvořák con tre movimenti, un Andante dai caratteri funebri che ci fanno scorgere nell’immaginario Asrael in cerca della preda da colpire che incede con il suo grave andamento per sfociare in un elegante Andante sostenuto riflessivo e colmo di misticismo che ci conduce al finale di questa prima parte, un Vivace di chiara ispirazione folcloristica ma che contiene un contrastante elemento demoniaco che nel complesso ricorda, non troppo alla lontana, la maestria strumentale di Dvořák.
La seconda parte è aperta da uno struggente Adagio nel quale si riflette il ricordo della sua amata Otilie e dominata da quel senso di vuoto che si può provare solo dopo la morte di una persona cara e che qui si materializza con un efficace senso di sospensione che ci proietta con forza nel finale, il quinto movimento Adagio e Adagio maestoso, grande suggello di una composizione, che pur contenendo alcuni momenti di stanca, possiede innegabilmente degli spunti drammatici di grande effetto e pregnanza dovuti, soprattutto, alla densità lirica e malinconica della musica con una cantabilità di chiara ispirazione, poetica e musicale, mahleriana.

Altro elemento importante di questo concerto era la prova di Daniel Harding il direttore che ha raccolto l’eredità di Pappano che per lunghi anni ha condotto l’orchestra ceciliana, artista mitico per il pubblico romano che, sentendo certi umori del pubblico, è ritenuto quasi un osservato speciale. Ci sembra che il direttore inglese stia raggiungendo progressivamente un rapporto di stima e fiducia con il pubblico che gli permette di completare con successo questo processo di integrazione e confermare il livello di eccellenza artistica ottenuta con Pappano.
La direzione di Harding è risultata convincente in tutte e due le parti del concerto eseguito con il giusto piglio verdiano tutto ciò che proponeva la prima parte grazie anche alla prova dei cori come precedentemente anticipato. Una speciale menzione per l’esecuzione della sinfonia di Suk eseguita con sicurezza e determinazione, dimostrando estrema cura nei particolari e nella preparazione della difficile parte orchestrale che è risultata adeguatamente sfavillante ed attenta ai colori e ai ritmi specifici della composizione.
Al termine del concerto (recita del 22 marzo) Harding è stato salutato da diverse ovazioni non solo da parte del numeroso pubblico convenuto alla Sala Santa Cecilia ma, anche, da parte dei membri della stessa orchestra che l’ha salutato con una ovazione dedicata. Una esecuzione dimostratasi di grande valenza per un programma tanto interessante quanto inusuale. Un successo che ha coinvolto anche tutta l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia che ancora una volta ha mostrato e confermato gli ottimi livelli raggiunti.
Claudio LISTANTI Roma 23 Marzo 2025
